
In che modo rimandi, citazioni e innesti animano fin dall’origine il rapporto fra pubblicità e cinema?
Possiamo dire che rimandi e citazioni sono il rapporto stesso. Se, come ho detto, la definizione stessa di film e di spot nasce dalla relazione fra testo e fruitore (potrei benissimo essere portato a confondere una pubblicità con un film e viceversa), è chiaro che la relazione fra pubblicità e cinema sta nel loro richiamarsi e rimandarsi a vicenda. Si è spesso parlato di pubblicità come forma di testualità parassitaria. Nel caso del product placement, ad esempio, è evidente che la marca sfrutta la storia di un film per cercare di stabilire un patto d’acquisto. Ma si può ridurre tutto a questo? A me pare di no. Per la sua stessa natura di ‘testo altro’ la pubblicità dentro il cinema costruisce sempre uno sfasamento temporale, spaziale e narrativo. Se nella storia si vede un prodotto, un marchio questo non è avulso dall’organizzazione complessiva del testo filmico. In semiotica, da molti anni, ci occupiamo di quello che viene chiamato il livello dell’enunciazione. L’enunciazione è un fenomeno complesso che a partire dagli studi di linguistica è diventato molto importante nell’analisi testuale. Con Denis Bertrand, possiamo dire, per semplificare in poche parole, che l’enunciazione è l’irruzione dell’extralinguistico nel testo. È ciò che è presupposto dall’esistenza stessa di quest’ultimo (qualcuno ‘deve’ averlo prodotto) e allo stesso tempo qualcosa che è continuamente nascosto dalla storia stessa. Ecco allora che il rimando, l’innesto, la citazione è immediatamente un meccanismo di ‘svelamento’, una marca dell’enunciazione che ci dice che esiste qualcosa prima del testo stesso, che ci rivela di altre nature del patto di lettura, per esempio quella economica e di marketing. Perché appare il prodotto di marca? Per la storia o per colui che vede la storia? A mio parere, la presenza della pubblicità nei film o di elementi cinematografici nelle pubblicità è prima di tutto questo: una rottura della diegesi e del patto primario fra spettatore e testo. Ci dice che c’è qualcosa d’altro, ci costringe a uno scarto. Ovviamente, questo non è senza conseguenze e soprattutto apre tutta una serie di possibilità che cerchiamo di investigare nel libro.
Quali strategie consentono alla pubblicità di essere insieme elemento interno e testualità esterna e autonoma al fenomeno cinematografico?
Qui mi pare di poter riprendere quanto detto nella risposta precedente. Una volta stabilito che il rapporto fra pubblicità e fenomeno cinematografico si basa sulla ‘rottura’ e sullo sfasamento dei piani, possiamo andare a vedere come questo si realizzi concretamente. Ci sono infatti tantissime declinazioni della presenza del pubblicitario nei film. Ovviamente c’è il classico product placement di cui parlerò più avanti e che nell’immaginario di tutti è la presenza, a volte buffa a volte persino imbarazzante di un prodotto dentro l’inquadratura. In verità, però, le cose sono assai più complesse. Certo James Bond che si versa il Martini sembra l’esempio perfetto, ma la pubblicità dentro al film occupa una infinità di posizioni e funzioni diverse. C’è appunto la presenza ‘semplice’ di un marchio ma spesso l’innesto del pubblicitario assume forme diverse e inusuali. Per esempio, un personaggio potrebbe vedere uno spot all’interno della storia con una sorta di inscatolamento metafilmico fra cinema e pubblicità. Oppure addirittura, il personaggio protagonista (un attore o un regista) potrebbe essere chiamato a girare uno spot all’interno della diegesi. In qualche caso (prendiamo Lost in Traslation) l’intera storia gira intorno a uno spot. Altre volte (in Scorsese, molto spesso) il personaggio non è legato al mondo del cinema, ma per qualche ragione partecipa o paga pubblicità per la sua azienda o per la sua attività. Il caso di Tarantino è interessante