
Quale importanza ha assunto oggi la psicologia palliativa?
La Psicologia palliativa è un territorio in grande espansione che gode di un sempre maggiore successo specialmente nei paesi più ricchi, proprio perché il benessere a cui siamo abituati ha accresciuto esponenzialmente i tempi di vita rispetto sia ai paesi più poveri sia al passato, e questo comporta che esista un numero sempre maggiore di persone che soffrono di malattie croniche e degenerative. Questo significa che abbiamo sempre più bisogno a livello sociale di un supporto che ci aiuti a risignificare i profili della finitudine e nello stesso tempo ad abitarli, dando senso alla vita già vissuta senza togliere valore alla vita durante il suo declino. La parola chiave è “dignità” che si presenta ormai come il crocevia dinanzi al quale l’esperienza del morire può risultare sostenibile oppure intollerabile. La psicologia palliativa lavora esattamente all’interno di questo orizzonte, con chi cammina sul viale del tramonto e con i familiari che l’accompagnano, per permettere a tutti ed ognuno di impegnarsi affinché gli ultimi passi lungo il viale del tramonto non siano deumanizzanti.
La psicologia è infatti ormai totalmente riconosciuta come una disciplina in grado di offrire un contributo rilevante per l’erogazione ottimale dell’intervento di cura tanto in ospedale quanto nelle reti di cure palliative, dall’hospice al domicilio. Il volume “Psicologia palliativa” presenta quindi le competenze fondamentali che permettono di assicurare ai pazienti, ai familiari e a coloro che lavorano a contatto con loro il supporto e l’elaborazione necessari per affrontare la sofferenza esistenziale e il dolore che l’incontro con la morte implica.
Quale compito evolutivo si esprime nel fine-vita?
I paesi più ricchi hanno dimenticato il senso di una parola cruciale: saggezza. La cultura del benessere è caratterizzata da forti istanze di produttività e competizione per cui la riflessione esistenziale viene sempre più lasciata in secondo piano se non addirittura aborrita. Infatti, per permettere a tutti di sopportare lo stress che questo modello sociale impone, vengono parallelamente esaltate le figure del divertimento e dello svago ad ogni costo. Questo depriva gli abitatori dei paesi più ricchi della possibilità di misurarsi con la propria profondità e con la scoperta di ciò che la propria interiorità permette di raggiungere in termini di riflessione sul senso della vita ovvero del morire. Si arriva all’età della pensione smarriti, perché una volta “dismessi” dalla società rispetto ai ruoli che la produzione lavorativa impone non si sa più da che parte ricominciare il proprio percorso personale. Molti credono che finalmente sia venuto il tempo di fare quello che è stato impossibile in precedenza a causa del lavoro e dei compiti familiari e dunque riprendono da ciò che hanno dovuto abbandonare nell’adolescenza. Vedo infatti molti anziani impegnati ad interpretare perennemente il ruolo degli adolescenti alla ricerca di svaghi di ogni tipo. Essi paradossalmente manifestano il malessere estremo della società del benessere, causato dall’eclissi di un linguaggio che permetta di aspirare a ciò che è più alto. Sapere tutto questo ci può aiutare a ripristinare dialoghi e discorsi che sappiano restituirci una prospettiva che vada oltre le logiche della produzione e del divertimento, per prepararci consapevolmente all’ultimo tratto del percorso della vita perseguendo l’obiettivo, appunto, di scoprire tutti i segreti della saggezza e il suo valore.
In che modo è possibile sviluppare una relazione autentica con il morente?
Innanzitutto mettendosi in cammino con lui sul viale del tramonto e guardare lo stesso scenario insieme. Solo restituendo sacralità al morire è possibile entrare nell’intimità più profonda di chi muore, perché il morente non parla più un linguaggio che abbia a che fare con il divertimento o con l’obbedienza a un dovere socialmente imposto. Certamente oggi abbiamo disabitato il sacro e quindi non sappiamo come rientrarvi. Questo comporta che ci si relazioni con chi muore in modo inautentico. Saper riconoscere la propria e altrui spiritualità (che non significa religiosità) è il primo passo per entrare seriamente in contatto con chi muore rispettando la sacralità di tale incontro. La psicologia palliativa fa tesoro di questa capacità ormai in modo sistematico.
In che modo la psicologia palliativa può essere di supporto alla famiglia del morente?
