
Per rispondere a questa domanda è necessario un inquadramento storico.
La psichiatria viene definita di solito, sulla base di una riduzione positivistica (tipica della seconda metà dell’Ottocento), come una branca della medicina, strettamente apparentata alla neurologia. Tuttavia, sia la sua origine storica, e in particolare istituzionale, sia il suo sviluppo durante tutto il Novecento (dalla fondazione della psicoanalisi in poi) suggeriscono una collocazione scientifico-disciplinare della psichiatria decisamente più complessa.
Innanzitutto, certamente c’è la medicina; e si può senz’altro affermare che l’interpretazione razionale dei disturbi mentali ha costituito un capitolo della medicina per due millenni. Ma la psichiatria dell’età moderna non nasce come disciplina scientifica, fondata su quella razionalità medica che ha il suo paradigma nelle indagini di Ippocrate e Galeno; nasce piuttosto come sforzo di mettere in atto una efficace gestione sociale della “follia” nel quadro della più generale problematica della gestione della devianza: sarà lo sforzo di separare i malati di mente dai criminali che condurrà al costituirsi di un sistema asilare specializzato (il manicomio insomma). In quest’ottica, dunque, la psichiatria è materia di pertinenza delle discipline giuridiche, in quanto apparato di conoscenza, classificazione, custodia e rieducazione di soggetti attivamente e potenzialmente antisociali.
Inoltre, da più di un secolo la psichiatria si trova a interagire con la psicologia, ossia con la scienza della soggettività e del comportamento; e ciò avviene in tutti quei casi in cui soggettività e comportamento appaiono per qualche motivo anomali. In questa prospettiva, la psichiatria diviene la scienza generale dei disturbi psichici, come tale praticata sia dagli psichiatri, sia da una parte degli psicologi clinici.
Infine, negli anni 1960-70 lo sviluppo della psicologia interpersonale e sociale, e la comparsa di correnti critiche all’interno della sociologia (in particolare, la “sociologia della devianza”), hanno favorito avvicinamenti e fusioni settoriali anche fra quest’ultima disciplina e la psichiatria.
E dunque, per venire alla domanda, il fatto che la psichiatria si situi al punto d’incontro di questi vari campi le conferisce una natura eterogenea, partecipe sia delle scienze biologiche sia delle scienze umane, a cavallo fra l’interpersonale e il personale, fra il sociale e l’individuale. Questa eterogeneità è la fonte primaria di molte difficoltà di cui la psichiatria non è mai riuscita a venire a capo.
In questo volume a più voci ci siamo allora proposti di discutere se, ed eventualmente in quali modi, le odierne scienze della mente e del cervello possano fornire concetti, teorie e dati utili per mediare fra i differenti livelli descrittivi ed esplicativi di cui la psichiatria, in ragione della sua natura composita, deve avvalersi nell’indagine sui mental disorders, le patologie della mente.
È oggi possibile, grazie alle moderne scienze della mente e del cervello, restituire un nuovo e diverso statuto scientifico alla psichiatria?
Come si diceva, il volume s’interroga sulla possibilità che le odierne scienze della mente e del cervello ci aiutino a venire a capo di almeno alcune delle difficoltà in cui la psichiatria si avvolge in ragione della sua natura composita. In particolare, ci siamo chiesti se queste scienze ci permettano di uscire dalle secche della tradizionale contrapposizione tra concezioni biologiche e concezioni psicologiche dell’indagine psichiatrica. O, per riferirsi alle due grandi scuole in cui si divise la psichiatria nella prima metà dell’Ottocento, fra il punto di vista “fisico” o “somatico” (adottato da studiosi di tradizione illuminista, inclini a una visione non tanto pedagogico-rieducativa quanto piuttosto strettamente medica della follia) e il punto di vista “psichico” (sostenuto da studiosi influenzati dalle idee romantiche e orientati in un senso che oggi definiremmo “psicodinamico”).
Alla fine ebbe la meglio il punto di vista “somatico”, o meglio “organicistico”; e negli ultimi decenni del secolo la psichiatria di area tedesca sposò l’idea che le malattie mentali sono malattie cerebrali. Lo psichiatra era, al tempo stesso, un anatomo-patologo del cervello; e la psichiatria non era che patologia cerebrale. In particolare, un’ipotesi causale, quella dell’origine sifilitica della paralisi progressiva, costituì il modello ideale di una futura catalogazione delle malattie mentali come malattie del sistema nervoso.
