“Psicosociologia del maschilismo” di Chiara Volpato

Prof.ssa Chiara Volpato, Lei è autrice del libro Psicosociologia del maschilismo, edito da Laterza: a quasi dieci anni dalla prima edizione, come è cambiato il divario di genere?
Psicosociologia del maschilismo, Chiara VolpatoSicuramente sono cambiate molte cose, la presenza delle donne anche in ruoli apicali sta crescendo, come testimonia il fatto che l’Italia abbia per la prima volta nella sua storia una presidente del Consiglio dei ministri, ma anche che finalmente delle donne siano state chiamate a presiedere la Corte Costituzionale e la Corte di Cassazione.

Gli indici oggettivi ci dicono però che il “soffitto di vetro” continua a persistere in molte situazioni e che il divario di genere nel nostro paese è ancora lontano dall’essere colmato. Per fare un esempio in un ambito che conosco per esperienza personale, le nostre studentesse mostrano bravura e competenza all’università, ma incontrano poi difficoltà specifiche al momento dell’ingresso nel mondo del lavoro rischiando di non trovare posizioni adeguate alla loro preparazione, dato che i posti migliori o più remunerati continuano a essere assegnati, per tutta una serie di ragioni, ai loro compagni. Il mondo del lavoro è tuttora un mondo difficile per le donne.

Alle difficoltà di tipo storico e strutturale, si aggiungono difficoltà più recenti. Sono state, e continuano a essere, per esempio, le donne a pagare i prezzi più alti della pandemia di Covid-19, tanto che è stato creato un neologismo, shecession, per indicare come la disoccupazione le abbia toccate in modo particolare; la causa risiede principalmente in due motivi: molte donne sono state costrette a rinunciare al lavoro fuori casa perché sommerse dai compiti di cura, da un lato, e, dall’altro, il fatto che gli impieghi più facilmente ricoperti da donne sono concentrati in settori che più di altri sono stati penalizzati dalle misure di contrasto al contagio; va notato, inoltre, che la ripresa degli impieghi, registrata a partire dal 2021, riguarda soprattutto settori in prevalenza maschili.

Quali sono i processi psicologici e sociali che, nelle società occidentali, sorreggono il potere maschile?
Il potere maschile si basa prima di tutto su processi di tipo economico e politico, per i quali gli uomini traggono vantaggio dal far parte di un gruppo egemone, in termini di onore, prestigio, diritto al comando, possesso di risorse materiali. Per questo essi costituiscono oggettivamente un gruppo di interessi a favore della conservazione, le donne un gruppo di interesse in favore del cambiamento.

Il dominio maschile, per usare le parole di un grande sociologo, Pierre Bourdieu, è sostenuto dal maschilismo, presente nella vita quotidiana di noi tutti; esso può essere definito come un insieme di comportamenti e atteggiamenti di dominanza e superiorità esercitati dalla componente maschile della società, basata sulla divisione tradizionale dei ruoli, secondo la quale spetta all’uomo procurare le risorse per la famiglia e controllare la sfera pubblica e alla donna occuparsi del lavoro di cura all’interno della sfera privata. I processi che sorreggono tale costruzione sociale sono, come detto, processi storici, sociali, economici, che sono però ormai da decenni in via di cambiamento. Questi processi, che possiamo definire strutturali, sono sostenuti, a livello individuale, da meccanismi di tipo psicologico e psicosociale, che si esprimono nelle credenze, nelle rappresentazioni, nei valori che sottendono le nostre azioni quotidiane. A questo livello agiscono stereotipi e pregiudizi, che descrivono e prescrivono i comportamenti sociali, imponendo atteggiamenti diversi a uomini e donne; si pensi al doppio standard di genere, per il quale tutta una serie di azioni (ad esempio la libertà sessuale) sono permesse agli uomini e vietate alle donne.

L’ideologica sessista incide sulle valutazioni delle competenze, delle abilità, e delle prestazioni femminili nel mondo del lavoro e nella vita extra-lavorativa, dove si continuano a richiedere alle donne condotte basate su credenze sterotipiche.

Va però anche sottolineato che lo stereotipo femminile sta vivendo un cambiamento; non ha perso quelli che da secoli sono i tratti tipici femminili, ma ha acquisito anche tratti precedentemente considerati maschili, divenendo più complesso. Le donne sono oggi percepite come più capaci, ambiziose e assertive di qualche decennio fa, in conseguenza del nuovo ruolo assunto nel mondo del lavoro, ma continuano a essere pensate come calde, altruiste, generose, perché continuano ad avere ruoli domestici e di cura; il loro ruolo è quindi cambiato per alcuni aspetti, ma non per altri. Lo stereotipo maschile resta invece relativamente statico, sebbene si registri un lieve aumento nelle attribuzioni di tratti legati all’attenzione verso gli altri.

