“Profili evolutivi del formalismo testamentario. Dalla tradizione romanistica al particolarismo medievale” di Alberto Mattia Serafin

Dott. Avv. Alberto Mattia Serafin, Lei è autore del libro Profili evolutivi del formalismo testamentario. Dalla tradizione romanistica al particolarismo medievale edito da Giappichelli: quando e come nasce il fenomeno giuridico del «formalismo testamentario»?
Profili evolutivi del formalismo testamentario. Dalla tradizione romanistica al particolarismo medievale, Alberto Mattia SerafinLa ringrazio anzitutto per l’interesse che la testata ha inteso riservare al libro, e mi permetta anche di rilevare come questa Sua prima domanda abbia sùbito colto l’esatta intenzione, che ne ha sorretta e guidata la redazione. Rispetto ad un «fenomeno» – su quest’altra, così efficace parola, tornerò fra un attimo – che pur qualifica, giustamente, come «giuridico», la Sua attenzione non si è infatti rivolta, come pure sarebbe potuto accadere, ed anzi forse lecito attendersi, a «quali norme» attualmente lo règolino.

Un interrogativo, questo, al quale sarebbe stato, d’altra parte, alquanto agevole replicare, poiché è noto che la «vigente» disciplina in tema di forma del testamento è contenuta negli artt. 601 ss. del cod. civ., i quali fanno parola – salvi i modelli c.dd. «speciali» – d’una variante «olografa» e d’una «per atto di notaio», che a propria volta può essere «pubblica» o «segreta».

Il Suo quesito, invece, s’appunta su due avverbi interrogativi, che mi paiono ben più stimolanti e significativi. «Quando» e «come», e quindi direi anche «perché», la storia ha registrato lo «apparire» – quel φαίνομαι, da cui appunto il nostro «fenomeno» – del «formalismo testamentario»?

Già questo primo problematizzazione del tema restituisce un mutamento prospettivale, che non esiterei a definire come radicale. È infatti circostanza constatabile con facilità, che presso la nostra civilistica l’argomento c.d. storico stia vivendo – salve ovviamente alcune eccezioni, tanto occasionali, quanto perciò apprezzabili – una fase di sicura decadenza.

Non è certo questa la sede per svolgere un’indagine puntuale in ordine alle cause di tale declino, sebbene sia ragionevole supporre che esso possa essere ascritto, in via prioritaria, al diffuso «presentismo», che caratterizza e avvolge il nostro tempo. Ma invece d’interrogarci, allora, a’ termini più generali, sulle ragioni di questo ostinato rifiuto del passato, mi sembra più profittevole ricercare le motivazioni di quel regresso metodologico entro una dimensione interna alla stessa «giuridicità».

Ora, è noto che il nostro sistema ordinamentale, a partire dal 1948, vede al vertice delle proprie fonti la Costituzione, ma è forse meno risaputo, almeno per i non «addetti ai lavori», che solo a partire a partire dagli anni Sessanta dello stesso secolo – indico stipulativamente questo decennio, malgrado talune voci precorritrici (S. Pugliatti, R. Nicolò) – la dottrina nazionale s’è avveduta di come l’avvento della Carta fondamentale potesse, o per meglio dire dovesse, determinare un’integrale rimeditazione delle categorie tradizionali.

Questa apprezzabile e del tutto condivisibile tendenza, che ha portato ad acquisizioni teorico-pratiche oltremodo rilevanti in pressoché ogni campo della nostra scienza, oramai capillarmente «riletta» alla luce dell’assiologia additata dai Costituenti, ha però talvolta omesso di considerare («prima», o comunque «in concomitanza», a quella «rilettura») donde realmente provenissero le diverse soluzioni legislative, e così anche – per tornare a noi – quegli artt. 601 ss. del cod. civ., ai quali accennavo in principio.

Mi scuso, allora, per queste così ampie considerazioni introduttive, che potranno forse essere definite di «teoria generale», ma le ho credute quanto mai necessarie, per giustificare l’adozione d’un «metodo» di studio e d’approfondimento, che nei tempi odierni, come già ricordato, non può dirsi propriamente diffuso.