Questo sogno riduzionista, però, era destinato a non avverarsi. E nel corso del Novecento al filone della psichiatria biologica, legato alla pratica e alla mentalità medica e alle indagini genetiche e biochimiche, si sono aggiunti altri filoni che hanno cercato di rilanciare l’orientamento psicologico in psichiatria, vuoi promuovendo un dialogo con la tradizione psicodinamica, vuoi utilizzando dati provenienti dalla psicologia dell’infanzia e dello sviluppo, dalla psicologia sociale, e infine da correnti della psicologia sperimentale come il comportamentismo e, a partire dagli anni settanta, il cognitivismo. Ed è sugli effetti della rivoluzione cognitivista sull’indagine psichiatrica che si appunta l’attenzione del volume che abbiamo curato.
Qui è bene fare chiarezza su un punto. Il progetto di una “neuropsichiatria cognitiva” o di una “neuroscienza cognitiva clinica” non è – o meglio, non dovrebbe essere – una riproposizione della vecchia psichiatria organicistica. Ciò si verifica quando l’apparato esplicativo della psichiatria viene limitato alle risorse della biologia molecolare, come nel caso del “fondamentalismo genetico-molecolare” proposto dal celebre neuroscienziato Eric R. Kandel. Ma una volta assunta la neuroscienza cognitiva come quadro di riferimento entro cui sviluppare modelli dei disturbi mentali, è necessario adottare una prospettiva non già riduzionistica ma pluralistica. Per il riduzionista la psicologia serve a descrivere il comportamento, formulare ipotesi, progettare ambienti sperimentali e molte altre cose ancora; questi sono però soltanto compiti di natura euristica: una volta ottenute le spiegazioni molecolari e cellulari, alle indagini di livello più alto non resta alcunché da spiegare. Per il pluralista, invece, non esiste un microlivello fondamentale e le entità dei livelli più alti (quelle di cui ci parlano le scienze psicologiche e, possiamo aggiungere, le scienze sociali) continuano a svolgere un ruolo causale ed esplicativo anche quando si sono approntate le spiegazioni che si situano ai livelli più profondi (cellulare o molecolare). Questa prospettiva anti-riduzionistica si applica alla neuroscienza cognitiva, e quindi alla neuroscienza cognitiva clinica, nella misura in cui queste concepiscono i processi psicologici come processi di elaborazione di informazione realizzati nei circuiti cerebrali.
Andiamo più a fondo su questo punto. In un’ottica pluralista il difetto più grave della visione riduzionista della relazione fra i livelli inferiori e quelli superiori è il suo carattere unidirezionale: nel caso in cui non sia possibile istituire una chiara corrispondenza fra una categoria psicologica e una categoria neurobiologica, la psicologia è la sola imputabile del fallimento. L’ottica pluralistica è invece bidirezionale: la psicologia dovrebbe essere sottoposta a revisione alla luce delle scoperte della neuroscienza, e viceversa. Il pluralismo allora sposta la nostra attenzione dalla riduzione all’integrazione. A tale proposito, Lindley Darden e Nancy Maull hanno parlato di teorie che promuovono l’integrazione istituendo collegamenti tra i fenomeni studiati in due o più campi d’indagine, ma senza che questo dia luogo alla priorità di un campo rispetto all’altro[1]. L’istituzione di queste connessioni costituisce un’euristica della scoperta in quanto ciò che è noto in relazione a un certo insieme di fenomeni promuove ipotesi relative a un altro insieme di fenomeni. Per esempio, la teoria cromosomica dell’eredità mise in relazione i fattori mendeliani (che erano definiti funzionalmente sulla base dei tratti di cui erano responsabili) con i cromosomi, inducendo a ipotizzare che i fattori mendeliani fossero fisicamente localizzati sui cromosomi: l’istituzione di questo nesso ha costituito il fondamento del programma della genetica classica. In questo esempio, si noti, la teoria ha stabilito un nesso fra entità la cui funzione è l’oggetto di un campo di indagine (la genetica) ed entità la cui struttura è l’oggetto di un altro campo (la citologia).
