“Profughi” di Arianna Arisi Rota

Prof.ssa Arianna Arisi Rota, Lei è autrice del libro Profughi, edito dal Mulino. Il termine profugo è entrato ormai prepotentemente nella nostra quotidianità, eppure il dramma delle forcibly displaced people, come li definisce la burocrazia internazionale, non è solo questione della nostra attualità: quali parallelismi offre la vicenda di Parga?
Profughi, Arianna Arisi RotaLa vicenda di Parga risale a oltre duecento anni fa, quando nel 1819 la piccola città-fortezza dell’Epiro venne definitivamente ceduta dall’Inghilterra all’impero Ottomano, o meglio, al pascià di Giannina, Alì, provocando così l’esodo forzato dei suoi abitanti per sfuggire a una dominazione che temevano e sapevano sarebbe stata dolorosa, mentre ancora speravano di restare sotto la protezione britannica. Si trattò nel complesso di 3000 persone, circa 700 famiglie, che vennero smistate soprattutto nelle vicine isole di Corfù e Cefalonia e che vi restarono a lungo, vivendo ai margini e stentando a ricostruirsi un’identità. Numeri piccoli, se confrontati con quelli dei flussi di rifugiati ai quali ci hanno abituato i mass media. Ma per l’Europa liberale e romantica del tempo fu uno scandalo internazionale che indignò l’opinione pubblica e mobilitò intellettuali militanti come Lord Byron e Ugo Foscolo, quest’ultimo combattuto tra la difesa della causa dei pargioti – lui, nativo delle isole Ionie – e la gratitudine verso quella stessa Inghilterra che gli dava asilo.

Si tratta quindi di una tragedia del Mediterraneo come purtroppo tante ne conosciamo, una vicenda che offre ancora molti spunti per riflettere su questioni senza tempo come il diritto delle genti – noi diremmo i diritti umanitari –, lo sradicamento dalla terra natale e la decisione di affrontare l’ignoto piuttosto che vivere sotto un regime avverso. Coloro «che cercano scampo» – questo il significato della parola profughi –fuggendo da guerre o da contesti dove rischierebbero comunque la vita, sono una realtà che non si ferma mai: il 20 giugno scorso, Giornata Mondiale dei Rifugiati, è stato pubblicato da parte dell’UNHCR, l’agenzia ONU per i rifugiati, il rapporto annuale Global Trends in Forced Displacement, con le cifre più aggiornate sul fenomeno (al dicembre 2022): le persone in fuga nel mondo sono stimate intorno ai 110 milioni (108.4), con aumenti rapidi e senza precedenti nell’ultimo biennio. Il 52% arriva da tre soli paesi, Siria, Ucraina, Afghanistan. Il 40% sono bambini. Secondo dati UNICEF, i bambini sfollati nel mondo sono 43 milioni.

La vicenda di Parga ci dice che nella geopolitica dell’Ottocento delle rivoluzioni possiamo trovare un caso che riesce a parlarci dei costi emotivi e materiali, delle vite spezzate di chi diventa profugo: la sua forza fu tale che divenne subito emblematico per tutti coloro che volevano denunciare i costi umani delle spartizioni territoriali e le logiche delle cancellerie. Realizzato tra il 1826 e il 1831, anno in cui fu esposto e ammirato a Brera, il quadro di Francesco Hayez rappresenta dunque un esempio di coraggiosa pittura civile – come la definì Giuseppe Mazzini – perché il pittore scelse per la prima volta di confrontarsi con un soggetto contemporaneo, non un soggetto storico o biblico, e mostrando i profughi di Parga finì anche per alludere alla condizione di molti italiani che, protagonisti delle prime lotte risorgimentali, per salvare la vita avevano dovuto espatriare.

Donne, bambini, anziani, sono gli attori di un dramma ormai al centro di una nuova attenzione: in che modo I Profughi di Parga di Francesco Hayez racconta il trauma dello sradicamento?
La forza del quadro conservato alla Pinacoteca Tosio Martinengo di Brescia – commissionato dal conte Paolo Tosio, lungimirante mecenate che lasciò l’artista libero di sceglierne il soggetto – sta nella rappresentazione del dramma dei profughi politici come dramma collettivo, che coinvolge più generazioni: famiglie, bambini in fasce e giovani adolescenti, donne, anziani stanchi, fragili e disorientati, uno portato a spalle forse da un figlio, novello Enea. Viene così superata l’iconografia classica e stereotipata dell’esule ottocentesco, rappresentato quasi sempre come uomo solo e solitario, e vengono recuperati quelli che la storiografia internazionale più avanzata ha chiamato “gli invisibili”, ossia i membri delle famiglie, quelli spesso lasciati indietro, quelli che restano, ma anche quelli che, in molti casi, partono. Hayez fece ricerche accurate, quasi maniacali, e sfruttò tutte le fonti all’epoca disponibili per ricreare realisticamente il paesaggio, che è anche e soprattutto un paesaggio emotivo, e i personaggi della sua grande tela di quasi tre metri per due. Il suo fu lo sforzo di restituire, sono sue parole, le tante passioni che il trauma dell’abbandono forzato della propria casa aveva provocato, e ancora provoca, al di là di ogni tempo e luogo.

