
Di conseguenza, penso che il contributo più rilevante della psicologia alla comprensione del nostro rapporto con il denaro sia osservabile nelle possibilità di applicazione dei risultati di queste ricerche in numerosi ambiti della nostra vita quotidiana, che possono essere di utilità pragmatica sia per le aziende sia per i consumatori/risparmiatori.
Innanzitutto per il mondo della finanza e degli investimenti: il volume, infatti – oltre a tratteggiare i bias cognitivi degli investitori, tipici di un tradizionale approccio da “behavioral finance” – delinea anche le nuove frontiere della finanza emotiva (“emotional finance”) ed offre un innovativo strumento di segmentazione degli investitori (i 6 “stili monetari” a cui più o meno tutti possiamo appartenere). E conoscere meglio il nostro “stile monetario” significa iniziare a essere più consapevoli del proprio rapporto con il denaro, facendo dunque un primo passo verso una migliore e più corretta gestione delle proprie finanze.
Un secondo approfondimento ad hoc è dedicato alla gestione degli incentivi economici nelle organizzazioni e sul lavoro: un ambito cruciale per tutte le aziende, e in particolare per chi è responsabile dell’HR management. Qui le applicazioni della ricerca psicologica sono estremamente rilevanti perché, a differenza del senso comune, non è vero che “basta pagare di più” qualcuno per ottenere migliori performance. L’arte degli incentivi economici è un ambito che deve essere maneggiato con cura, in quanto a volte i rinforzi estrinseci (i primi e i benefit) possono “erodere” la motivazione intrinseca dei lavoratori, minando così i miglioramenti di performance che intendevano promuovere.
Un altro ambito di applicazioni pratiche della psicologia del denaro è rappresentato dalle politiche di prezzo delle imprese, una delle più potenti leve del marketing, qui affrontate in modo approfondito sia sul versante dell’offerta (quali strategie “psicologiche” di prezzo usare da parte delle imprese?), sia sul versante della domanda (=come “difendersi”, come consumatori, da queste stesse strategie di pricing?).
Qualche esempio tratto da questo ultimo tema: nel contesto delle promozioni, prendiamo in considerazione il fatto che il taglio dei prezzi trionfi quasi sempre. In altre parole, quando si presenta la scelta tra uno sconto sul prezzo e un’offerta, come il ‘bonus pack’ o il ‘3×2’, che consente di ottenere una quantità maggiore al medesimo costo, la maggioranza dei consumatori preferisce il primo. La ragione di ciò risiede nel principio secondo il quale il vantaggio del bonus pack è considerato meno rilevante delle (mancate) perdite legate allo sconto, in linea con la prospect theory. Anche se, quando entrambe le opzioni (sconto e bonus pack) sono espresse in termini percentuali, vince la cifra più alta. Ad esempio, i consumatori tendono a ritenere più conveniente un aumento del 50% della quantità rispetto a una riduzione del 35% del prezzo, anche se, nella pratica, la seconda opzione risulta più vantaggiosa.
Un altro esempio è rappresentato dall’ ‘odd pricing’, ovvero la pratica di fissare prezzi appena al di sotto di cifre ‘tonde’. Ad esempio, uno snack a 1.99 euro invece di 2 euro o una maglietta a 29.99 euro anziché 30 euro. Questa strategia non influenza tanto le vendite del prodotto specifico, quanto la spesa complessiva. Tali prezzi inducono la sensazione di risparmio, spingendo così all’acquisto di ulteriori prodotti, risultando in una spesa superiore alle previsioni.
Un’altra pratica diffusa, soprattutto nei contratti di abbonamento, è la riformulazione del prezzo in periodi più brevi. Un abbonamento annuale di 300 euro può essere descritto come ‘meno di 1 euro al giorno’ o ’25 euro al mese’. Nonostante l’importo totale pagato dal consumatore sia il medesimo, la percezione del costo cambia, influenzando la propensione all’acquisto.
Anche l’ordine in cui vengono presentati i prodotti (e i relativi prezzi) può influenzare le decisioni d’acquisto. I consumatori tendono a basare le proprie valutazioni sui primi prezzi che vedono. Pertanto, un elenco di opzioni ordinato in modo decrescente rispetto ai prezzi porta a una spesa media maggiore rispetto a un elenco ordinato in modo crescente, poiché i consumatori ancorano la loro valutazione ai primi prezzi dell’elenco.
Tutti questi esempi illustrano come sia cruciale prestare attenzione ai cosiddetti bias cognitivi, sia per le aziende che per i consumatori, quando si tratta di strategie di prezzo.
