
In molti paesi europei le città avevano un ruolo importante anche quando la popolazione rurale era di molto superiore a quella urbana, si pensi all’Italia del Medioevo o del Rinascimento. Con la rivoluzione industriale, che ha bisogno di condizioni tecnologiche che solo le aree urbane possono offrire, le città divengono il motore dello sviluppo economico e sociale sia in Europa che nelle regioni del mondo influenzate dalla cultura europea, contribuendo a definire ciò che oggi definiamo “Occidente”.
Le statistiche sui processi di urbanizzazione nel mondo ci dicono come questo fenomeno di polarizzazione urbana avvenga da qualche decennio anche nel continente asiatico ed in quello africano, dove per secoli la campagna ha conservato un peso politico ed economico comparabile se non superiore a quello della aree urbane.
Da più di un decennio, ormai, più della metà della popolazione mondiale vive all’interno di aree urbane più o meno estese e, secondo i demografi delle Nazioni Unite, questo dato è destinato a raggiungere il 60% già nel 2030. Ciò fa sì che attorno alle città ruoti ormai non solo lo sviluppo dei paesi cosiddetti occidentali, ma l’economia e gli stili di vita globali nel loro complesso.
Le ragioni di questa corsa irrefrenabile verso le città possono apparire incomprensibili a molti, viste le tante storture che è inevitabile associare alla condizione urbana, come la congestione, l’inquinamento, l’esclusione sociale. Alcuni studiosi, come Edward Glaeser, hanno affermato che, molto semplicemente, gli individui tendono a concentrarsi nelle città in quanto è lì che colgono le migliori opportunità di affermarsi sul piano economico, sociale e culturale. È per tale ragione, dunque, che sono disposti a sopportare condizioni di vita precarie, per molti aspetti peggiori di quelle che sperimenterebbero rimanendo nelle proprie comunità di origine.
Convincente o meno che sia questa spiegazione, non vi è dubbio che ci troviamo dinanzi ad un processo ineluttabile, che costringerà i governi a prendere atto che le politiche pubbliche del futuro dovranno essere sempre più “urbane”.
Quali sfide le città sono destinate ad affrontate nel prossimo futuro?
Alcune sfide sono sempre le stesse da quasi due secoli. Ricordo che l’urbanistica nasce alla metà dell’Ottocento per correggere gli impatti ambientali e sociali della prima rivoluzione industriale, quando le maggiori città erano divenute il regno di insostenibili condizioni igienico sanitarie, dovute al sovraffollamento ed alla convivenza di attività industriali e quartieri residenziali. In molte aree urbane del mondo questi squilibri risultano essere ancora tali. In alcuni sobborghi metropolitani nei paesi in via di sviluppo, la convivenza di enormi masse di popolazione con spaventosi rischi ambientali (suoli inquinati, inondazioni) è ancora una triste realtà.
Parlare di sfide per le città, dunque, richiede sempre un grande sforzo di contestualizzazione storica e geografica. Nei paesi più sviluppati, buona parte delle città si sono lasciate alle spalle alcuni problemi propri delle città del secolo scorso, ma ne sono emersi di nuovi, quali ad esempio i costi sociali ed ambientali del declino industriale o di regioni urbane sempre più estese. Man mano che ci si sposta verso i paesi meno sviluppati, tuttavia, la sfida per le politiche urbane può ancora consistere nel garantire diritti basilari alla popolazione, quali l’abitare una casa dignitosa o l’avere accesso a servizi pubblici adeguati. Problemi urbani, ben inteso, che non riguardano solo il profondo Sud del mondo, ma troviamo ben visibili in molte periferie del vecchio continente.
In altri termini, le città attraversano cicli di sviluppo che dipendono in gran parte dal contesto economico, politico e sociale in cui sono immerse e dunque fronteggiano sfide che – senza alcun intento riduttivo – sono propriamente locali.