Attraverso quali meccanismi si costruisce la presunta superiorità maschile e si perpetua la subordinazione femminile nel lavoro, nella politica e nei mass media?
L’atteggiamento sessista ostacola la piena partecipazione delle donne al mondo del lavoro attraverso credenze, stereotipi, pregiudizi, ereditati dal passato, ma riattualizzati in anni recenti come reazione all’avanzata femminile; questi elementi compongono un quadro ideologico che continua a condizionare in modo pesante l’attività delle donne. Si pensi, ad esempio, agli stereotipi che vogliono il genere femminile dedito alle relazioni interpersonali e meno dotato di quello maschile per quanto riguarda ambizione, capacità, spirito di iniziativa. Il percorso delle donne nel mondo del lavoro, della politica, della comunicazione si muta così spesso in un labirinto, nel quale è difficile trovare l’uscita verso sbocchi positivi. Tale difficoltà è bene illustrata dalle metafore usate per descrivere la sottorappresentazione delle donne nel mondo del lavoro: si parla di glass ceiling, soffitto di cristallo, per riassumere quell’insieme di barriere invisibili che impastoiano le donne nello sticky floor, il pavimento appiccicoso che le trattiene nelle posizioni medio-basse, e di leaky pipeline, per indicare la dispersione di risorse femminili, attraverso l’immagine di una conduttura che perde acqua così che il flusso che parte dalla sorgente si riduce, strada facendo, a poche gocce.

Nella letteratura psicosociale esistono molti studi, nei quali i partecipanti sono invitati a esaminare del materiale stimolo (il caso più classico è l’analisi del curriculum vitae) che si dice essere stato presentato da candidati, maschi e femmine, per ottenere un posto di lavoro. Dagli anni Sessanta dello scorso secolo, quando iniziarono a essere condotti, fino ad oggi i risultati sono coerenti: lo stesso materiale viene giudicato in modo più favorevole se attribuito a un uomo piuttosto che a una donna, soprattutto se le candidature riguardano lavori considerati maschili. Può essere interessante notare che tali risultati sono stati trovati nei campi più disparati, compreso quello scientifico.

Perché gli uomini vengono regolarmente giudicati superiori alle donne? Una delle ragioni sta nel fatto che status e competenza vanno insieme e gli uomini godono di uno status superiore a quello delle donne. Quindi vengono giudicati più competenti per default. Un uomo mediocre può quindi essere creduto competente grazie alla sua appartenenza al genere maschile, mentre una donna si trova a dover contrastare le credenze sulla minore competenza femminile producendo risultati superiori alla norma. Le donne, insomma, devono portare nel mondo del lavoro, ma anche in quello della politica e dei media, un peso in più: provare continuamente a sé stesse e agli altri di essere all’altezza della situazione. La situazione peggiora quando donne e uomini lavorano insieme: in questi casi il contributo femminile viene sistematicamente svalutato rispetto a quello maschile, dato che le donne sono ritenute meno competenti, influenti, autorevoli.

Un gruppo di psicologhe sociali dell’Università di Bologna, guidato da Monica Rubini, ha negli ultimi anni mostrato un altro meccanismo interessante, che interviene nei processi di selezione e assunzione: le donne vengono giudicate su piani molteplici e differenziati rispetto agli uomini. Le studiose hanno provato come, nell’ambito professionale, gli uomini siano sostanzialmente valutati sulla dimensione della competenza; le donne, invece, oltre a essere valutate su tale dimensione, lo sono anche su quella della moralità e delle capacità relazionali. Questo rende il giudizio che le riguarda più articolato e complesso, moltiplicando le possibilità di critica ed esclusione.

Un’altra manifestazione di sessismo nel mondo del lavoro, della politica e dei media è l’insistenza sulle prescrizioni stereotipiche, che vogliono la donna sensibile, modesta, gentile, affettuosa, attenta agli altri, poco competitiva, e sono responsabili della mancata corrispondenza tra tale immagine femminile e i ruoli professionali impegnativi. Si tratta di prescrizioni positive, che diventano però un boomerang, perché rendono difficili la promozione di sé, l’esercizio dell’autorità, la critica ai subordinati.

