
Per millenni le culture occidentali sono state proverbiali. Hanno pensato proverbiale. Si sono espresse proverbialmente. Perché pensare e parlare per proverbi, o tendendo a elaborare proverbialmente la propria espressione, era connaturato a quelle culture, era immanente all’espressione e al pensiero, era costitutivo dell’identità culturale. Proverbi e sentenze ‘nati’ secoli prima si adattarono a nuove culture e nuovi popoli, in ragione della loro forza espressiva e pragmaticamente paideutica, nonché ad un continuo riuso letterario che ne apprezzava la canonicità, benché in molti casi rivisitandola ideologicamente.
Quali diverse tipologie di paremie si riscontrano nel patrimonio proverbiale e sentenzioso antico?
Se si applicano le tipologie morfologiche dalla paremiologia moderna allo sterminato serbatoio di forme brevi proverbiali e sentenziose greco e romano, emerge un quadro piuttosto netto di continuità culturale, sul quale è possibile avanzare alcune considerazioni generali.
Proverbio e sentenza, nella terminologia e nella percezione degli antichi, ebbero strade piuttosto definite e in parte parallele.
Con παροιμία i greci indicarono, dalle prime attestazioni della metà del V sec. a.C. (Eschilo, Sofocle) fino almeno alla prima età imperiale, le forme brevi caratterizzate da eticità e tradizionalità (παλαιὰ), metaforiche e non, ma mai autoriali. Alternativa terminologica frequente fu τὸ λεγόμενον, con cui tuttavia furono più spesso indicate anche tutte quelle espressioni colloquiali ed idiomatiche che, per la moderna paremiologia, sono caratterizzate sì da un aspetto di diffusione proverbiale, ma non costituiscono veri e propri ‘detti proverbiali’. Con il termine γνώμη, a partire probabilmente dall’inizio (Teognide), e con evidenza dalla fine del V secolo, furono indicate solamente le espressioni anonime ma non metaforiche, dunque quelle che noi definiamo ‘sentenze’, forse per influsso della terminologia giudiziaria ed assembleare (Tucidide, Gorgia), nonché medica (Ippocrate). Dalla metà del IV secolo il termine cominciò ad essere impiegato anche per definire ‘sentenze autoriali’ di filosofi (Epicuro), e ad essere applicato ai ‘detti’ attribuiti ai grandi σοφοὶ del passato (Isocrate) o a versi sentenziosi di poeti raccolti in antologie (Menandro, Euripide). Tra le primissime definizioni di forme brevi sapienziali abbiamo, a Roma, verbum (Plauto) e dictum (Ennio), alla fine del III secolo a.C. Soprattutto verbum, con le diffuse qualificazioni di vetus e verum, è ampiamente attestato fino a tutto il I secolo a.C., quando proverbium (da Cicerone e, in poesia, solo da Ovidio) lo soppianterà. Analogamente a παροιμία, con proverbium non si indica mai, almeno fino al IV secolo d.C., un’espressione autoriale. Altri termini, meno fortunati, sono praeceptum e adagio. Sententia, che compare nelle fonti a indicare già una delle primissime raccolte di sentenze ‘d’autore’, quella di Appio Claudio, sarà il termine che, parallelamente al greco γνώμη, per influsso della terminologia giuridica, si affermerà durante il I secolo a.C. anche a definire detti proverbiali non metaforici e non d’autore.
Le sentenze attribuite a una determinata personalità – sia essa un sapiente, un filosofo, un poeta o altri – furono indicate, in Grecia antica, a partire dal IV secolo (Senofonte e Aristotele) con il termine di ἀποφθέγματα, e, progressivamente, anche con γνώμη, e godettero di uno statuto esattamente corrispondente al nostro aforisma. Mai, almeno fino al II secolo d.C., il termine παροιμία fu impiegato per espressioni cui fosse assegnata una paternità. A Roma è testimoniato da Cicerone apophthegmata per Catone, e poi, dal I-II secolo, quasi sempre sententiae, meno spesso dicta o monita, mai proverbia, fino ad età medievale. Solo all’inizio del XIII secolo comparirà, in questo senso, il termine maxima (Bene da Firenze).
