
All’inizio comunque, non solo in Italia, le società protettrici e gli attivisti zoofili si occupavano di un numero limitato di maltrattamenti: quelli praticati sugli animali da soma e da traino lungo le strade, i combattimenti fra animali, le sevizie e le crudeltà «inutili» su quelli da macello. Si trattava quindi di un orizzonte di interessi molto limitato rispetto a quello delle attuali associazioni animaliste; non avversavano la caccia, la macellazione a fini alimentari, i concorsi ippici e all’inizio nemmeno la vivisezione. La sensibilità zoofila, del resto, era socialmente molto circoscritta; ad abbracciare la causa della difesa degli animali erano soprattutto le élite urbane benestanti, colte, tendenzialmente progressiste, che ne facevano una questione di «civiltà» e di «moralizzazione pubblica».
Comunque, anche grazie al supporto economico e organizzativo degli stranieri presenti in Italia, questi temi riuscirono a fare breccia nella classe politica: nel codice penale promulgato nel 1890, dove tra l’altro si abolì la pena di morte, fu inserito un articolo che puniva l’incrudelimento sugli animali e i maltrattamenti «senza necessità». Più organica e abbastanza innovativa per l’epoca fu la legge del 1913, che dettagliava con una certa precisione i divieti nell’utilizzo degli animali, ad esempio in caso di vecchiaia o malattie, puniva le «sevizie» durante i trasporti, l’accecamento degli uccelli da richiamo, i giochi che comportavano «strazio di animali».
Quale ruolo ebbero gli animali nel primo conflitto mondiale?
Ebbero un ruolo importantissimo perché la guerra, nonostante i progressi tecnologici, ne richiese un impiego massiccio: circa 16 milioni furono gli animali utilizzati sui diversi fronti, di cui 11 milioni gli equini. Cavalli, muli, buoi, cani, colombi aiutarono gli eserciti a trasportare armi, equipaggiamenti e medicinali, a inviare le informazioni al fronte, a ritrovare i feriti, a cacciare i ratti dalle trincee. Indiscussi protagonisti di quella guerra furono i piccioni viaggiatori, preziosissimi per la loro velocità e resistenza e utilizzati a migliaia da tutti gli eserciti. In Italia nel 1918 vi erano 65 colombaie militari per un totale di circa 9.000 volatili; una legge del 1915 intervenne a tutelarli, inserendoli tra i mezzi di difesa della patria e vietandone la caccia. Oggi ai piccioni viaggiatori della Grande Guerra è dedicata una sezione del Museo dell’Arma del Genio di Roma.
Più che il ruolo militare degli animali, nel libro ho cercato di sottolineare la loro importanza come «amici» dei soldati nelle lunghe e dure giornate della guerra di posizione. I diari e le memorie di guerra raccontano infatti moltissime storie di amicizia e legami di «affratellamento», per molti versi inediti, tra soldati e animali nelle trincee e lungo i fronti. Sono pagine molto commoventi, che ho cercato di riportare proprio per far vedere come la guerra, nonostante le sue contraddizioni (anche gli animali morirono in massa) ebbe l’effetto di «democratizzare» la compassione verso queste creature. Nelle trincee si sperimentarono ampiamente quelle attitudini di cura e affetto verso gli animali che in precedenza avevano provato quasi solo i membri dell’alta società nei confronti dei loro pets; per la prima volta anche il soldato semplice, il soldato analfabeta e contadino cominciò a vederli in un’ottica diversa da prima.
Com’era organizzata sotto il fascismo la protezione degli animali?
Mussolini si appropriò integralmente della causa protezionista e volle renderla uno dei pilastri dell’edificazione dello Stato totalitario. Rispetto alla tradizione zoofila di matrice anglosassone cercò tuttavia di cambiarne gli assunti di base e il volto pubblico; la propaganda del regime stigmatizzava, infatti, il «sentimentalismo» di marca britannica e puntava a collegare la buona cura degli animali alle tradizioni nazionali (compreso il culto di San Francesco) e ai valori fondativi della «modernità fascista», energia, volontarismo, amore per la patria. Si diceva che Mussolini era «profondamente zoofilo» fin da ragazzo e che i sentimenti di affetto per gli animali non rendono incapaci di «azioni virili», come agli occhi dei fascisti dimostrava il regime nazista, dove Hitler nel 1933 aveva promulgato una delle leggi protezioniste più avanzate dell’epoca.
