
Da questo stallo – un ossimoro, come lei efficacemente lo definisce – nasce l’esigenza di stabilire un itinerario conoscitivo, che nei tempi moderni denominiamo “processo”, al termine del quale un soggetto “terzo” perviene a una decisione che la comunità è disposta ad accettare come vera, perché conseguita con il metodo ritenuto più affidabile per pronunciare una decisione giusta. Nel libro ricorro ad una metafora: il processo come stretto ponte tibetano che consente di passare dalla res iudicanda (cioè il fatto da giudicare) alla res iudicata (cioè la decisione sulla esistenza del fatto e sul suo rilievo penale), destinata a valere pro veritate per l’intera collettività. L’immagine, però, non deve ingannare, trasmettendo anche l’idea di una struttura elementare, di una rudimentale linearità del percorso conoscitivo. Dovendo operare la ricostruzione di un accadimento del passato, il processo ha bisogno di cercare, acquisire e valutare i reperti materiali e mnestici che ogni fatto lascia nel mondo circostante. Nel concepire questo percorso giudiziario, il legislatore deve quindi affrontare e risolvere complessi e delicati problemi. Ad esempio: chi può procedere alla ricerca di tali elementi, e con quali poteri; quali sono le conseguenze dell’inosservanza delle regole processuali; quando, e in che misura, i diritti individuali (libertà personale, segretezza delle comunicazioni, inviolabilità del domicilio, ecc.) debbono cedere alla esigenza di accertamento dei reati; come si assumono le prove, specie quelle dichiarative (provvede unilateralmente la parte che è interessata a produrle in giudizio o si formano nel confronto dialettico dei protagonisti del procedimento davanti a un giudice? E, in questo secondo caso, si formano necessariamente dinanzi al giudice che dovrà emettere la sentenza?); quali garanzie e regole di giudizio devono assistere e guidare la decisione finale (quali limiti di utilizzazione del materiale probatorio il giudice è tenuto a rispettare? Come va risolto il dubbio sulla colpevolezza? L’irrevocabile decisione finale, la res iudicata, deve restare immutata in omaggio ad esigenze di certezza, anche a fronte della sopravvenienza di prove che ne attestano la erroneità?).
Qual è la funzione del processo penale?
Il processo ha, prioritariamente, una funzione cognitiva: tende a fornirci la migliore conoscenza possibile in ordine al fondamento di un’ipotesi accusatoria che asserisce l’esistenza di un fatto e la sua rilevanza penale, attribuendone la responsabilità all’imputato. Il compito di dar fondo ad ogni risorsa per ricostruire un comportamento umano del passato (elemento psicologico, modalità dell’azione, circostanze spazio-temporali, evento) e per “misurarlo” con il metro del diritto penale non può essere lasciato ai criteri metodologici scelti dall’organo giudicante, anche dal più affidabile. E in ciò risiede la principale differenza tra il giudice e lo storico. Anche lo storico è chiamato a ricostruire un fatto del passato, ma a differenza del giudice non esercita un potere: l’eventuale inaffidabilità del metodo seguito e delle conclusioni cui è pervenuto si riverbera soltanto sulla sua credibilità scientifica. Il giudice, invece, è chiamato ad esercitare il terribile compito di decidere se punire un suo simile, anche con la limitazione della libertà (e in alcuni ordinamenti incivili persino con la morte): è indispensabile, pertanto, che questo necessario azzardo si conformi a regole oggettive e condivise. La verità dello storico si afferma attraverso la persuasività del suo lavoro filologico di interpretazione delle fonti, la verità della giustizia attraverso una forza imperativa che l’ordinamento è disposto a riconoscerle in ragione delle garanzie soggettive offerte dall’organo giudicante e soprattutto dello speciale statuto epistemologico cui questo deve attenersi.
Le regole processuali sono, dunque, un guard rail metodologico entro cui devono svolgersi le attività di ricerca, di acquisizione e di valutazione delle prove, sulla base delle quali il giudice è chiamato ad operare un feed back cognitivo per “ricostruire” un determinato accadimento del passato.
L’importante è che la collettività, ed è questa una funzione “politica” del processo non meno importante di quella cognitiva, si riconosca nella giustizia amministrata in suo nome e ad essa si adegui. Il ponte del processo non è quindi soltanto un’opera di “ingegneria normativa”, un intreccio di regole e di forme, ma è il risultato di delicate scelte che la collettività opera attraverso i suoi rappresentanti, disegnando la via meno imperfetta per cercare di attingere la verità nel contesto storico, culturale e scientifico dato: soltanto così il prodotto finale, la sentenza, si rende eticamente accettabile e socialmente accettato, nonostante la sua insopprimibile fallibilità, nonostante gli inevitabili limiti dell’azione giudiziaria.
A quali limiti intende riferirsi?
L’esperienza ci ha insegnato che non tutto ciò che “parla” di un fatto del passato ha un livello di attendibilità tale da meritare di essere preso in considerazione: ci sono fonti di conoscenza che incubano insidiosamente l’errore, per cui ad avvalersene si correrebbe troppo spesso il rischio di essere fuorviati nella ricerca della verità. Ce ne sono altre alle quali sarebbe difficile poter rinunciare, ma il cui uso è bene circondare di cautele a tutela di altri, non meno importanti interessi.
Spetta al legislatore processuale penale stabilire quali “mattoni” siano utilizzabili per la “costruzione” della sentenza e quale possa essere la loro specifica “portanza”. Così, ad esempio, deve stabilire se possa avere valore l’elemento probatorio acquisito unilateralmente dall’inquirente o dal difensore; se si debba pretendere un dovere di verità dall’accusato; se la sua confessione possa avere di per sé valore decisivo; se e in che misura sia da riconoscere valore probatorio alla chiamata in correità o ad uno scritto anonimo; se, ed eventualmente a quali condizioni, debba valere la testimonianza de relato, quella cioè con cui un soggetto riferisce ciò che gli è stato da altri riferito; se debbano avere valore probatorio le voci correnti nel pubblico; se un solo indizio possa essere ritenuto sufficiente per fondare un giudizio di colpevolezza.