La particolare declinazione ‘aneddotica’ delle sentenze autoriali diede origine, prima in Grecia e poi a Roma, alla ben definita tipologia della χρεία, con il calco latino chria, un episodio (reale o immaginato) concluso da una ‘battuta’ di una personalità specifica (sapiente, filosofo, poeta, generale o altro): raccolte di χρεῖαι sono attestate dall’inizio del IV secolo a.C. (Socrate, Diogene), e si diffonderanno presto, anche in ragione dell’impiego che se ne farà nella pratica scolastica, almeno dal I sec. a.C.
La terminologia, e dunque la coscienza e la percezione culturale dei Greci e dei Romani rispetto alle forme brevi fu dunque chiara e precisa, almeno fino all’epoca tardoantica: solo allora, nel sincretismo di movimenti religiosi e culturali che investì la civiltà antica, si riscontreranno interferenze concettuali e sovrapposizioni terminologiche, che si svilupperanno nel corso del medioevo.
Quali sono i principali ambiti tematici del materiale proverbiale antico?
Tutte le morfologie proverbiali e sentenziose che ho elencato prima si combinano, in modo diverso, in precisi ambiti tematici:
– tipi umani, concetti, personificazioni;
– oggetti e elementi inanimati della vita pratica e del mondo naturale;
– animali;
– luoghi e popoli;
– personaggi aneddotici o storici;
– personaggi del mito, dèi ed eroi.
Quante espressioni sentenziose compaiono nell’Iliade e nell’Odissea?
Tutto, in Grecia antica, nasce da Omero. E se gli antropologi hanno spesso, e giustamente, impiegato per i poemi omerici la categoria di ‘enciclopedia tribale’, ci si aspetterebbe di ritrovare in essi un carattere significativo di sentenziosità, di proverbi e γνῶμαι. In realtà, le vere e proprie espressioni sentenziose, nell’Iliade e nell’Odissea, in rapporto ai trentamila esametri dei due poemi, sono poche e persino discusse. Per l’Iliade Ahrens (1937) ne contava 123, appena una trentina Kirk (1962), 154 Lardinois (1997). Un segno che il carattere prevalente dell’epos omerico è la narrazione, e che il ‘poeta’ è un narratore poco presente in prima persona, con commenti o osservazioni? Probabilmente. Eppure la formulazione sentenziosa del verso omerico, la struttura (anche metrica) tendente alla chiusa concettosa dell’esametro, sono elementi connaturati alla dizione omerica. Da questo punto di vista la ‘creazione’ delle sentenze omeriche sembra aver proceduto parallelamente a quella delle formule. La concentrazione di espressioni sentenziose nell’ultima parte del verso, del resto, è una costante. E proprio la struttura finale dell’esametro assurgerà a metro per eccellenza del proverbio, definito appunto “paremiaco”.
Non a caso, forse, la stragrande maggioranza delle espressioni sentenziose dei poemi si ritrova nei discorsi diretti dei protagonisti, in strutture che collocano la γνώμη – un termine mai impiegato da Omero in questo senso: lo utilizzo solo per comodità – a conclusione di un discorso, o di un ‘exemplum’ mitologico, provvista, spesso, di ulteriore spiegazione (una sorta di γνώμη retoricamente allargata). In genere chi impiega una γνώμη è un personaggio di età, ceto o rango più elevati: a dimostrazione che il ricorso all’immaginario sentenzioso e proverbiale è già percepito, nell’epoca remotissima di formazione dei poemi, come elemento tipico di comunicazione assertiva e persuasiva. Da questo punto di vista l’epos omerico non si discosta dai meccanismi paremiologici della comunicazione verbale studiata oggi dai linguisti, e ancora tipica delle nostre conversazioni quotidiane (e non): una conseguenza, certamente, della composizione orale dei poemi, ma non solo.
Rarissimi sono i casi in cui è la voce narrante del poeta che, in prima persona, impiega un’espressione sentenziosa rivolgendosi ad un personaggio o commentando la situazione: si tratta, sempre, di commenti sulla sopravvalutazione di sé stessi da parte degli uomini, o sulla sottovalutazione della forza del caso o degli dèi, e nella metà dei casi preceduti da un’apostrofe incentrata su νήπιος, “stolto”.