Poi naturalmente vi sono delle sfide per le città che possiamo definire “globali”. Il cambiamento climatico, ad esempio, tende a produrre effetti sulle città indipendentemente dal loro livello di sviluppo, anzi l’esperienza ci insegna come talvolta le comunità urbane meno ricche ed organizzate si rivelino le più resilienti all’insorgere di eventi inattesi. La crisi pandemica di quest’ultimo anno ci ha insegnato che anche nelle aree urbane più organizzate la densità di funzioni socio-economiche – da sempre ritenuta fonte di ricchezza per le città – può costituire un problema, la cui soluzione richiede una riflessione in primis sul ruolo delle città nel cosiddetto modello di sviluppo occidentale. Ancora, le nuove tecnologie potenzialmente offrono la possibilità di accorciare i tempi di risposta delle città al cambiamento economico e sociale, i cui effetti sulle comunità urbane sono largamente ignoti tanto da richiedere una riflessione globale.
Con quali nuovi contenuti e valori compatibili con le forme del cambiamento urbano deve confrontarsi la riflessione sullo “sviluppo sostenibile”?
Il concetto di sviluppo sostenibile nasce all’interno di un preciso momento storico, tra gli anni settanta e ottanta del secolo scorso, quando nella comunità internazionale era maturata l’idea di dover rendere più compatibile la crescita economica con la tutela dell’ambiente e dell’equità sociale. In termini del tutto generali, tali obiettivi non hanno perso la loro attualità, essendo espressione di valori che possiamo ritenere universali.
Ciò che è mutato considerevolmente nel corso degli ultimi decenni è con quali mezzi possiamo perseguire le finalità che sono proprie dello sviluppo sostenibile. Ovunque, le nuove tecnologie offrono la possibilità di smaterializzare l’economia, di rendere le città ambientalmente più sostenibili in molti campi della produzione e della vita associata. I settori economici emergenti nelle aree urbane – dal turismo ai servizi avanzati – esercitano una pressione sull’ambiente di molto inferiore a quella determinata dalle industrie manifatturiere del passato. Le stesse attitudini delle popolazioni urbane, con il ricorso alle biciclette o alla mobilità condivisa, tendono a ridurre gli impatti ambientali di altri settori storicamente inquinanti, quali i trasporti.
La rivoluzione tecnologica, d’altro canto, sta producendo effetti territoriali e sociali la cui sostenibilità è tutta da scoprire. Pensiamo, solo per citare i casi più eclatanti, all’impatto di operatori quali Amazon sulla distribuzione commerciale di intere regioni urbane o di aziende quali Airbnb e Booking sull’organizzazione dell’offerta turistica anche nei centri urbani di piccole dimensioni. Si tratta di processi che possono avere effetti positivi sulla riarticolazione delle economie locali, ad esempio rendendo più agevole l’accesso ai mercati per gli operatori economici più piccoli e meno organizzati. Ma possiamo ritenere sostenibile il successo di una città in cui la corsa ad ampliare l’offerta di alloggi turistici crea serie distorsioni nel mercato immobiliare?
Vi sono, dunque, alcune lezioni generali che possiamo apprendere man mano che tali processi si affermano a livello globale: la prima, che la sostenibilità non va mai ritenuto un concetto statico, ma riformulata di continuo a partire dai cambiamenti che si determinano nell’economia e nella società locali; la seconda è che la ricerca della sostenibilità è priva di senso senza il progetto locale, prenda esso le forme di trasformazioni fisiche o politiche regolative. Di certo, nell’uno e nell’altro caso, le città sono i luoghi privilegiati per osservare tali cambiamenti e ricercarne soluzioni.
Di quali risorse e soggetti le politiche pubbliche possono avvalersi per risolvere i conflitti in ambito urbano?
Innanzitutto quando parliamo di “risorse” dobbiamo fare una distinzione tra le risorse economiche, necessarie alla concreta realizzazione dei progetti, ed altre e meno tangibili risorse locali, quali la capacità di condurre processi progettuali complessi, di attivare la collaborazione di vari soggetti istituzionali, di acquisire le conoscenze e la fiducia di diversi portatori di interesse.
Fino ad un certo punto, le prime erano messe a disposizione unicamente dallo Stato, mentre oggi le città possono avvalersi di varie fonti, tra cui quelle provenienti da altri soggetti pubblici – quali ad esempio l’Unione europea o le regioni – e sempre più anche dal settore privato. Da questo punto di vista, mutati i meccanismi di reperimento e distribuzione delle risorse finanziarie utili alle città, non direi che il problema delle politiche urbane contemporanee risieda in una carenza nella disponibilità di fondi. Le città, infatti, continuano ad essere destinatarie di cospicui investimenti in svariati campi, come ad esempio nei trasporti o nella riqualificazione energetica, benchè tali investimenti siano spesso mossi da ragioni settoriali.