Ma è proprio a partire da quelle riflessioni, che ha preso corpo l’idea di consegnare ai tipi di Giappichelli, e quindi alla cortesia e alla disponibilità di questa così prestigiosa Casa editrice, un’opera articolata, forse anche qui insolitamente, in due volumi. Il primo, di cui oggi parliamo, che investigasse l’atteggiarsi di quel «fenomeno» – mi piace, ancóra una volta, fare ricorso al pregnante vocabolo – sin dal più risalente diritto romano, per poi attraversare la fase medievale, e così approdare alla «stagione» dei codici; il secondo, attualmente in corso di redazione, che viceversa movesse dalla codificazione stessa, e quindi si distendesse fino ai giorni nostri, con particolare riguardo all’accelerante e inarrestabile evoluzione tecnologica che li connota.

Mi rendo conto, allo stesso tempo, di come questa scelta editoriale esiga – correlativamente – una duplice giustificazione, riferita l’una al punto da cui l’indagine ha preso le mosse, vale a dire l’esperienza giuridica romana; l’altra al momento in cui essa viceversa s’arresta, per poi proseguire nel secondo tomo, e cioè l’increscioso inverarsi delle pulsioni codificatrici,

Là dove, val la pena di rilevarlo sin d’ora, la «coerenza» complessiva del testo dovrebbe essere assicurata, in ogni caso, dalla costante adozione di due parallele, eppur comunicanti, direttrici di conoscenza, che si presentano appunto quali «meta-storiche», «trans-epocali» o, ancóra meglio, «trascendentali» rispetto alle diverse fasi della storia. Una, che viene definita «esterna», orientata a segnare le particolarità (formali) del testamento rispetto alle altre figure negoziali; l’altra, invece «interna», configurata per giustificarle alla stregua del mutevole «contenuto» dell’atto mortis causa.

Quali tipologie testamentarie conobbe l’esperienza giuridica romana?
L’esperienza romanistica rappresenta un terreno fertile, e direi anzi il caso paradigmatico, per verificare i plurimi profili d’intersezione fra quelle dimensioni «esterna» e «interna», alle quali si alludeva poc’anzi, proprie del formalismo testamentario.

Anche al fine di motivare, come pure annunciato, il dies a quo della nostra indagine, v’è da notare a mo’ di premessa che, nonostante civiltà giuridiche finanche anteriori rispetto a quella romana conoscessero il «disporre» per causa di morte (riscontri espressi, al riguardo, sono nel mondo greco), è solo a partire da quella tradizione, che viene appunto plasmandosi la fisionomia d’un atto testamentario «modernamente» inteso.

Ce ne offrono riprova, a tacer d’altro, le definizioni che ne offrono le fonti. E così, ad esempio, Modestino riesce ad affermare che Testamentum est voluntatis nostrae iusta sententia de eo, quod quis post mortem suam fieri velit (D. 28, 1, 1), certificando espressamente quella latitudine «volontaristica», lungo la quale tutt’oggi s’intravvedono «fondamento» e «scopo» del testamento, al punto che è proprio nella voluntas testantis, che pare riposare il diffuso canone ermeneutico del favor testamenti. Ancóra, nei Titoli ex corpore Ulpiani, leggiamo che Testamentum est mentis nostrae iusta contestatio, in id sollemniter factum, ut post mortem nostram valeat (20, 1), uscèndone per tal modo rimarcato un aspetto di «solennità», che persiste nel suggerire a molti di scorgere nel «formalismo» una componente connaturale al testamento, in difetto della quale esso neppure dovrebbe dirsi tale. Infine, nelle Istituzioni di Giustiniano s’afferma più concisamente che Testamentum ex eo appellatur, quod testatio mentis est (2, 10 pr.), rischiarandosi così un profilo etimologico, che enfatizza in via ulteriore il collegamento con una funzione «attestativa» d’una mens, di un’intenzione e, insomma, d’una «volontà».