Più in generale, il volume dimostra come le scienze psicologiche ci permettono di comprendere meglio il nostro rapporto con il denaro, e cioè i nostri comportamenti, i nostri pensieri, i nostri vissuti emotivi legati ad esso, nonché i modi in cui lo usiamo, strumentalmente e simbolicamente, nelle azioni quotidiane e nei nostri rapporti con altre persone.
Come è stato approcciato il denaro nei vari paradigmi della psicologia?
Nel volume sono approfonditi soprattutto quattro differenti paradigmi della psicologia, in relazione al nostro rapporto con il denaro.
Il primo di questi, e cioè la psicoanalisi, ci permette di osservare la molteplicità di associazioni simboliche e affettive del segno monetario, che pare incanalare pulsioni derivanti da oggetti e processi psicologici del tutto eterogenei. In particolare, da questo paradigma emerge con forza una caratteristica specifica del denaro sul piano psicologico: la sua profonda e irriducibile ambivalenza affettiva.
La psicologia di matrice cognitivista tende invece ad evidenziare gli effetti del denaro sui nostri processi cognitivi e sulle nostre reazioni comportamentali. All’interno di questo approccio, in realtà, occorre partire dal comportamentismo, paradigma che per primo ha analizzato in profondità il denaro come rinforzo, per poi passare agli sviluppi più recenti del cognitivismo, nell’ambito del quale è inserito anche uno specifico filone di ricerca, molto discusso e discutibile, relativo agli effetti del money priming, che evidenzia effetti comportamentali del tutto peculiari a partire dall’esposizione ai segni monetari. Anche questo paradigma dimostra l’ambivalenza del denaro, in questo caso di tipo cognitivo: come vettore di razionalità ma anche come produttore di effetti che non hanno nulla a che fare con la razionalità.
La psicologia sociale affronta poi la rilevanza e al contempo l’incompatibilità del denaro nelle relazioni sociali, soprattutto quelle caratterizzate dagli affetti più profondi. All’interno di questo approccio emerge in particolare la capacità di denaro di produrre e promuovere il benessere psicosociale, da un lato, ma anche le disuguaglianze economiche; di essere un vettore di individualismo, ma anche un potenziale “bene comune”. Insomma: altre ambivalenze, in questo casi di natura sociale. Entro questo paradigma è poi discusso un tema molto complesso, sintetizzabile nella classica domanda: “ma il denaro rende felici?”.
Le neuroscienze, e in particolare l’ambito di ricerca che si definisce “neuoeconomia”, infine, consentono di osservare i correlati fisiologici, neurali ed endocrini a cui si associa l’esplosione e l’uso dei segni monetari. All’interno di questo approccio, vengono esplorati due temi chiave: quello del denaro come “droga”, con il quale talvolta sviluppiamo una sorta di “dipendenza”, e il concetto di “dolore del pagamento“. Su quest’ultimo tema, numerose ricerche hanno dimostrato che separarci fisicamente dai soldi attiva i circuiti cerebrali associati al dolore, o più specificamente, al disgusto e al dispiacere. In altre parole, quando estraiamo banconote dal portafoglio, proviamo una sensazione di disagio. La dinamica cambia invece quando effettuiamo pagamenti tramite strumenti elettronici, come app, bancomat o carta di credito. In questi casi, il dolore è meno intenso perché percepiamo meno direttamente la separazione del denaro speso. Il pagamento elettronico, quindi, anestetizza almeno in parte il dolore del pagamento. Di conseguenza, siamo più inclini a acquistare cose di cui non abbiamo effettivamente bisogno o di cui non siamo completamente convinti. Paradossalmente, per sfuggire al disagio del pagamento, i consumatori finiscono dunque per spendere di più. Questo fenomeno si verifica, ad esempio, quando si preferisce una tariffa forfettaria (flat rate), nella quale si conosce già l’importo da pagare, rispetto a un contratto pay per use, che potrebbe essere potenzialmente più conveniente. Tale comportamento si riscontra nei contratti di telecomunicazione o di leasing automobilistico. Un esempio simile si manifesta anche nei taxi, quando si opta per una tariffa fissa, a rischio di spendere di più, solo per evitare di vedere salire il tassametro. In proposito, occorre però sottolineare che l’equazione “contanti = sofferenza” vale soprattutto per le generazioni più adulte. Nei giovani, abituati a utilizzare gli strumenti digitali, il dolore del pagamento si attiva quando usano le app, la carta o il bancomat. Per contro, quando pagano con i contanti, non sentono di spendere davvero, anche perché in loro il dolore si è già attivato quando hanno prelevato il denaro allo sportello. Il motivo è legato alla percezione che quelli prelevati agli sportelli siano soldi “già spesi”. A ciò si associa anche un’altra differenza: i più giovani tendono a considerare maggiormente l’e–money, rispetto al contante, come uno strumento adatto per organizzare e gestire meglio il proprio denaro, grazie ai meccanismi di feedback e gestione delle spese che caratterizza i metodi di pagamento elettronico (ad esempio, tramite app mobili che consentono un costante monitoraggio delle transazioni e dei fondi disponibili, favorendo così l’autocontrollo e l’autoregolamentazione nelle spese).