Potremmo continuare a lungo a descrivere i processi psicosociali che ostacolano i percorsi femminili. Mi limito, per ragioni di spazio, a evocarne solo un altro: il processo di sessualizzazione e oggettivazione della figura femminile. Nel mondo dei media, ma sempre di più anche in quello politico e lavorativo, bellezza ed età rischiano di diventare le dimensioni centrali del giudizio concernente le donne, in una sorta di condensazione della vita in pochi anni: le bambine sono rese adulte prima del tempo, le donne hanno l’obbligo di restare giovani in eterno, come se non fosse per loro accettabile mostrare lo scorrere dell’esistenza, in una traduzione del giudizio estetico in giudizio morale.

Nei media, vecchi e nuovi, le donne vengono sessualizzate molto più di quanto avvenga per gli uomini sia dal punto di vista quantitativo, sia dal punto di vista qualitativo; vengono presentate come oggetti di consumo, uguali, interscambiabili, privi di individualità, con conseguenze pesanti sul piano personale e sociale. E questo è grave dato che i media svolgono una funzione socializzante, influenzando atteggiamenti, comportamenti, credenze, mostrando quali comportamenti sono possibili e socialmente desiderabili, contribuendo alla definizione dei ruoli di genere, diventando modelli dell’agire sociale. Come moltissime ricerche hanno in questi anni mostrato, i processi di sessualizzazione e oggettivazione facilitano l’accettazione degli stereotipi di genere e dei miti dello stupro e la messa in atto di comportamenti inappropriati come molestie, aggressioni fisiche, violenze sessuali.

Le rappresentazioni sessualizzate dei corpi femminili influenzano la percezione del corpo e i vissuti di soddisfazione e insoddisfazione a tale percezione legati; questi processi sono particolarmente delicati nel caso di bambine, preadolescenti e adolescenti, alle quali i media e i social media propongono con crescente insistenza di adeguarsi a standard di bellezza irraggiungibili con l’obiettivo di creare infelicità e quindi moltiplicare i consumi. Le immagini mediatiche provocano processi di auto-oggettivazione con precise conseguenze negative: eccessiva focalizzazione sull’aspetto fisico, vergogna per non sentirsi all’altezza, ridotto interesse per l’impegno scolastico, rischi concreti di disagio psicologico.

È possibile capovolgere gli schemi culturali tradizionali? Come?
Cosa fare? La prima cosa che le persone – donne e uomini – possono fare per cambiare la situazione è prestare maggiore attenzione. Spesso passiamo vicino alle cose senza vederle. Quindi, il primo lavoro da fare è imparare a prendere consapevolezza del divario di genere e intervenire attivamente, una volta che lo abbiamo percepito, senza cedere al desiderio di lasciar perdere per ragioni di comodità o tranquillità. Questo non significa che dobbiamo combattere 24 ore al giorno, ma è necessario tener presente che un certo modo di vivere non è scontato e inaffrontabile. Questo, a mio parere, è il primo lavoro: Vedere, essere critici, intervenire.

E poi bisogna procedere a un lavoro di ripensamento e rivalutazione dei parametri culturali con i quali affrontiamo le situazioni quotidiane e non solo. Alcuni aspetti tradizionalmente considerati appannaggio del genere femminile – e per questo poco considerati – devono diventare centrali nel patrimonio culturale comune. Il lavoro di cura che noi esseri umani possiamo dedicare l’uno all’altro è uno degli aspetti più importanti e preziosi della vita. Il Covid dovrebbe avercelo insegnato. Finora però l’esercizio della cura è stato sottovalutato perché attribuita al femminile. Siamo abituati a non dare importanza né alla cura delle persone, né alla cura delle relazioni, né alla cura dell’ambiente. Questi diversi aspetti della cura, molto vicini tra loro, costituiscono invece i valori fondamentali, i primi a cui una società dovrebbe porre attenzione. Il fatto che non siano considerati tali costituisce, a mio parere, un motivo di allarme: se non metteremo la cura al primo posto delle considerazioni politiche e culturali rischieremo di precipitare in una situazione molto pericolosa, come le guerre in corso ci stanno purtroppo insegnando.

Chiara Volpato è professoressa senior di Psicologia sociale presso l’Università di Milano-Bicocca. I suoi interessi di ricerca riguardano le relazioni tra gruppi, le disuguaglianze, la deumanizzazione, il pregiudizio, il sessismo, i rapporti tra storia e psicologia sociale. Ha pubblicato per Laterza: Deumanizzazione. Come si legittima la violenza (2011); Psicosociologia del maschilismo (2013; nuova edizione aggiornata 2022); Le radici psicologiche della disuguaglianza. Per Rosenberg & Sellier sta curando Le molestie sessuali. Un’indagine empirica, che uscirà a marzo 2023.

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