
Che ruolo gioca la psicologia negli scacchi?
Un ruolo assolutamente decisivo. Gli scacchi non richiedono solo doti di attenzione, concentrazione, intuizione, calcolo, ma costituiscono un modo per mettere alla prova se stessi. Quella prova sollecita inoltre una parte essenziale dell’orgoglio che ciascuno di noi coltiva. Perdere o vincere a scacchi è vissuto da molti (non sempre a ragione: più spesso a torto) come prova di superiorità o inferiorità intellettuale. Attorno alla scacchiera si combattono a volte battaglie sanguinosissime. Nel libro racconto qualcosa di questo aspetto fortemente agonistico del gioco – per esempio: di Bobby Fischer, che con vero sadismo diceva che gli piaceva sentire l’ego dell’avversario andare in pezzi. Un po’ come il soldato che in «Apocalipse now» sente odore di napalm al mattino, e gli piace: è l’odore della vittoria. Io però sono interessato ad altro. Nel libro cerco di capire non come si costruisce o va in pezzi la psiche del giocatore di scacchi, ma se, mentre siamo immersi nel gioco – e dico proprio immersi, catturati, sprofondati, al punto che ci dimentichiamo di ogni cosa – non si rivelino modalità dell’esistenza che, nell’ordine quotidiano delle cose, non riusciamo ad apprezzare. Un grande, grandissimo filosofo, Baruch Spinoza, dice addirittura che noi possiamo sentire e sperimentare di essere eterni. Io ho cercato non di spiegare per filo e per segno questa singola proposizione, da dove viene e che cosa vuol dire, ma di indicare un terreno concreto in cui poter fare un’esperienza che in certo modo si avvicina a quanto Spinoza vuole dirci.
Sul terreno degli scacchi si sono mossi anche i primi esperimenti di intelligenza artificiale: che relazione lega ormai gli scacchi e il computer?
Per certi versi, questa è una pagina conclusa: nel 1997, Deep Blue batte Kasparov (all’epoca campione del mondo), e stabilisce la definitiva superiorità della macchina sull’uomo. Fino a quella data, si poteva pensare che l’intelligenza umana ha qualcosa che la macchina non ha. Oggi lo si può ancora pensare, credo, ma non si può dire che quel qualcosa in più si esprima alla scacchiera. E dove, allora? Come vede, anche in questo caso io parto dagli scacchi, per guardare altrove, a una domanda che mi appassiona. Gli studiosi di Intelligenza Artificiale, d’altronde, non pensano più (se mai hanno pensato) che il computer «ragioni» proprio come l’uomo: a loro interessa anzitutto la performance, il risultato. Sul piano della performance, i motori scacchistici sono mille volte più avanti dell’uomo, e ormai non c’è scacchista ad alto livello che non ne abbia bisogno, per studiare, prepararsi, migliorarsi. Io li lascio volentieri al loro lavoro, naturalmente, e ne sono ammirato, dopodiché cerco di capire, nel libro, che cosa mi fa uomo, e non macchina, non potendo più rispondere: la bravura a scacchi.
Marcel Duchamp coniugò l’impegno artistico con la mania degli scacchi: come si espresse la dedizione dell’artista francese per il gioco?
Duchamp è uno dei miei eroi! Non mi capita facilmente di appassionarmi alla biografia di un uomo, ma nel caso di Duchamp è diverso, e ho voluta ripercorrerla in lungo e in largo, prima di scrivere le pagine a lui dedicate. Leggere ad esempio che la sua prima moglie, con cui era da poco convolato a nozze, un bel giorno gli fece trovare i pezzi incollati alla scacchiera per distoglierlo dal gioco e riportarlo nel talamo nuziale non so se dica qualcosa sulla mania di Duchamp per gli scacchi o sulla sua attitudine verso il matrimonio, però mi ha divertito parecchio. Comunque: quest’uomo ha lasciato perdere l’arte per lunghi e lunghi anni – anni in cui New York, la New York degli artisti, pendeva per dir così dalle sue labbra –, per mettersi a giocare a scacchi, pur non essendo un professionista. Se lo poteva permettere, d’accordo, ma evidentemente trovava nel gioco qualcosa che gli riempiva le giornate, e la mente, molto più che non il cavalletto, l’odore di trementina, o anche semplicemente andare per mostre. Duchamp era in cerca di una bellezza «non retinica», qualcosa cioè che non cade immediatamente sotto gli occhi, e gli scacchi potevano offrirglielo. Gli scacchi sono il miglior terreno per cogliere quella differenza quasi impercettibile che a volte rende il banale sublime, altre volte il sublime banale.
Quello tra Bobby Fischer e Boris Spassky nel 1972 fu definito il «match del secolo»: cosa gli girò attorno?