Immaginata a distanza nel suo studio di Brera (dove usava lavorare a più soggetti contemporaneamente), ogni figura del quadro, soprattutto nel gruppo al centro, ma anche le figure più piccole che si affollano sulla spiaggia in basso a destra, in attesa degli imbarchi, reclama la sua identità e reclama l’attenzione dello spettatore, comunicando un dolore muto, lo sgomento e la rassegnazione, lo strazio del lasciare indietro luoghi e cose care che con ogni probabilità non si rivedranno più. Questo sentimento emerge anche dai ricordi di esuli del Novecento, e del Ventunesimo secolo, almeno di quelli che trovano la forza e la voglia di raccontare, mentre più spesso a prevalere è il silenzio l’indicibilità, l’autocensura. Hayez riesce cioè a cogliere, quasi come un fotoreporter ante litteram, il momento del passaggio di un confine emotivo e materiale, quello tra la condizione di prima e quella presente: la sua è quasi un’istantanea che cristallizza i tanti personaggi restituendone, con la forza delle sole immagini, sguardi, pensieri, gemiti, dignità e angoscia. Guardare indietro, guardare avanti. Non guardare. Tanti sono i modi per dire addio alle proprie radici: ad esempio raccogliere una manciata di terra, o rami degli alberi del luogo, gli ulivi, da portarsi dietro come ben modesto bagaglio. Tutto ciò viene reso con la perizia dell’artista che tuttavia forse da sola non sarebbe bastata a realizzare un capolavoro se non fosse stata accompagnata da empatia, da pietas, da immedesimazione. Un’emozione che ancora ci parla.

In che modo i gesti, gli sguardi smarriti che ci catturano in questo dipinto, coinvolgono lo spettatore dei nostri giorni come quello di allora?
In effetti il quadro ebbe subito successo di critica e la censura austriaca non ne ostacolò l’esibizione, anche se gli osservatori più avvertiti e consapevoli colsero subito l’allusione alla condizione degli italiani. Del resto il canovaccio per la tela di Hayez, ossia l’omonima ode pubblicata dall’esule Giovanni Berchet a Parigi nel 1823, aveva provocato lo stesso risultato e sarebbe divenuta un passaparola sovversivo nell’ambiente dei cospiratori. Come quello della Giovine Italia mazziniana dei primi anni Trenta: i giovani studenti la ricopiavano a mano e la declamavano nel loro apprendistato clandestino alla politica; se intercettato e sequestrato nelle perquisizioni domiciliari dalla polizia, il componimento veniva considerato un grave indizio di dissenso politico. Oggi, pur nell’atmosfera ovattata della Pinacoteca di Brescia dove la tela è conservata, non si può rimanere indifferenti di fronte allo sguardo stravolto di alcune figure femminili del quadro, coma la giovane donna seduta a terra in basso a sinistra, con a fianco come reliquia e unico bagaglio il teschio «di un amante o di un padre» – è l’ipotesi di Mazzini, altro non ci è dato di sapere –, o agli occhi bassi, dignitosi ma senza speranza, della madre e della giovane del gruppo familiare al centro della scena. Una scena davvero corale, nella quale agli uomini è invece affidato lo sguardo all’indietro, verso l’alto, là dove resta la città ormai vuota verso la quale si stanno dirigendo le truppe del nuovo dominatore, mentre tra l’umanità fitta sulla spiaggia battuta da una mare inquieto e per nulla rassicurante, con le navi al largo e le barche scialuppe ormai a riva, è possibile riconoscere una donna che sviene, sorretta dal compagno, e uomini avvolti in mantelli per il freddo del mattino, un’immagine che ricorda molto quella dei migranti dei nostri giorni avvolti nelle coperte termiche luccicanti; e, ancora, un soldato inglese di spalle che aiuta gli imbarchi, e bambini in fasce portati sulle spalle, ignari del dramma che la gente di Parga sta vivendo, e che Parga potranno solo farsela raccontare, per immaginarla in fondo all’orizzonte. Di queste persone non sappiamo i nomi, come non li sappiamo dei profughi che approdano sulle nostre coste dopo sfide inimmaginabili. Eppure ognuno e ognuna pretende individualità, catturando l’occhio dell’osservatore.

Ecco, tutto questo mi sembra che parli una lingua senza tempo, quella di chi inizia un viaggio, tra speranze di approdi, di accoglienza, e traumi di respingimenti. Una vita di attesa, senza spazio per la progettualità. Un viaggio, quello interiore, che non finirà mai e che ci parla di noi.

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