“Processo al Classico. L’epurazione dell’archeologia fascista” di Dario Barbera

Dott. Dario Barbera, Lei è autore del libro Processo al Classico. L’epurazione dell’archeologia fascista edito da ETS: qual era, alla vigilia della rinascita repubblicana, l’eredità dell’archeologia fascista?
Processo al Classico. L’epurazione dell’archeologia fascista, Dario BarberaInnanzitutto, grazie per lo spazio dell’intervista. Venendo alla prima domanda, direi che fino a oggi l’eredità dell’archeologia fascista sembra avere interessato molto poco gli studiosi italiani. Io penso invece che sia una questione di grande rilevanza. Non si tratta solo di ricostruire le traiettorie esistenziali degli archeologi fascisti dopo il crollo del regime, ma di iniziare a scrivere una storia dell’archeologia italiana e del suo ruolo nelle istituzioni, nella società e nella politica culturale della Prima Repubblica. Una storia ancora tutta da scrivere. In questo senso, il mio contributo è stato quello di provare a gettare alcune basi, a partire dalla centralità che a mio avviso riveste l’ideologia della Tecnica, che oggi mi sembra dominare la nostra società e, nel suo piccolo, anche l’archeologia italiana. Sebbene dai tempi dell’archeologia di regime siano molto mutate metodologie e tecniche, tanto l’archeologia militante fascista quanto quella postfascista sono state accomunate da un ruolo di avanguardia nell’avanzata di una concezione tecnocratica nel campo degli studi classici. E ciò a prescindere dai retrobottega ideologici, per dirla alla Sciascia. In questo senso, si può sostenere che la principale eredità dell’archeologia di regime sia stata una concezione essenzialmente tecnicistica della disciplina, sfruttabile a piacimento dalle diverse ideologie e dalle politiche culturali della rinata dialettica partitica repubblicana.

Quali percorsi politico-culturali imboccò l’antichistica italiana nel quinquennio di transizione dal 1943 al 1948?
Come accenno nella prefazione al mio libro, ho provato a schematizzare i principali percorsi politico-culturali che l’antichistica italiana mi sembra imboccare nel 1943-1948 con tre formule: cattolicizzare, democratizzare e liberalizzare il Classico. Al netto dei rischi e delle perdite correlate a ogni schematizzazione, penso che questo sia il modo migliore per evidenziare la conflittualità ideologica apertasi all’interno degli studi classici subito dopo la caduta del regime e del mito fascista della romanità. Una conflittualità che oggi mi sembra oramai al tramonto. Entrando più nel dettaglio, i cattolici proveranno a sfruttare il Classico per defascistizzare il mito di Roma, reinterpretandolo in chiave universalistica e cristiana; i comunisti cercheranno invece di aprire la cultura classica alle masse, attraverso meccanismi di “democratizzazione della cultura” (divulgazione, studio della cosiddetta cultura materiale, riforma delle istituzioni). Infine la cultura liberale, che tenterà invece di salvare la dimensione elitistica del Classico, ponendola alla base di una visione europeista della formazione delle classi dirigenti.

Chi furono i protagonisti di quella stagione?
Il grosso del libro è dedicato alla ricostruzione dei processi epurativi delle figure di spicco dell’archeologia fascista, studiosi che avevano avuto un ruolo di primo piano nella politica culturale del regime e nella costruzione del mito fascista della romanità: Giulio Quirino Giglioli, Roberto Paribeni, Evaristo Breccia, Carlo Anti e Biagio Pace. Accanto a queste figure, note soprattutto fra gli specialisti, emergono alcuni dei principali protagonisti della cultura italiana: Benedetto Croce, Adolfo Omodeo, Concetto Marchesi, Ranuccio Bianchi Bandinelli, Gaetano De Sanctis. Per non parlare poi dei politici alla guida della stagione epurativa e della ricostruzione della cultura italiana: figure come Guido De Ruggiero, Vincenzo Arangio-Ruiz o Guido Gonella. Ma tra i protagonisti del libro vi sono anche gli apparati burocratici dello Stato, anche se queste sono voci più sfuggenti e come nell’ombra: per usare un’efficace similitudine di Kafka (Il Castello), “le decisioni burocratiche sono timide come ragazzine”.

La storia raccontata nel volume sembra esser parte del più generale, metaforico processo imbastito dalla modernità contro gli studi classici: in che modo, nelle vicende di quel quinquennio, affondano le proprie radici le diverse politiche del Classico che caratterizzeranno l’Italia repubblicana?
L’epurazione italiana fu un grande processo di psicologia sociale e di politica identitaria della nazione. Attraverso questi processi di transizione, si formò buona parte di quella coscienza collettiva che reggerà fino alla fine della Prima Repubblica. All’interno di questo passaggio fondamentale, l’antichistica italiana contribuì non soltanto dirigendo alcuni dei processi epurativi nei principali istituti culturali, ma avviando un vero e proprio ripensamento della tradizione classica, ossia del mito fondativo dell’identità italiana. Buona parte delle politiche culturali e dei tentativi di riattualizzare il Classico che terranno banco fino ad anni recenti, rimontano proprio agli anni cruciali fra il 1943 e il 1948. Per questo motivo, guardare a quegli anni significa anche provare a riflettere sulla concezione che oggi abbiamo di noi stessi all’interno della storia. Alla fine della Seconda Guerra Mondiale, lo storico dell’antichità Arnaldo Momigliano scriveva che “là dove tutta la civiltà è minacciata, la conoscenza delle radici della civiltà diventa essenziale”. Negli stessi anni Adolfo Omodeo, uno dei maggiori protagonisti del libro, cercherà di elaborare un modello per l’unità europea basato sull’Atene periclea e animato da una “libertà non fiacca, ma vigile e attiva”: una libertà creatrice di libertà. E ancora, alla vigilia della calata sull’Europa della cortina di ferro, alcuni classicisti del PCI e dell’ala sinistra della DC elaboreranno una visione geopolitica di tipo terzoforzista, con l’Italia a fare da “ponte di civiltà” fra USA e URSS. Nel gioco di specchi della storia, può succedere di voltarsi indietro e guardare in avanti.

Dario Barbera ha conseguito il dottorato di ricerca presso la Scuola Normale Superiore di Pisa ed è stato borsista per un biennio all’Istituto Italiano per gli Studi Storici di Napoli. Insieme ad alcuni saggi di archeologia, storia dell’arte antica e storia culturale, ha pubblicato un carteggio inedito tra Federico De Roberto e Corrado Ricci (Pungitopo, 2018) e due guide artistiche su Giulio Romano (Electa, 2019).

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