Le espressioni sentenziose ‘omeriche’ – altra particolarità – sembrano non aver avuto eredità significative: poche, pochissime formulazioni omeriche sono entrate nella tradizione proverbiale, benché Aristotele elenchi proprio tre tessere omeriche, all’inizio del capitolo della Retorica dedicato alle sentenze (1395a), come τεθρυλημέναι καὶ κοιναὶ γνῶμαι, “diffuse e comuni sentenze”, e benché i motivi proverbiali in esse sintetizzati siano tra i più frequenti nel mondo antico. Tra esse, va ricordata ῥεχθὲν δέ τε νήπιος ἔγνω, “uno stolto capisce dopo il fatto” (Il. 17,32; 20,198), una delle tante formulazioni del motivo ‘lo stolto impara a cose fatte”. Quest’ultima ‘sentenza’ è ben esemplificativa dell’immaginario proverbiale omerico. Si tratta di un immaginario piuttosto compatto e univoco, al contrario, ad esempio, di quel che emergerà da altri autori e altre epoche. Com’è noto, il mondo dei proverbi è contraddittorio: si nega e si afferma, spesso, un medesimo concetto o valore. Ciò dipende, com’è altrettanto noto, dal meccanismo di adattabilità dell’espressione proverbiale, che è ‘giusta’ a seconda del contesto. Le espressioni sentenziose omeriche, a uno sguardo d’insieme, appaiono invece coerenti. Pochi e radicali concetti sono veicolati: la misura che l’uomo deve avere nei confronti delle divinità; il rapporto d’onore tra individuo e comunità; il rispetto degli status e delle gerarchie sociali
Quali sono le più importanti raccolte di massime, proverbi ed espressioni sentenziose del mondo antico giunte sino a noi?
Nel volume abbiamo pubblicato tutte (o quasi) le raccolte di proverbi, sentenze e massime del mondo antico e medievale. Alcune di esse ebbero, per il mondo antico e non solo, un’importanza fondamentale: le massime attribuite ai Sette Sapienti, il più antico ma sempre vivo serbatoio di saggezza della grecità; le prime opere di ‘aforismi’ risalenti ai filosofi di V-IV sec. a.C., Democrito ed Epicuro; le prime raccolte scientifiche di proverbi sia popolari sia letterari, come quelle di Clearco, Crisippo e Aristofane di Bisanzio; la prima opera di sentenze del ‘saggio’ romano Appio Claudio; la traduzione greca dei Proverbi della Bibbia; le quattro raccolte paremiografiche che costituirono il punto di riferimento per tutta la successiva tradizione di raccoglitori di proverbi, quelle di Didimo di Alessandria, Lucillio di Tarre, Zenobio, e Diogeniano; le raccolte di massime, spesso apocrife, attribuite a grandi figure della romanità, come Catone, Varrone e Seneca, che ebbero sterminata fortuna nel medioevo latino; le raccolte dei primi secoli dell’era volgare, nelle quali si sviluppa un sincretismo cristiano-pagano, come quelle dei pitagorici Sesto e Clitarco; le sillogi medievali che rielaborano in senso cristiano il patrimonio sentenzioso classico, come quelle di Otlone e Beda; infine le raccolte bizantine, letterarie e popolari, fino ad arrivare alla colossale opera di Michele Apostolio, vero e proprio ‘perno’ tra la cultura greca ed Erasmo da Rotterdam, che aprirà la stagione dell’umanesimo europeo.
Quanta parte di quella antica saggezza è possibile rinvenire nell’immaginario proverbiale moderno?
Nel mondo contemporaneo una nuova cultura che sembra aver superato i confini nazionali, globalizzata e standardizzante, espressione di una società liquida e legata ormai ai meccanismi e ai tempi vorticosi del web, proiettata nella ricerca di tutto ciò che rientri (o sembri rientrare) nelle categorie dell’originalità e dell’innovazione, non appare avere più alcuno spazio per il millenario patrimonio proverbiale consegnatole dalle generazioni passate. Come sottolineano i più aggiornati studi paremiologici, gli ultimi eredi contemporanei dei proverbi sono stati gli slogan pubblicitari diffusi dai giornali e dalla giovane televisione degli ultimi decenni del secolo scorso. Ma quella cultura, ancora generalista e, soprattutto, limitata a pochi, principali soggetti di diffusione, è stata ormai definitivamente scalzata dalla frammentazione dei canali di comunicazione e dalla iperpluralità del web, dove tutto sembra nascere e consumarsi nel giro di pochi mesi, a volte di pochi giorni, benché, paradossalmente, tutto rimanga archiviato per sempre.
