
Si può perciò considerare il discorso teologico elaborato da papa Francesco come una sorta di Weltanschauung, cioè come una vera e propria visione del mondo?
A mio parere sì, a patto che non si intenda questo termine tedesco come sinonimo di “ideologia”, o di visione preconcetta. Weltanschauung, nel caso di papa Francesco, ha lo stesso significato che aveva nella riflessione teologica di Romano Guardini: un significato ermeneutico, giacché definisce lo sforzo di comprensione che il credente è chiamato a fare del mondo alla luce del vangelo. Lo ha insegnato pure il concilio Vaticano II, soprattutto in alcune pagine suggestive come Gaudium et spes n. 46. In altri termini, si tratta di guardare il mondo, la storia dell’umanità, le sue odierne metamorfosi, con lo sguardo di Dio, quello appunto che traspare dal suo “dirsi” in Cristo Gesù: un punto di vista capovolto, che si situa nel posto in cui si trovano relegati gli ultimi, gli emarginati, gli scartati, i poveri, i deboli, ai quali Dio stesso si è avvicinato tramite il Messia crocifisso e risorto.
Forse il dato più evidente che si impone a chi guarda così il mondo contemporaneo è proprio il fatto che esso si sta trasformando radicalmente rispetto al passato.
Certo. Direi anzi che da questo peculiare punto di vista il mondo stia finalmente attraversando un decisivo cambiamento. Il “cambio d’epoca” non può limitarsi a essere solo un fatto contingente o congiunturale, ma dev’essere anche e soprattutto il culmine di un cammino di conversione e di maturazione. Oggi tanti parlano di un cambio d’epoca in corso, descrivendolo alla stregua di una corsa pazza destinata a degenerare in deriva disastrosa, un momento di crisi totale e definitiva, il tracollo irreversibile di un ordine mondiale ormai disfunzionale a tutti i livelli. Dal canto suo, papa Francesco insiste nel segnalare non semplicemente un’epoca di cambiamenti, come è inevitabile e persino opportuno che sia per veder progredire il mondo, bensì un radicale cambiamento d’epoca, cioè una sorta di rivoluzione globale che ha la valenza spiazzante della svolta definitiva. Lo ha ribadito in numerose occasioni, spiegando che ci troviamo in uno di quei frangenti cruciali in cui i cambiamenti devono coincidere con delle ben precise scelte capaci di trasformare il modo di vivere, di relazionarsi, di comunicare ed elaborare il pensiero, di rapportarsi tra le generazioni umane e di comprendere e di vivere la fede e la scienza. Di fronte a uno scenario del genere si può correre il rischio di scoraggiarsi, o persino di barare, facendo soltanto finta di accettare il cambiamento. Il papa dice che l’atteggiamento più corretto è piuttosto quello di lasciarsi interrogare dalle sfide del tempo presente. Sono osservazioni pertinenti e utili, sia per offrire una peculiare ermeneutica della complessità storica con cui abbiamo a che fare sia per innestare nel confronto pubblico l’eco del messaggio cristiano. In tale prospettiva, chiamare in causa, nelle pieghe del magistero ecclesiale o comunque della riflessione pastorale – come Jorge Mario Bergoglio faceva in un suo libro del 1987 ora ripubblicato in traduzione italiana per i tipi dell’editrice Solferino con un titolo icastico: Cambiamo! –, il fenomeno del cambiamento epocale e applicarlo a ciò che avviene ai nostri giorni significa rimandare a un mutamento epocale ben più decisivo, che ha svelato i connotati fondamentali della storia. Difatti, dal punto di vista cristiano, la svolta epocale è già accaduta, circa duemila anni fa, condensandosi in Gesù di Nazaret, il rabbi galileo protagonista di un evento straordinario e singolare, ossia della risurrezione dalla morte: un fatto inedito e, anzi, inaudito, cioè mai prima sentito perché mai prima accaduto. Che un morto tornasse in vita non era mai successo.
Il tipo di insegnamento pontificio che deriva da un punto di vista del genere si può considerare anch’esso diverso e nuovo rispetto a prima?