Nulla di meno che il mondo intero. I soldi, le televisioni, la stampa, la politica, le donne, i servizi segreti: tutto. Quel match credo che sia il più raccontato nella storia degli scacchi, eppure ho scoperto ancora qualche particolare poco noto ma sorprendente, almeno per me. Non sapevo, per esempio, che la Rai pensò di affidare la telecronaca a giornalisti come Nando Martellini o Bruno Pizzul! Si immagini: sentire le loro voci descrivere le azioni che si svolgono non a centrocampo ma a centro scacchiera, le mosse difensive come i tackle di un arcigno difensore, e le combinazioni in attacco come i gesti di un centravanti!
Il fatto è che, in piena guerra fredda, il match diventò – o fu da noi vissuto come – la sfida tra la potente macchina dell’organizzazione sovietica e l’eroe solitario del mondo libero, Bobby Fischer, e l’interesse che suscitò fu dunque proporzionale al significato simbolico che gli si volle dare. A ciò si aggiunse la genialità e l’eccentricità dell’americano, che contribuì a creare attorno all’evento un clima davvero elettrizzante, pieno di suspence. Nel capitolo in cui me ne occupo, però, come negli altri, uso questo materiale per porre qualche questione più in generale: che mondo era quel mondo in cui si scomodavano i servizi segreti, o un Segretario di Stato, per cercare di influenzare l’esito del match? Cosa si capisce della politica, osservando tutto quello che si muoveva attorno ai due giocatori?
Chi sono stati, a Suo avviso, i più geniali giocatori di scacchi?
Per rispondere a questa domanda devo dismettere i panni del filosofo e tornare bambino. Perché è come per le squadre di calcio: scegliamo la squadra del cuore da bambini, ed è difficile che ci muoviamo di lì. Ho giocato a scacchi da bambino: Fischer era appena diventato campione del mondo, poi non aveva giocato più. Mistero. Lui è stato il mio primo amore, e mi è veramente difficile non includerlo fra i più forti di sempre. Poi è venuto Kasparov, ma io ho smesso di giocare, non seguivo più gli scacchi, e la scintilla non è mai scoccata. Oggi ho ripreso – con molta vergogna, devo dire – e non posso non essere ammirato dalla schiacciante superiorità di Magnus Carlsen, il norvegese sul trono di campione del mondo da circa un decennio. Ho sul tavolino un libro che ne analizza il metodo, e il suo senso del gioco è davvero impressionante.
Fabiano Caruana, che dopo aver difeso i colori azzurri alle Olimpiadi è passato definitivamente alla Federazione statunitense, non parla però italiano, e di italiano non ha la cultura né la formazione scacchistica: qual è lo stato di salute degli scacchi nel nostro Paese?
Ah, e io che mi aspettavo mi chiedesse lo stato di salute della filosofia, in Italia! Per quanto riguarda gli scacchi, l’Italia non è mai stata tra le prime nazioni al mondo: nell’attuale classifica della Federazione Internazionale, l’Italia figura al 24° posto, e credo che non si sia trovate altre volte così su. Fa nulla che non c’è Caruana, gli scacchi in Italia sono cresciuti, credo anche nel numero di appassionati regolarmente tesserati. Vedremo poi quando la pandemia sarà alle nostre spalle (Fa ridere, ma gli scacchi sono classificati sport di contatto, e hanno sofferto di severe limitazioni, nei mesi scorsi). Io però mi sono occupato della cosa per dire non come sta messo il gioco degli scacchi in Italia, ma come sta messa l’Italia. Mi ha colpito il fatto che certi tratti, che si possono volentieri ricondurre se non al carattere degli italiani almeno alla loro storia, si ritrovano anche nel mondo degli scacchi. Il ritardo con il quale il nostro Paese si adegua alle regole internazionali del gioco assume per me un valore emblematico, perciò rievoco la vicenda. Così come uso qualche altra piccola spigolatura per fare il mio discorso sullo stato presente dei costumi degli italiani (lo dico con ironia, naturalmente, ma è di questo che si tratta). Quanto infine alla filosofia, mi permetta di dire in conclusione che qualche motivo di preoccupazione sul suo stato di salute io ce l’ho. Temo che la professionalizzazione in senso pseudo-scientifico e la popolarizzazione in senso pseudo-letterario siano due esiti possibili, che disperderebbero un patrimonio di pensieri, di metodi, di pratiche, che dobbiamo invece trovare il modo di conservare e proiettare nel futuro. Ho scritto il libro anche per questo.
Massimo Adinolfi, professore ordinario di Filosofia Teoretica nell’Università di Napoli Federico II e appassionato di scacchi sin da bambino, dirige con Vincenzo Vitiello la rivista «Il Pensiero». Editorialista de «Il Mattino» di Napoli, collabora con «Huffington Post» e «Il Foglio». Tra i suoi libri più recenti: Hanno tutti ragione? Post-verità, fake news, big data e democrazia (2019) e Qui, Accanto. Movimenti del pensiero (2020).