L’esaltazione del primato nazionale, il raggiungimento dell’autarchia economica mediante il razionale sfruttamento del patrimonio zootecnico, la volontà incorporare nello Stato le iniziative della società civile furono quindi i fondamenti della zoofilia del regime. Il culmine del «protezionismo di Stato» fu raggiunto nel 1938 quando il duce decise di sciogliere tutte le preesistenti associazioni zoofile e di istituire l’Ente nazionale fascista per la protezione degli animali. Ente che non venne soppresso all’indomani della fine della guerra; l’Italia usciva prostrata da vent’anni di dittatura, dalla sconfitta militare e dalla guerra civile, l’economia era al collasso, il futuro istituzionale del paese incerto, ma si stabilì che la tutela degli animali ne avrebbe fatto parte
Va anche precisato che Mussolini non parlò mai di «diritti animali» in senso moderno e tantomeno li concesse, sebbene si tratti di una fake news che non è raro trovare in rete; come è falso che il nazismo abolì la vivisezione. Tuttavia, leggi più restrittive furono promulgate, specie in materia di sperimentazione animale, l’Enfpa ottenne mezzi e risorse che resero più efficace il suo lavoro di prevenzione e controllo e massicce furono le campagne propagandistiche per celebrare il rispetto verso gli animali che Mussolini aveva reso – si diceva – «un dovere sancito dalla legge».
Come si è evoluta la legislazione a difesa degli animali a partire dal Dopoguerra?
Nel dopoguerra i movimenti per la tutela degli animali ripresero slancio un po’ dappertutto ed entrarono in una fase di transizione. Da un lato non cambiarono, perlomeno non in modo profondo, l’approccio teorico alla «questione animale» e le strategie di mobilitazione degli attivisti, e in Italia non ci furono nemmeno sostanziali novità del punto di vista legislativo. Dall’altro lato, però, aumentò la visibilità pubblica delle tematiche e delle associazioni zoofile, si intensificarono le attività di prevenzione e controllo sui maltrattamenti, il boom economico stimolò il fenomeno del pet keeping, gli animali cominciarono a popolare i mezzi di comunicazione e i libri per l’infanzia, le specie selvatiche diventarono la grande attrattiva di circhi e zoo.
In Italia il protezionismo non si lasciò contaminare dalle contrapposizioni ideologiche e politiche, ottenne una sorta di benedizione da papa Pio XII, che definì il mondo animale un’espressione della saggezza e della bontà di Dio, si arricchì delle riflessioni del filosofo Aldo Capitini sui nessi tra vegetarianismo e nonviolenza e dei contributi di attivisti, zoologi e naturalisti che, come lo stesso Capitini, riprendevano il tema di Jeremy Bentham sulla «sensività» animale per contestare l’antropocentrismo di matrice cartesiana. La principale associazione restava l’Enpa, l’Ente nazionale protezione animali, che operava ormai su molti fronti: prevenzione del randagismo, tutela di colombi viaggiatori e specie protette, lotta alla caccia di frodo, eliminazione degli spettacoli con animali, sorveglianza su canili, mattatoi e laboratori, controllo sul trasporto degli animali da macello, vigilanza e denuncia dei maltrattamenti generici. Molto attiva era poi sul fronte della propaganda e della sensibilizzazione dell’opinione pubblica, a partire dai bambini.
Fu su questo terreno di rinnovamento che negli anni Settanta si innestarono le nuove teorie dell’animalismo e il fermento culturale e associazionistico aperto dalla contestazione sessantottina, rivoluzionando completamente l’ottica e le forme di mobilitazione dei protettori degli animali.
Come sono organizzati gli animalisti e gli antivivisezionisti in Italia?