Quale riflessione sviluppa, sul tema del denaro, l’approccio storico-genetico?
L’approccio storico-genetico consiste, in estrema sintesi, nel ripercorre l’evoluzione del denaro e la sua influenza sulla psicologia umana nel corso dei secoli, mostrando come le idee, le credenze e le pratiche finanziarie abbiano influenzato i nostri attuali atteggiamenti e comportamenti verso i soldi.
Nell’arco di questa traiettoria storica, sul piano psicologico osserviamo un continuo processo di riadattamento cognitivo e una costante rimodulazione degli atteggiamenti e dei vissuti relativi al denaro, nonché una continua evoluzione nella tipologia di fiducia sociale alla base del segno monetario, in relazione alle forme in cui – di volta in volta – esso si incarna. In particolare, buona parte della penombra associativa che colora le fantasie e il simbolismo (spesso) inconscio del denaro, che lega ad esempio l’essere pagati ai temi del disonore, della schiavitù o della prostituzione, è soprattutto il frutto della trasmissione di quadri mentali davvero antichissimi, diffusisi attraverso le narrazioni seriali millenarie.
Inoltre, come abbiamo visto, un risultato comune a tutti i paradigmi psicologici, nonché a buona parte delle analisi prodotte nella seconda parte del volume dedicato appunto all’approccio storico-genetico, riguarda l’ambivalenza del denaro, osservabile su diversi piani: affettivo, cognitivo, sociale, nonché sul piano dei circuiti neurali coinvolti. Questa ambivalenza è sostenuta
- sul versante positivo, dal suo essere segno di distinzione sociale, di status e di potere, nonché dal suo ruolo potenziale come vettore di razionalità, come strumento di benessere psicosociale e come contenitore delle angosce di morte;
- sul versante negativo, dalle stesse fantasie inconsapevoli che legano, prima di tutto sul piano storico-genetico, il denaro a temi come schiavitù e prostituzione, nonché ai suoi effetti desacralizzanti sulle relazioni sociali.
Con molta probabilità può essere proprio questa ambivalenza a far oscillare, in una tensione continua e irrisolta, il denaro fra una dimensione strumentale – la possibilità di usare i soldi per soddisfare bisogni e necessità materiali della vita quotidiana, ma anche desideri e aspirazioni di benessere – e una dimensione simbolica, in cui il denaro tende a diventare un “fine” in sé e un idolo divinizzato, in grado di retroagire sulla psicologia umana, modificandone cioè la mente in modo molto più profondo di quanto uno strumento apparentemente “neutrale” possa fare.
Il punto cruciale di questo libro sta dunque nel tentativo di connessione fra psicologia e altre discipline, che permettono appunto di spiegare e dare senso a risultati di ricerca nell’ambito della psicologia del denaro. La prospettiva storico-genetica costituisce dunque un approccio assolutamente necessario, nel caso delle analisi psicologiche sul denaro, per il semplice fatto che quest’ultimo non sia un oggetto immutabile, ma uno strumento che si sviluppa in modo multiforme e cangiante nel corso della storia. Ne consegue, perciò, che qualsiasi analisi della psicologia del denaro debba essere basata su una profonda conoscenza e una precisa contestualizzazione della storia degli strumenti finanziari, nonché dei vissuti ad essi associati.
Edoardo Lozza è Professore Ordinario presso la Facoltà di Psicologia dell’Università Cattolica del Sacro Cuore di Milano, dove insegna Psicologia dei Consumi e del Marketing e Psicologia Economica e dove coordina la Laurea Magistrale in Psicologia per le Organizzazioni: Risorse Umane, Marketing e Comunicazione. È Presidente della Economic Psychology division di IAAP (International Association of Applied Psychology). È autore di oltre un centinaio di pubblicazioni scientifiche nell’ambito della psicologia economica, psicologia dei consumi, ricerca di marketing e behavioral finance.