perché riesce a costruire delle vere e proprie brand identity immaginarie: la catena di fast food Big Kahuna o le sigarette Red Apple sono marchi fittizi che appaiono in diversi film del regista e vengono collocate in diversi contesti storici, tanto da poter ricostruire una vera e propria storia del marchio. A proposito delle sigarette Red Apple mi piace ricordare un esempio recente che è inserito nel volume: alla fine di Once Upon in Time in Hollywood in mezzo ai titoli di coda e completamente slegata dal resto della storia compare lo spot, o meglio il making of, dello spot che Rick Dalton alias Jake Cahill (il personaggio che interpreta nella serie western) alias Leonardo Di Caprio gira per le sigarette Red Apple. Non mi soffermo qui sui diversi piani che si vengono a incastrare con questo inserto a sorpresa, mi interessa più sottolineare come nel film si decide di posizionare la falsa ripresa pubblicitaria ai margini della diegesi, alla fine, quando stanno passando i titoli di coda. Eppure questo posizionamento non riduce la forza del gioco metafilmico. In qualche modo possiamo dire che l’inserimento della pubblicità nel film assume un ruolo apparentemente liminale, ma di fatto sempre importante e strategico per la organizzazione complessiva della storia. In questo senso, è illuminante il saggio di Martina Federico (co curatrice del volume) a proposito dei trailer: vere e proprio paradosso della forma breve a metà fra testo a sé stante ed elemento dipendente del film cui si riferisce.
Ovviamente, si può fare anche il ragionamento contrario e vedere come l’inserimento del cinematografico nel pubblicitario ha sempre ovviamente un effetto notevole anche se diverso.
Quali forme assume l’autorialità in pubblicità?
Parlare di autorialità pubblicitaria vuol dire entrare nel cuore del connubio tra pubblicità e cinema. Nel nostro volume Cinzia Bianchi ci offre una panoramica davvero completa su questo punto.
La cosiddetta “pubblicità d’autore” è infatti una definizione che di per sé racchiude fenomeni piuttosto variegati e che riguardano in estrema sintesi il lavoro che alcuni registi di cinema hanno compiuto nel contesto pubblicitario. In un capitolo del libro, Cinzia Bianchi tratteggia tale fenomeno dandone un riscontro storico e tentando di delineare anche una tipologia di possibili rapporti produttivi. Ci sono infatti registi cinematografici rinomati che hanno mosso i primi passi della propria carriera nell’ambito pubblicitario, altri che si sono prestati solo sporadicamente a girare spot, altri ancora che si sono sempre mossi durante l’intera carriera continuamente dai due ambiti di produzione audiovisiva. Non sempre i risultati raggiunti sono eccelsi, ma quando ciò accade siamo di fronte a testi esteticamente comparabili a produzioni considerate più importanti, come film o cortometraggi. Inoltre, come sottolinea Bianchi, la pubblicità d’autore si può delineare “come un possibile campo di sperimentazione artistica” essendo “una produzione testuale costitutivamente di frontiera, perché in essa vanno a conciliarsi le istanze proprie del discorso di una marca con gli stilemi (temi, ambientazioni, tecniche di regia e ripresa) di uno specifico regista cinematografico, a cui l’azienda ha affidato la singola campagna. Da parte sua, la marca ne può ricavare un prestigioso ritorno d’immagine nel discorso pubblico, veicolato attraverso i vari media, tra cui, sempre più importante, il web”.
Per delineare tale fenomeno ci si può riferire la lavoro di molti registi come, per fare solo pochi esempi, Ridley Scott, Wim Wenders, Martin Scorsese, David Lynch (a cui nel libro si dedica particolare attenzione), Roman Polanski, Spike Lee, Woody Allen così come, in ambito italiano, Federico Fellini, Sergio Leone, Franco Zeffirelli, Dario Argento, Gabriele Salvatores, Giuseppe Tornatore e, più recentemente, Paolo Sorrentino e Matteo Garrone.