Ciò che a mio avviso è più strategico, ma paradossalmente più carente nelle politiche urbane contemporanee, sta nella capacità dei governi locali di attingere ad uno spettro più ampio di risorse e potenzialità che le città presentano al proprio interno. Dico “paradossalmente” in quanto nelle politiche pubbliche per le città degli ultimi decenni si è posta una grande enfasi sulle forme di progettazione urbana ‘collaborativa’, senza che queste innovazioni abbiano condotto ad effetti rilevanti sui reali processi di cambiamento nelle città, se non per circoscritte iniziative di partenariato pubblico-privato.
Visto che la domanda richiamava il tema del conflitto, ne vorrei sottolineare il nesso con le mie precedenti argomentazioni. Ritengo, infatti, che ogni iniziativa di trasformazione territoriale presupponga l’insorgere di un conflitto, introducendo un fattore di discontinuità in un contesto popolato di una pluralità di interessi, aspirazioni, visioni dello sviluppo.
Se dovessi identificare un’area su cui investire nel prossimo futuro per rafforzare la sostenibilità dello sviluppo delle città direi su tutto ciò che serve alle politiche locali per gestire in chiave positiva questi conflitti, a partire da un grande investimento sugli apparati pubblici e le forme collaborative del governo urbano.
Quali nuove forme deve assumere la sostenibilità e quale ruolo svolge l’azione locale?
Direi che la questione di come concepire oggigiorno l’azione locale si lega più che mai a quanto ho appena sottolineato. Nel libro dedico molto spazio al tema dell’approccio integrato, in quanto metodo che si presta a molte interpretazioni, tutte molto utili a rendere l’azione locale per lo sviluppo sostenibile più efficace in contesti socialmente frammentati quali le nostre città.
Nella più intuitiva di queste interpretazioni, “integrare” significa per l’appunto rendere compatibili le diverse visioni che vari attori locali possono avere riguardo allo sviluppo della propria città. Ancora, questo sforzo di integrazione può essere perseguito cercando di raccordare le progettualità di soggetti posti a vari livelli della gerarchia istituzionale (Stato, Regioni, grandi aziende pubbliche), come si richiede ad esempio nel caso di grandi progetti infrastrutturali.
Ma la più stimolante, ed allo stesso tempo insidiosa, versione del concetto di integrazione è quella che applicano i policy-maker quando si propongono di far si che diverse azioni progettuali producano un effetto congiunto, dato dalla loro reciproca sinergia spazio-temporale. Banalmente, si tratta dell’atteggiamento di chi riconosce come la rigenerazione di un quartiere possa essere favorita non solo dalla ristrutturazione degli edifici più degradati o dalla riqualificazione di uno spazio pubblico, ma anche dalla comparsa di attività – sociali o economiche – attraverso altri progetti (ad esempio incentivi) specificamente mirati a quei luoghi.
Numerosi studi ci dicono come questa interpretazione dell’approccio integrato alla progettazione, benchè tuttora ritenuto il più appropriato nel dibattito internazionale, abbia condotto a risultati in molti casi inferiori alle aspettative di sviluppo delle comunità locali. Ciò perché allineare funzionalmente e temporalmente azioni progettuali di diversa natura può incontrare diversi ostacoli, legati in primo luogo all’efficienza degli apparati amministrativi, ma anche alla capacità progettuali del settore privato.
Tuttavia, proprio in quanto il concetto stesso di sostenibilità suggerisce la creazione di ponti tra le sfere socio-economiche ed ambientali dello sviluppo non si vede come l’azione progettuale possa prescindere da un approccio integrato.
Ignazio Vinci insegna Urbanistica all’Università di Palermo. I suoi interessi spaziano dalla pianificazione territoriale alle politiche urbane, temi sui quali ha pubblicato numerosi libri, i più recenti dei quali sono Pianificazione strategica in contesti fragili (2010), The spatial strategies of Italian regions (2014), The role of sharing mobility in contemporary cities (Springer, 2020), Progettare lo sviluppo sostenibile nelle città (Carocci, 2020). È stato consulente di diversi enti ed agenzie pubbliche in attività di progettazione, accompagnamento e valutazione di piani e programmi per lo sviluppo territoriale.