La creazione di nuovi proverbi, o anche soltanto la rielaborazione e l’impiego dei preesistenti, si è, di fatto, quasi arrestata. Il patrimonio proverbiale e sentenzioso si è musealizzato, come tanti altri patrimoni immateriali delle nostre culture occidentali. Chi studia, o raccoglie proverbi, è ormai, nell’immaginario collettivo, un “archeologo del folklore, un collezionista di relitti che stanno a poco a poco precipitando verso il nulla” (così Lorenzo Boggione, tra i massimi esperti di proverbi italiani).
Tuttavia, a mio avviso, lo studio dello straordinario e affascinante mondo della sapienza diffusa antica e medievale può rappresentare ancora un invito, storico e culturale, a riflettere sui nostri modi di pensare e comunicare, sul rapporto tra passato e presente, e su come si trasforma, oggi sempre più velocemente, la nostra identità culturale.
Ripercorrere la fortuna dello sterminato patrimonio proverbiale e sentenzioso antico nell’Europa moderna e, quindi, nel mondo occidentale, significherebbe ripercorrere le tappe – di fatto – di tutti o quasi i movimenti culturali, artistici e letterari di questi cinque secoli.
Il materiale proverbiale antico, soprattutto tramite il filtro degli Autori, era già penetrato nelle nascenti letterature romanze: lo vediamo dalle sententiae di origine latina presenti nella poesia francese e in quella volgare italiana del XIII secolo, da Dante e da Petrarca, e poi, con l’umanesimo e la riscoperta dei classici, da Ariosto a Moliere, da Racine a Shakespeare. L’intertestualità proverbiale – come opportunamente è stata definita da Renzo Tosi – fornirà materia alla poesia, al teatro, alla filosofia, alla storiografia, alla memorialistica, e infine al melodramma e all’opera lirica di ogni secolo. Lo fornisce, di fatto, ancora oggi, come si è detto: nei titoli di giornali, nei romanzi, in rete.
D’altra parte, una meno nota, ma ugualmente attiva, tradizione orale, perpetuava attraverso i sentieri impervi e spesso carsici della trasmigrazione linguistica motivi proverbiali antichissimi negli idiomi dialettali di tanti territori europei e mediterranei. La continuità tra proverbi greci e romani e proverbi delle culture regionali moderne è un terreno ancora in gran parte da esplorare, ma ricco e affascinante: ne emerge, parallelamente alla continuità della tradizione letteraria ‘alta’, una impressionante continuità della tradizione proverbiale popolare orale.
Di tutto questo si è cercato di dar conto nelle sezioni di note e commento del volume Bompiani. Un indice lemmatizzato di tutti i proverbi e le sentenze contenuti nel libro, oltre trentamila uscite, è stato realizzato in tre anni di lavoro dagli allievi del Liceo Tasso di Roma (mi fa piacere ricordarlo), ed offre la possibilità di rintracciare i termini significativi di ogni espressione proverbiale antica e medievale. Una sorta di lettura interattiva che consente, al lettore di oggi, di scoprire e ‘riscoprire’ proverbi e frasi idiomatiche di ieri. In una parola: di riscoprire la propria radicata identità culturale.
Emanuele Lelli (Liceo Tasso) è studioso di poesia ellenistica e di letteratura scientifica e tecnica greca e latina, della tradizione paremiografica (Volpe e leone. Il proverbio nella poesia greca, 2006; I proverbi greci, 2007) e della cultura popolare antica e moderna, alla quale sta dedicando le sue ricerche attuali con un approccio ‘demofilologico’, che unisce etnografia e filologia classica (Folklore antico e moderno, 2014; Sud antico, 2016). È autore di un manuale di storia per il biennio dei licei (Cento lezioni di storia. Da Minosse a Carlo Magno, 2020). Coordina da anni gruppi di giovani studiosi in iniziative editoriali sul mondo antico (L’agricoltura antica, 2009; la rivista Appunti Romani di Filologia, dal 1998; per Bompiani: Quinto di Smirne, Il seguito dell’Iliade, 2013; Erasmo, Adagi, 2013; Ditti di Creta, L’altra Iliade, 2015; Plutarco, Tutti i moralia, 2017; Epitaffi greci, 2019; Proverbi, sentenze e massime di saggezza in Grecia e a Roma, 2021). Ha ideato e coordina il sito folkloricum.it, sulla cultura popolare antica e moderna.