Direi che a cambiare, nel magistero papale, non siano i contenuti bensì la forma, o più precisamente l’intenzionalità. A mio parere il magistero pontificio sta attraversando una importante metamorfosi in questi ultimissimi anni, in particolare dacché Francesco è vescovo di Roma. Possiamo dire, a tal proposito, che il magistero del papa va assumendo un profilo epistemologico inedito, che lo connota ormai come una sorta di interlocuzione, più che come un insegnamento di tipo dottrinale. Non voglio dire che il magistero di Francesco (o al tempo di Francesco) non mantenga una valenza dottrinale e non si proponga perciò nella e alla Chiesa come vero e proprio insegnamento, specialmente quando è formulato nei classici generi letterari magisteriali, dall’enciclica alla bolla papale, passando per l’esortazione apostolica e il motu proprio. Intendo, semmai, rilevare che l’insegnamento viene appunto “proposto” più che “promulgato”, con un timbro colloquiale che lo fa risuonare come l’abbrivo per una discussione che il papa stesso spera si apra a partire da ciò che sta insegnando. Del resto, già Paolo VI diceva che oggi abbiamo bisogno di maestri che siano innanzitutto testimoni: in questi termini lasciava intendere che il magistero ai nostri giorni non può e non deve mantenere un profilo esclusivamente e meramente dottrinale, ma deve dimostrare pure attendibilità profetica, vale a dire una certa tensione al futuro, una certa disponibilità ad ulteriori sviluppi. Mi pare che Francesco si ponga in questa scia. Un tale atteggiamento non si registra soltanto quando il papa dialoga con qualche suo interlocutore culturalmente e spiritualmente esterno alla comunità ecclesiale. Penso a tal proposito, per esempio, ai colloqui con Eugenio Scalfari, di cui il noto giornalista di tanto in tanto informa i suoi lettori pubblicandone i resoconti sul quotidiano «La Repubblica»: non a caso, nel primo di questi incontri, già nel 2013, papa Francesco spiegava a Scalfari che la verità sta nella relazione. Difatti, la propensione relazionale del papa si registra anche quando egli colloquia con qualche interlocutore che si pone al di dentro della comunità ecclesiale e che si fa mediatore con la comunità ecclesiale tutta quanta, o con l’opinione pubblica ecclesiale e con il mondo cattolico più in generale. Penso in questo caso ad alcune importanti interviste rilasciate da Francesco, specialmente alla prima, famosa, anch’essa del 2013, realizzata con Antonio Spadaro, pubblicata su «La Civiltà Cattolica», che per tanti mesi costituì, prima dell’uscita dell’esortazione apostolica Evangelii gaudium, una sorta di riferimento ‒ appunto ‒ “magisteriale”. E questo tenore colloquiale permane anche tra le righe dei pronunciamenti propriamente magisteriali di Francesco, che a volte riproducono quasi alla lettera alcuni brani delle sue omelie mattutine a Santa Marta e contengono le medesime espressioni “parlate” che il papa proferisce dalla finestra che s’affaccia su piazza San Pietro o nelle conferenze-stampa durante i viaggi apostolici.
Si può dire che, in questa prospettiva, il magistero assume un tono relazionale e dialogico?
Reputo che si possa affermare qualcosa del genere. Infatti il nucleo sorgivo di questa nuova forma di magistero è da individuare in un peculiare “fatto relazionale”, rappresentato dalla reciprocità. Questa può essere considerata come la grammatica fondamentale dell’avventura cristiana non meno di quella umana in quanto tale e come la desinenza “principiale” delle varie sue declinazioni. Si tratta di uno spunto filosofico radicato teologicamente nell’orizzonte dell’agápē, tanto da tradursi nella «mistica del vivere insieme» – come Francesco scrive al n. 87 di Evangelii gaudium –, vale a dire nel sostenersi a vicenda, nel sorreggersi in braccio gli uni con gli altri, nel camminare abbracciati. E proprio l’abbraccio viene scelto, già nel titolo del mio libro, come l’efficace metafora che sintetizza le intuizioni teologiche custodite ed espresse nel magistero del papa argentino che io tento di sintetizzare e commentare.