Ebbene sono teorie di questo tipo che vengono costruite in neuroscienza cognitiva; e lo strumento con cui questa istituisce nessi fra strutture cerebrali e funzioni psicologiche è un tipo di spiegazione che scompone la mente in meccanismi di elaborazione di informazione (o “computazionali”) che sono realizzati dalla biochimica cerebrale. In questo quadro, i disturbi psichiatrici sono riconcettualizzati come il prodotto di disfunzioni di meccanismi neurocomputazionali.
Come possono interagire psichiatria e scienze cognitive?
Questa interazione ha già una storia quarantennale. È infatti a partire dagli anni 1980-90 che i neuropsicologi cognitivi prima e i neuroscienziati cognitivi poi si sono interessati alla psichiatria. I primi esemplari di una psichiatria ispirata dalle scienze della mente sono stati l’ipotesi secondo cui le difficoltà a carico dell’interazione sociale presenti nel disturbo dello spettro autistico sarebbero riconducibili alla compromissione di meccanismi deputati alla “mentalizzazione”; la correlata ridefinizione della schizofrenia come “autismo a tarda insorgenza”; la spiegazione neuropsicologica di alcuni deliri da identificazione errata (come il delirio di Capgras o il delirio di Cotard); e infine la spiegazione delle condotte psicopatiche come l’esito dell’assenza o del malfunzionamento di un “meccanismo di inibizione della violenza”. Tutte queste ricerche sono messe a tema nella seconda parte del nostro volume.
Questi contributi pionieristici sollecitarono una riflessione epistemologica e negli anni Novanta alcuni studiosi auspicarono che la psichiatria smettesse di fare esclusivo affidamento sulle categorie basate sui sintomi e i segni (ossia, rispettivamente, la sintomatologia soggettiva e oggettiva) del Diagnostic and Statistical Manual of Mental Disorders (DSM). I tempi erano maturi per orientare la psichiatria nella direzione, per l’appunto, di una neuropsichiatria cognitiva. Hadyn Ellis è accreditato per essere stato il primo, nell’ottobre del 1991, a utilizzare in pubblico il termine “cognitive neuropsychiatry” per designare l’applicazione dei metodi della neuropsicologia cognitiva ai disturbi psichici. Nel 1992, in The Cognitive Neuropsychology of Schizophrenia, Cristopher Frith gettò le basi di questa neuropsichiatria cognitiva, mostrando in modo sistematico come i principi della neuropsicologia cognitiva potevano essere applicati ai fini della comprensione di sintomi psichiatrici quali i deliri e le allucinazioni. Nel 1996 fu pubblicato il volume, curato da Halligan e Marshall, Method in Madness: Case Studies in Cognitive Neuropsychiatry; e lo stesso anno esce il primo fascicolo della rivista Cognitive Neuropsychiatry. Più recentemente, in questa direzione si è mosso il National Institute of Mental Health con il progetto Research Domain Criteria, volto a elaborare un nuovo sistema di classificazione dei disturbi mentali fondato sull’integrazione di dati provenienti dalla genetica, l’epigenetica e le neuroscienze[2].
Ora, nel volume il progetto di fare della psichiatria una branca della neuroscienza cognitiva non è acquistato a scatola chiusa. È esaminato criticamente, soprattutto nella prima parte del libro. Per esempio, ci domandiamo se questo progetto sia davvero in grado di svolgere tutto il lavoro esplicativo richiesto dalla psichiatria. In particolare, se la neuroscienza cognitiva possieda le risorse necessarie per occuparsi delle dimensioni di livello “personale” della disciplina. Questo è un problema che sarà avvertito più o meno intensamente a seconda delle opinioni in merito al modo in cui filosofia e scienza devono interagire. Non costituisce problema se sottoscriviamo la convinzione (nota come “materialismo eliminazionista”) che la filosofia dovrebbe mettere al primo posto la rettifica dell’immagine ordinaria di noi stessi come persone alla luce della concezione scientifica di noi stessi come macchine neurocomputazionali. È invece un grosso problema qualora si ritenga che l’analisi filosofica della cosiddetta “psicologia del senso comune” (ossia l’immagine ordinaria di noi stessi come agenti caratterizzati da coscienza, razionalità e agire deliberativo) imponga un vincolo ineliminabile sulla teorizzazione scientifica. In questo secondo caso, si rende opportuna una politica delle pari opportunità: ci si muoverà avanti e indietro fra il livello personale e quello subpersonale, operando revisioni dell’immagine ordinaria e di quella scientifica ogniqualvolta è necessario, così da perseguire l’ideale che il filosofo Wilfrid Sellars ha definito “una visione stereoscopica”.