La svolta avvenne, non solo in Italia, a partire dalla metà degli anni Settanta, in concomitanza con la nascita del moderno movimento ambientalista e delle nuove filosofie animaliste-antispeciste, i cui padri furono Peter Singer e Tom Regan. Se fino a quel momento la salvaguardia delle altre specie era stata predicata in nome di interessi quasi sempre «altri» rispetto agli animali, gli assunti delle nuove filosofie animaliste imponevano ora di mettersi «dalla loro parte», di fare della difesa dei non umani una crociata morale e una battaglia politica.
In Italia un gran numero di nuove leghe animaliste e antivivisezioniste fiorì dopo la pubblicazione, nel 1976, del libro-choc di Hans Ruesch sulla vivisezione Imperatrice Nuda; leghe che adottarono nuove strategie di informazione e propaganda e ampliarono enormemente i campi di intervento. Convegni, mostre fotografiche, manifestazioni di piazza, petizioni, sit-in, cortei, riviste specializzate, libri e opuscoli diventarono gli strumenti di una mobilitazione massiccia che nel corso degli anni Ottanta balzò non di rado agli onori della cronaca, cominciò a conquistare appoggi e consensi presso l’establishment politico e prendeva in considerazione tutti gli svariati ambiti dello sfruttamento animale: sperimentazione, pellicce, allevamenti intensivi, sistemi di trasporto e macellazione, caccia, randagismo, circhi, zoo, palii.
A testimoniare il nuovo corso intervennero anche dei cambiamenti linguistici: nel mondo anglosassone si cominciò a distinguere l’animal welfare dagli animal rights, in Italia fu coniato nel 1982 da Alberto Pontillo il termine «animalismo», per sottolineare la cesura con l’approccio sentimentale e compassionevole delle origini e la volontà di dare una base «razionale» alla tutela degli animali. Gli attivisti, scrollandosi di dosso l’etichetta di «amanti degli animali», ne assumevano la difesa in nome del principio morale di eguale considerazione del valore della vita di tutti gli individui, umani e non. Negli anni Novanta si aprì poi l’epoca delle riforme e degli interventi legislativi e in alcuni casi – la legge del 1991 sugli animali d’affezione e sui randagi e il divieto del 2001 di produzione e commercio di pellicce di cane e gatto – l’Italia fu addirittura all’avanguardia nel mondo.
Quale futuro per la lotta contro il maltrattamento degli animali?
Io di mestiere studio il passato, quindi ho pochi strumenti per fare previsioni sul futuro! Tra gli studiosi dei movimenti animalisti è abbastanza comune richiamarsi alla tesi di John Stuart Mill il quale diceva che i grandi movimenti della storia conoscono prima lo stadio del ridicolo, poi quello della discussione e infine arrivano all’accoglimento. Ebbene oggi l’animalismo si troverebbe a cavallo tra la seconda e la terza fase. Se è così, come anch’io credo, le battaglie contro lo sfruttamento degli animali e per aumentarne il benessere cresceranno e troveranno società e cittadini sempre più ricettivi. Diverso è dire (e prevedere) se diminuiranno i contesti d’uso degli animali dal momento che, nonostante la crescita dell’attivismo animalista e della sensibilità collettiva su questi temi, gli animali continuano ad essere utilizzati, sfruttati e uccisi per i più diversi scopi umani. Si tratta, in fondo, di uno dei tanti paradossi della «modernità»: da un lato, è stata la culla e il veicolo della diffusione della cultura protezionista, dall’altro, intesa come espressione dello sviluppo economico, scientifico e tecnologico, ha reso sempre più radicale e intenso il dominio dell’uomo sulla natura.
Il nostro rapporto con le altre specie resta ambiguo e controverso, per alcuni addirittura «schizofrenico»: amiamo smisuratamente i nostri pets, tanto da vederli come «figli», ma spesso consideriamo tutti gli altri alla stregua di «oggetti» nella nostra più totale disponibilità. Molti teorici della «liberazione animale» paragonano tale processo a quelli che hanno portato all’emancipazione i gruppi umani storicamente oppressi, come donne, neri, minoranze etniche. Peter Singer, tuttavia, ci dice una cosa importante al riguardo: gli animali non possono rivendicare in prima persona i loro diritti e giungere a riconoscere la dignità della vita animale richiederà da parte nostra più altruismo di ogni altro movimento di liberazione.