Torniamo, però, alla «forma», benché non d’una, ma di «più» forme – o «tipologie», come ben Lei dice – ci offrano riscontro le fonti stesse. Teniamo al riguardo in disparte le Dodici tavole, le quali, come si desume dallo Uti legassit (Tab 5.4) e, specialmente, dallo Intestato moritur (Tab 5.5), non regolavano in via esplicita le formalità del testamento, in quanto i mores – l’ha rilevato l’Impallomeni – probabilmente le presupponevano come già accertate, e quindi come non meritevoli d’essere ulteriormente precisate. Andiamo, allora, direttamente a Gaio, il quale ci testimonia (2, 101) dell’esistenza di tre «tipologie» testamentarie: quella calatis comitiis, che era per l’appunto effettuata avanti ai comitia calata, ossia alle solenni assemblee del popolo romano; quella in procinctu, riservata ai soldati in battaglia; infine, quella per aes et libram, che, dapprima circoscritta ai casi di morte improvvisa, ben presto surrogò le prime due, le quali pertanto in desuetudinem abierunt (Gai 2, 103). Ora, mercé quest’ultimo schema «librale», il testatore effettuava una mancipatio complessiva del proprio patrimonio ad una persona di fiducia, detta familiae emptor, e quindi a favore di questa – in presenza del libripens e di non minus quam quinque testest – conferiva il fittizio incarico di trasferire i cespiti ereditari; «fittizio», per l’appunto, e cioè dicis gratia propter veteris iuris imitationem, in quanto il «fiduciario» non era destinatario d’alcunché, diversamente dall’erede vero, sul quale sarebbe gravato anche l’adempimento dei legati. Solo in un momento successivo – seppure in conformità alla unitas actus – l’ereditando pronunciava la solenne nuncupatio testamenti, tenendo in mano e leggendo le tabulae ceratae, sí da perfezionare un atto «sostanzialmente» uni-laterale, ma «formalmente» bi-laterale.

Ebbene, se il periodo c.d. pre-classico non fece registrare a tale assetto significative variazioni, fu solo a partire dall’età c.d. classica, che la «ritualità» cominciò a degradare in «formalità», sicché numerosi passaggi procedurali, un tempo indefettibili, si davano oramai per artificiosamente compiuti: gli stessi libripens e familiae emptor, oramai, fungevano da (meri) testimoni, che per tal modo divennero di numero pari a sette. Anzi, con la transizione dal ius civile al ius honorarium, questa tendenza «de-solennizzante» s’accentuò ancóra, tantoché all’originario testamento librale s’affiancò timidamente, prima, e si sostituì definitivamente, poi, quello iure praetorio factum, ossia un «semplice» documento sigillato da sette testimoni e del tutto privo delle formalità mancipative.

E la riferita tendenza proseguì anche durante l’età c.d. post-classica, poiché già Valentiniano III aveva reputato valido il testamento confezionato senza testimoni (Nov. 21, 2), ove codesta assenza fosse per così dire «bilanciata» dalla scrittura da parte del testatore holographa manu. Con una semplificazione, che non fu tuttavia recepita da Giustiniano, il quale infatti confermò la necessità dei sette testimoni, oltreché la contemporanea e contestuale sottoscrizione del de cuius (Inst. I., 2, 10, 3).

Ciò posto, non è possibile, nello spazio di poche righe, svolgere puntuali considerazioni correlative – profilo c.d. esterno del formalismo testamentario – tra l’evoluzione sommariamente descritta e quella che nel medesimo periodo ha investito gli altri atti non mortis causa, non potendo al riguardo che rinviare al testo (spec. p. 74 ss.). Si può già qui anticipare, nondimeno, che più il testamento sembrava influire su sfere «trans-individuali», e quindi non schiettamente «patrimoniali», maggiore era il relativo formalismo (esemplare, in proposito, lo schema «comiziale»); viceversa, minore si appalesava quella incidenza, con il coevo «de-collettivizzarsi» del testamento, parimenti meno esasperata si presentava la relativa forma.