Dunque, per illustrare questo approccio compatibilista, consideriamo quanto Giovanni Jervis scrive in Complessità e ricerca in cinquant’anni di psichiatria in Italia. La psichiatria, osserva lo studioso, continua ad avere «due parti, o se vogliamo due anime: una scientifica e l’altra umanistica. La parte scientifica è quella che si trova più a suo agio con i farmaci, e riporta la psichiatria alla sua matrice medica. La parte umanistica è quella che si trova più a suo agio con la psicoterapia»[3]. Ora, prosegue Jervis, questa parte della psichiatria, la parte psicologica, umana, e anche sociale, di soggettività, di rapporto e di contesto, è certamente diventata nel corso degli ultimi decenni meno impressionistica, più realistica, più credibile: ma non è certamente diventata qualcosa di scientifico in senso stretto. Certo, oggi siamo molto meglio attrezzati rispetto a quella psichiatria di impronta positivistica che, mancando dei concetti di funzione e di soggettività, non poteva far altro che trasferire direttamente e senza residui l’aspetto esperienziale, o soggettivo, della vita mentale sul terreno oggettivo degli eventi misurabili. La prospettiva cognitivista ci consente oggi di intendere la psiche non già, positivisticamente, come un mondo di fatti, o addirittura di oggetti, bensì come un campo di effetti: i modi di presentarsi alla nostra attenzione di taluni insiemi di funzioni psicobiologiche. Ma se è corretto intendere i fenomeni mentali come funzioni realizzate nella biochimica cerebrale, che si presentano alla nostra attenzione secondo i modi della soggettività, la fenomenologia e l’esistenzialismo ci hanno fatto capire che i modi della soggettività sono tali da non poter mai essere immediatamente tradotti in termini oggettivi. Pertanto il problema della soggettività va sempre studiato a partire, contemporaneamente, dalle sue due estremità: l’estremità dei processi neurocognitivi e quella dell’esperire.
Quale contributo offre, in una cornice cognitivo-evoluzionistica, la psicologia dinamica alla psichiatria?
Negli Stati Uniti in primo luogo (in particolare con Adolf Meyer) e dopo la seconda guerra mondiale in vari paesi europei (la Francia, ma anche la Gran Bretagna) gli orientamenti psicanalitici e psicodinamici introdussero nella tradizione medico-psichiatrica sia una serie di concetti psicologico-clinici di uso quotidiano (come quelli di elaborazione inconscia, di complesso, di rimozione, di razionalizzazione, di meccanismi di difesa, di solidità e coesione dell’Io, ecc.) sia una serie di importanti cautele tecniche nella conduzione del rapporto medico-paziente.
All’evoluzione della psichiatria nella direzione di una neuroscienza cognitiva clinica si è però accompagnata l’evoluzione della psicoanalisi nella direzione di una psicologia dinamica che procede in una cornice cognitivo-evoluzionistica, che è messa a tema nella terza parte del volume.
Anche qui un po’ di storia è utile. A partire dagli anni trenta del secolo scorso cominciò a manifestarsi uno spostamento di attenzione della tematica affettiva tipica del bambino fra i tre e i sei anni alla tematica affettiva del bambino nel primo anno di vita, e quindi dalla tematica dei conflitti nascenti dal triangolo delle rivalità edipiche (bambino-madre-padre), alla tematica più precoce, delle fragilità dell’Io, cioè di quell’intima insicurezza personale che sembra avere origine in insufficienze nella relazione primaria madre-bambino. Su questo mutamento, centrato prevalentemente su problemi clinici, cioè di trattamento, si inserirono altri spunti di revisione riguardanti la concezione della mente e dell’individuo. Il più importante concerne i problemi connessi alla teoria delle pulsioni. L’evoluzione di questo tema ha dato luogo, all’interno della psicoanalisi, ad almeno due filoni. Da un lato ha preso corpo il progetto di svincolare il metodo clinico psicoanalitico, e la conoscenza psicoanalitica, dai metodi delle scienze esatte per ancorarli invece a un’indagine di tipo ermeneutico. Dall’altro lato l’apertura della psicoanalisi verso le prospettive cognitiviste, evoluzionistiche ed etologiche per merito di alcuni esponenti della scuola psicoanalitica britannica, ha dato luogo alla doppia tematica delle relazioni oggettuali e dell’attaccamento. È questo secondo filone che può contribuire a una psichiatria informata dalle scienze cognitive.