Ognuno di loro interpreta in modo del tutto personale il rapporto con il modo della marca pubblicizzata: alcuni ripropongono negli audiovisivi pubblicitari temi, racconti o atmosfere tipiche dei loro film (come, per esempio, le realtà etniche minori, diventate sfondi adatti per molta pubblicità dopo gli spot di Spike Lee, o il multiculturalismo di Iñárritu); altri si riferiscono a generi cinematografici consolidati (come il noir francese per i profumi o come l’on the road per i jeans); altri ancora tentano di intercettare tendenze estetiche correnti (il linguaggio sinestetico per i profumi, il vintage per Lynch, ecc.); oppure possono inserirsi all’interno di un processo evolutivo del linguaggio pubblicitario stesso, poiché le marche, cercando di intercettare un’audience sempre più frammentata, tendono a declinare i loro messaggi su un numero crescente di media e a sfruttare al meglio le possibilità d’interazione offerte dal web (sono significative per delineare questo fenomeno le ultime campagne web di Campari girate da Sorrentino e Garrone). Tale ampio spettro di possibilità creative ha alla base un evidente bisogno di riconoscibilità autoriale e stilistica che deve trasparire dalle maglie del corpo testuale proposto: è fondamentale costruire, cioè, una rete di rimandi intertestuali alla propria produzione filmica, a un certo stile registico oppure, nella maggior parte dei casi, a una certa atmosfera cinematografica che il fruitore è abituato a riconoscere come tipici di un certo immaginario filmico.
Come si sviluppa la storia del product placement cinematografico?
Non in maniera lineare come potrebbe sembrare. Credo che il saggio scritto da me, Vanni Codeluppi, docente dello Iulm di Milano, e Silla Simonini, esperta e professionista del product placement, possa dare preziose indicazioni. A partire dal termine stesso ‘product placement’ che ha una vita relativamente breve se comparato all’atto cui si riferisce che invece ha origini antiche (precedenti anche al cinema stesso, basti pensare alle committenze rinascimentali che imponevano la presenza di uno stemma o del committente stesso nell’opera d’arte). Il termine, infatti, fu coniato solo a partire dagli anni Ottanta. Inizialmente si utilizzavano altri termini come “product plug” o “hidden plug”, in riferimento ad un prodotto o marca inseriti all’interno di una pellicola. Quindi in qualche modo era un riferimento più specifico: dove e come si ‘nascondeva’ un prodotto. Product placement ha sostituito molti altri vocaboli usati dall’industria cinematografica come: exploitation, tie-ups. “Exploitation” (utilizzo) in particolare, fin dal 1915, serviva per indicare sia gli eventi promozionali legati al film sia eventuali sponsor del film stesso o degli attori. Tie up e successivamente Tie in, invece, traducibili entrambi genericamente con “affiliazione” si svilupparono a partire dagli anni Venti e Trenta, a indicare direttamente la presenza di un marchio o di un prodotto sul grande schermo e/o il supporto diretto di un attore o di un’attrice dentro e fuori il film. Si vede bene come già da un punto di vista lessicale siamo di fronte a un percorso lungo e significativo. Il termine product placement negli ultimi trenta/quarant’anni ha avuto il merito di segnalare un cambiamento: il lavoro di marketing si concentra sempre più nel collocare il prodotto senza che questo rovini o incida troppo nella narrazione del film e, allo stesso tempo, nell’ottimizzare l’effetto di marketing con un ritorno di immagine efficace. Si afferma la separazione tra product integration e branded entertainment dove il primo si riferisce all’integrazione con la narrazione, mentre nel secondo caso l’oggetto pubblicitario viene reso il protagonista della storia. Questo è ancora più evidente nel caso dei fashion film dove l’intera opera è costruita intorno a un brand (rimando alle belle analisi fatte nel libro da Lucio Spaziante e Simonetta Buffo). Si vede bene, credo, anche a un occhio poco esperto, come cadano le divisioni fra analisi di marketing e analisi qualitativa. Il product placement è elemento che va studiato nella sua complessità con diversi strumenti e che evidentemente mostra la connessione strettissima fra testo e contesti, fra elementi economici e strutture semiotiche e narrative, tutti aspetti che sono alla base del nostro libro.
Ruggero Ragonese insegna Teorie della narratività e Marca e comunicazione digitale all’Università di Modena e Reggio Emilia. Fra le sue pubblicazioni: Farsi spazio (FrancoAngeli, 2015)