La psicologia palliativa ha interamente assunto le conquiste ormai più consolidate nel campo della psicologia della famiglia, per cui sa indicare come gestire le relazioni disfunzionali che inevitabilmente si generano quando entrano in giogo malattia e lutto. Le strategie psicologiche che possono essere utilizzate in questo ambito sono molteplici e tutte molto efficaci, perché ogni storia familiare è sempre unica e forse irripetibile. In questo senso non è possibile fare una generalizzazione che permetta di rintracciare una modalità ottimale di gestione delle difficoltà che la sofferenza della morte comporta per la famiglia. È però stato confermato che alcune forme di intervento posso facilitare l’attivazione delle risorse di resilienza familiare, grazie alle quali i componenti della famiglia che accompagnano un proprio caro verso l’ultimo bivio potranno poi procedere lungo la loro strada più maturi e consapevoli.
Come è possibile potenziare le capacità di cura dei professionisti del settore?
Attraverso percorsi di death education mirati, che permettano ai professionisti che operano in campo educativo e in campo sanitario. Di recente ho partecipato ai lavori del tavolo bilaterale Miur/Ministero della salute, diretto da Guido Biasco per l’attuazione dell’articolo 8 della legge 38/2010 sulle cure palliative. Si tratta dell’articolo che prevede le modalità di formazione di coloro che praticheranno le professioni la legge riconosce per le cure palliative. In quella sede ci siamo confrontati in modo puntuale, competente e approfondito tra professori di medicina, psicologia, infermieristica e servizio sociale per delineare i contenuti dei percorsi formativi pre e post lauream nel campo delle cure palliative. La psicologia, peraltro, permette a chi opera nel settore del fine vita e del lutto di acquisire elasticità mentale e disponibilità ad accogliere le differenze, ovvero la capacità di esercitare il pensiero critico e l’empatia necessarie per entrare nell’universo di sofferenza di chi muore. Non si può prescindere infatti dall’acquisizione per un verso di conoscenze che riguardino per un verso il modo in cui la morte viene rappresentata individualmente e socialmente e per l’altro di entrare in tali universi simbolici sapendo come entrare in rapporto con chi deve affrontare da vicino il percorso che porta alla fine.
Si può educare alla mortalità?
In effetti il mio lavoro consiste proprio in questo, in quanto dirigo un Master unico in Europa interamente dedicato a questi argomenti. Si tratta del in Death Studies & The End of Life ed è un percorso unico nel suo genere nel panorama universitario italiano in quanto affronta i temi relativi alla morte e al morire in modo inter e transdisciplinare, proponendosi di sviluppare la capacità di affrontare i temi relativi alla morte in tutti i suoi aspetti, prendendo in considerazione le istanze emergenti in campo culturale, sociale e sanitario, con riferimento anche, ma non solo, alle cure palliative. È infatti fondamentale avere una conoscenza e una formazione completa su queste tematiche perché non si può negare la presenza della morte nella vita quotidiana che travalica le condizioni della malattia terminale e del suo contenimento in ospedali e hospice. La morte viene infatti da un lato paradossalmente celata in istituti e ospedali, dall’altro spettacolarizzata dai mass media che contribuiscono a incrementare la percezione che il decesso sia conseguente a eventi eccezionali o violenti. L’assenza di un discorso maturo intorno ai significati del morire deriva dall’assenza di questa esperienza condivisa. Per invertire la tendenza sono necessari tre ordini di intervento sociale. I percorsi di “death education” descrivono e rendano comprensibili le forme con cui l’uomo ha rappresentato il rapporto tra finitudine e trascendenza lungo la storia e promuovono il recupero di un linguaggio che permetta alle persone e alle famiglie di raccogliersi intorno a chi muore trovando in questa esperienza un’occasione di crescita e maturazione.
Ines Testoni insegna Psicologia sociale e Psicologia delle relazioni di fine-vita, perdita, morte presso l’Università di Padova, dove dirige anche il master Death Studies & the End of Life. È autrice di oltre cento articoli specialistici su riviste nazionali e internazionali. Tra i suoi saggi: Psicologia del nichilismo. La tossicodipendenza come rimedio (1997), Il dio cannibale. Anoressia e culture del corpo in Occidente (2001), Psicologia sociale (con Adriano Zamperini, 2002), Il sacrificio del corpo. Dialogo tra Caterina da Siena e Simone Weil (2002), Il mantello di Mefistofele. Psicologia sociale e processi di formazione (con Adriano Zamperini, 2007), Autopsia filosofica. Il momento giusto per morire tra suicidio razionale ed eternità (2007), La frattura originaria. Psicologia della mafia tra nichilismo e omnicrazia (2008), Dopo la notizia peggiore. Elaborazione del morire nella relazione (2011) e L’ultima nascita. Psicologia del morire e Death Education (2015).