Nel tentativo di sostituire il naturalismo positivistico di Freud col naturalismo cognitivo-evoluzionistico delle odierne scienze della mente e del cervello, questa tradizione psicodinamica ha analizzato e sviluppato le teorie psicoanalitiche a contatto con tutte quelle ricerche sistematiche che — soprattutto negli ultimi quarant’anni — si sono sforzate di chiarire i modi della presenza del biologico all’interno dello psichico. In tal modo, essa ha raccolto il contenuto critico della psicoanalisi freudiana: il progetto di una teoria dell’inconscio come organo della critica della soggettività autocosciente. Ora, però, l’inconscio è il livello di analisi subpersonale del cognitivismo. A tale proposito, Morris Eagle ha parlato di un processo di crescente “cognitivizzazione” in atto in seno alla psicoanalisi contemporanea[4]. Nel caso di costrutti come i “modelli operativi interni” di John Bowlby, le “rappresentazioni interattive generalizzate” di Daniel Stern o le “strutture di interazione” di Beatrice Beebe e Frank M. Lachmann, l’inconscio freudiano è stato sostituito da un inconscio cognitivo di rappresentazioni che sono state acquisite nella prima infanzia e riflettono la storia delle interazioni precoci dell’individuo con le figure genitoriali.
Nella terza parte del volume questa psicologia dinamica di impianto cognitivo-evoluzionistico costituisce la cornice per una modellistica clinica che attinge alle ricerche sulla regolazione delle emozioni, della mentalizzazione, della memoria autobiografica, temi oggi al centro delle scienze psicologiche e della neuroscienza cognitiva.
Rossella Guerini ha conseguito una laurea in Psicologia a indirizzo neuropsicologico alla Sapienza Università di Roma, un dottorato in Scienze cognitive all’Università di Trento e una specializzazione in Psicoterapia all’Associazione di psicologia cognitiva, Roma. Lavora privatamente in qualità di psicologa clinica e forense e collabora in qualità di consulente tecnico con il Tribunale ordinario di Tivoli. È collaboratrice di ricerca e cultrice della materia all’Università Roma Tre. I suoi interessi in ambito di ricerca vertono principalmente sui temi legati alla cognizione sociale, l’identità narrativa, l’autocontrollo e i processi decisionali.
Massimo Marraffa ha ricevuto la sua formazione in Filosofia e in Psicologia alla Sapienza Università di Roma. Allievo dello psichiatra Giovanni Jervis, ha conseguito il dottorato di ricerca in Filosofia all’Università Roma Tre, dove ora insegna Filosofia della mente e Filosofia della psichiatria. È iscritto all’ordine degli psicologi del Lazio. Da anni impegnato a riflettere sui fondamenti teorici delle scienze psicologiche e sull’interazione fra psicopatologia e scienze cognitive, la sua pubblicazione più recente è: Percezione, pensiero, coscienza. Passato e futuro delle scienze della mente, Rosenberg & Sellier, Torino 2019.
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[1] L. Darden e N. Maull, Interfield theories, in “Philosophy of Science”, 44 (1977) pp. 43-64, <http://faculty.philosophy.umd.edu/LDarden/Research/pubs/ift.html>.
[2] <https://www.nimh.nih.gov/research/research-funded-by-nimh/rdoc/index.shtml>
[3] G. Jervis, Contro il sentito dire. Psicoanalisi, psichiatria e politica, a cura di M. Marraffa, Bollati Boringhieri, Torino 2014, p. 93, <https://www.bollatiboringhieri.it/libri/giovanni-jervis-contro-il-sentito-dire-9788833924311/>.
[4] M.N. Eagle, Teoria psicoanalitica contemporanea: un bilancio complessivo, in “Psicoterapia e scienze umane”, 46(2), 2012, pp. 167-186, <http://www.psicoterapiaescienzeumane.it/Eagle_13-4-12.htm>