Con una «patrimonializzazione» o, se si vuole, una «individualizzazione», che emerge chiaramente – profilo c.d. interno del formalismo testamentario – ripercorrendo in chiave diacronica l’evoluzione «contenutistica» dell’atto a causa di morte. La quale è contrassegnata dalla progressiva perdita di centralità della heredis institutio, che sempre meno si presentava come caput et fundamentum totius testamenti (così, invece, in Gai 2, 229), perché appunto il testamento stesso non era più funzionale, quanto meno in via esclusiva, ad individuare il successore della familia. E, di qui, l’ammissione di formule «atipiche», «ellittiche» o «incompiute» (Titium heredem esse iubeo, ma anche Titium heredem instituo o facio), non disgiunta dal crescente e sempre più pervasivo affiancamento di disposizioni «a titolo particolare», quali i legata o i fideicommissa.

Quale evoluzione subì, nell’età medievale, l’istituto testamentario e quali forme assunse la manifestazione delle volontà successorie?
Nell’attestare l’esigenza d’una costante «funzionalizzazione» dei requisiti formali al cangiante contenuto dell’atto testamentario, l’esperienza giuridica medievale si mostra, se possibile, ancóra più istruttiva di quella romanistica.

Occorre tuttavia porre a premessa come, malgrado un primo periodo di più pacifica co-esistenza fra quella tradizione e i costumi germanici locali (penso, ad esempio, a taluni passaggi degli Editti di Teodorico ed Eurico, ma anche alla Lex romana Wisigothorum), il reale passaggio di consegne con l’alto medioevo abbia assunto, a dirla in termini moderni, i contorni d’un vero e proprio legal transplant. E, d’altra parte, come quest’ultimo abbia avuto un esito tutt’altro che fausto, poiché frattanto era indubbiamente venuto meno quello humus di valori, credenze e idee, ma anche di più concreti elementi socio-economici, che in passato avevano giustificato un più massiccio ricorso al testamento, nel quale al contrario ora non s’intravvedeva più uno strumento adeguato di regolazione delle vicende post mortem.

Abbiamo già visto che, in diritto romano, la progressiva «de-solennizzazione» delle forme testamentarie era stata coeva allo sviluppo d’una più spiccata autonomia in capo agli individui, e consecutiva quindi al tramonto della familia intesa nel senso «potestativo» più arcaico. Viceversa, in età medievale s’assiste ad una significativa svalutazione della volontà dei soggetti privati, sopraffatti – come ha scritto Paolo Grossi – dalle “[…] forze grezze e primordiali della rerum natura”, e quindi in termini più ristretti da quel gruppo familiare, che sembrava dovesse prevalere, come tale, su quanti lo componevano.

Non dovrà stupire, in un tale contesto, come la tradizione germanica ignorasse tout court il testamento, e come al contrario affidasse le dinamiche successorie alle regole, per così dire di default, proprie della delazione legale, a propria volta fondate ora alla cogenza auto-evidente dei vincoli di sangue, ora sulla volontà (non certo dell’uomo, ma) di Dio, perché appunto Deus solus heredes facere potest.

Era ancóra vero, insomma, quello che Tacito aveva scritto, molti secoli prima, nella sua Germania, e cioè che Heredes tamen successoresque sui cuique liberi, et nullum testamentum: la comunità familiare (Hausgemeinschaft) era cioè così coesa da non lasciare al padre (Hausvater) facoltà alcuna di disporre, neppure a titolo liberale, dei beni facenti parte del patrimonio familiare (Hausgut).

Con una soluzione che, d’altronde, avrebbe trovato esplicita conferma nell’Editto di Rotari del 643 d.C., e che tuttavia solo poco tempo dopo già cominciò a subire timidi, ma inequivocabili indebolimenti. Alludo anzitutto a un Editto di Liutprando del 713 d.C., il quale – mitigando le citate previsioni edittali – avrebbe consentito a qualsiasi persona, che fosse gravemente malata, di disporre d’una parte del proprio patrimonio, mediante donazione, a favore dell’anima. Chiara, l’eco ecclesiastica di questa novella, essendo il sovrano longobardo a capo d’un popolo, che da poco s’era convertito al cristianesimo. Ma con una tendenza ulteriormente assecondata, poco dopo (755 d.C.), dal re Astolfo, il quale estese la possibilità di perfezionare donationes pro anima agl’individui sani.

Già queste innovazioni ci fanno fede d’un significativo slittamento teleologico: gli atti «di ultima volontà», lato sensu intesi, non sono più preordinati all’individuazione d’un erede, apparendo piuttosto orientati a lenire le preoccupazioni, sempre più angoscianti, per il destino dell’anima, e quindi a garantire al loro autore la salvezza nella vita «ultra-terrena». E a supplire alla persistente assenza del testamento, furono cioè proprio le donationes post obitum, intese come una congerie di figure negoziali, di chiara ascendenza longobarda, funzionali al contemperamento fra gl’interessi «spirituali» e quelli «mondani».

Anche mediante la diffusione di questi «patti successori», che determinarono l’affiancamento alla delazione «legale» di quella «pattizia», e grazie altresì alla scuola d’Irnerio e al perfezionarsi della ars notaria, si assistette – a partire dal c.d. basso medioevo e in buona parte dell’Europa – ad una risorgenza del testamento, che sembrava sempre più acquistare caratteri non certo identici (sul punto tornerò a breve), ma comunque più rassomiglianti all’antica configurazione romana.

Eppure, di nuovo v’era ora quella Chiesa, che imponeva d’anteporre le istanze personalistiche di salvezza a quelle strettamente patrimoniali, e di qui il diffondersi sempre più intenso di disposizioni pro salute animae volte a curare la sepoltura, a gratificare l’anima o, ancóra, a beneficiare i bisognosi, ora direttamente, ora per il tramite delle istituzioni ecclesiastiche.

Ora, sotto il profilo strettamente «formale», il diritto canonico – avvalendosi di quello straordinario strumento di «flessibilizzazione» che fu la aequitas – contribuì ad alleviare notevolmente gli antichi crismi per confezionare un valido atto a causa di morte: penso, soprattutto, ad alcune decretali dei papi Alessandro III e Innocenzo III (per un più compiuto esame delle quali, cfr. p. 170 ss.). Palese, anche qui, l’intento che le animava, e cioè quello di evitare che disposizioni affette da vizi di forma inciampassero nella sanzione d’invalidità, e che quindi non andassero ad esito tutte le disposizioni, che avessero visto la Chiesa stessa in veste di beneficiaria.

In un tale contesto, e lungo il cospicuo periodo storico considerato, è evidente come – profilo c.d. esterno del formalismo testamentario – non possa accentuarsi una correlazione fra quel testamento, che fu (quanto meno ove tecnicamente inteso) del tutto ignoto alla prima fase dell’esperienza medievale, e gli altri atti, ai quali pure si attribuirono finalità «para-successorie». Viceversa, non può che convenirsi – profilo c.d. interno del formalismo testamentario – con l’osservazione del Vismara, lì dove ha rilevato, con arguta rivisitazione della proposizione gaiana, che caput et fundamentum totius testamenti fu, in questa fase, non più la heredis institutio, bensí la disposizione pro anima. Restando così spiegato il perché la Chiesa avesse rinunciato, in modo alquanto ingegnoso, a dettare una disciplina ex novo dell’istituto testamentario, essendosi piuttosto orientata a rivisitare «selettivamente» quei soli profili disciplinari (la forma, ma anche la revoca, l’interpretazione e gli esecutori testamentari), che potessero facilitare l’adozione e, quindi, l’esecuzione, dei lasciti c.dd. pii.

Un’ulteriore riprova, insomma, della correlazione tra «contenente» e «contenuto», della quale si terrà in debito conto nel secondo volume dei Profili evolutivi, ove si moverà dall’assunto che il testamento è, anzitutto, strumento di manifestazione della persona ex art. 2 Cost.

Alberto Mattia Serafin è nato a Roma il 17 luglio 1995. Avvocato del Foro di Roma, sta concludendo il Dottorato di ricerca in Diritto civile presso l’Università degli Studi di Cassino. Autore di una monografia dal titolo La presupposizione. Genesi storica, categorizzazione differenziale e olismo contrattuale (ESI, 2021), ha trascorso numerosi periodi di studio e ricerca all’estero (Cambridge, LSE, Harvard) ed è stato Visiting Researcher presso il Max-Planck-Institut di Amburgo, lo UNIDROIT e l’Università di Heidelberg.

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