Ma non ci sono soltanto limiti di tipo cognitivo alla ricerca e alla valutazione delle prove: ci sono anche limiti valoriali.
Un ordinamento civile non è disposto a perseguire la verità ad ogni costo: riconosce che a tale obbiettivo, pur socialmente molto rilevante, si può rinunciare se ciò è necessario per assicurare tutela ad alcuni diritti primari dell’individuo.
Poiché l’attività per l’acquisizione dei “reperti cognitivi” può richiedere il sacrificio di diritti fondamentali, il legislatore è chiamato ad un bilanciamento, delicatissimo e mutevole nel tempo, tra l’interesse alla loro protezione e l’interesse all’accertamento di fatti che possono costituire reato, introducendo limiti a questo accertamento a tutela di quei diritti. Siffatto genere di limiti si colloca generalmente a monte di quelli, cui abbiamo appena sopra fatto cenno, concernenti il valore probatorio da attribuire al materiale acquisito: è la sua stessa raccolta, infatti, ad incontrare ostacoli o divieti posti a salvaguardia di interessi ritenuti di pari o superiore livello rispetto all’interesse relativo all’accertamento del fatto.
Ad esempio: l’intercettazione delle comunicazioni, la perquisizione personale o domiciliare, il prelievo coattivo di materiale biologico sono strumenti investigativi di straordinaria e talvolta insurrogabile efficacia, ma lesivi della sfera individuale. In tal caso, l’ordinamento deve stabilire a quali condizioni e con quali garanzie possano essere utilizzati. In genere, vengono ammessi per l’accertamento dei più gravi reati ed in presenza di determinati presupposti, la cui verifica viene affidata ad un giudice per sottrarne l’impiego alla “bulimia” cognitiva dell’inquirente, che altrimenti sarebbe comprensibilmente tentato di farvi quasi sempre ricorso.
Vi sono poi casi in cui lo strumento di procacciamento di informazioni utili per l’accertamento del fatto-reato, che di per sé non risulta lesivo di diritti, può diventarlo in ragione di particolari situazioni soggettive. Si pensi all’audizione delle persone informate sui fatti: mezzo di prova generalmente esperibile, ma a cui si deve di regola rinunciare quando il depositario di tali informazioni è vincolato ad un segreto (confessionale, sanitario, defensionale, giornalistico), che non può o non intende infrangere. Lo Stato sopporta limiti all’accertamento di ipotesi di reato per assicurare che il cittadino possa soddisfare le esigenze fondamentali della persona (si pensi, ad esempio, alla salute) senza il timore di esporsi o di esporre altri a conseguenze penali.
Il mancato rispetto di tali limiti normativi imposti alla ricerca e all’assunzione della prova determina, di regola, l’inutilizzabilità dei risultati.
Ciò comporta un’amputazione del materiale probatorio che può pregiudicare irreversibilmente la possibilità di accertare i fatti o, comunque, di condannare i responsabili. Di qui le comprensibili perplessità serpeggianti nell’opinione pubblica quando informazioni indispensabili per l’accertamento delle responsabilità con riguardo a gravi crimini vengono espunte dal processo per la violazione di un divieto probatorio: difficile accettare che un pericoloso delinquente resti a piede libero perché – ad esempio – il giudice non può avvalersi dei decisivi risultati di una conversazione telefonica che è stata intercettata al di fuori dei casi consentiti dalla legge. In effetti, mettendo su un piatto della bilancia la possibilità di punire il responsabile di un inquietante delitto e sull’altro la necessità di rispettare la segretezza delle comunicazioni al di fuori delle intrusioni consentite dalla legge e autorizzate dal giudice, risulterebbe molto difficile comprendere il favor del legislatore per la tutela di questa seconda esigenza.
Se le cose stessero davvero in questi termini potremmo avere più di una resistenza a condividere una tale soluzione: in fin dei conti, la possibilità di accertare e di punire comportamenti gravemente devianti ben potrebbe far premio sul mancato rispetto di una regola processuale. La verità è che in simili evenienze, ove si consentisse al giudice di avvalersi del contenuto di quella conversazione illegittimamente acquisita, non si pagherebbe soltanto il prezzo di una isolata violazione normativa, ma ci si rassegnerebbe alla prassi, che da quel momento prenderebbe inevitabilmente piede, di disporre le intercettazioni a piacimento dell’inquirente. L’ordinamento, dunque, tollerando il rischio di una mancata condanna per evitare un grave degrado della convivenza civile, mostra di ritenere che la tecnica di accertamento della verità, lungi dall’essere comunque giustificata dal fine, rappresenta di per sé un valore etico-sociale di rilievo non inferiore al raggiungimento dello scopo per cui è stata congegnata; e che non interessa la scoperta della verità a seguito di una procedura che umilia l’individuo e la collettività tutta.
Per rimanere nella sua immagine del processo come ponte tibetano, qual è la struttura portante di questo percorso metodologico?
Le funi portanti di questo ponte sono molteplici, e le rinveniamo in alcune norme costituzionali e della Convenzione europea per i diritti dell’uomo. Una può considerarsi l’elemento qualificante dell’attuale codice di procedura penale. Per dirla con le parole della nostra Costituzione: il processo penale è regolato dal principio del contraddittorio nella formazione della prova (art. 111 comma 4 Cost.).
Il legislatore ordinario prima (1989) e la Costituzione poi (1999) – recependo acquisizioni ormai consolidate nelle diverse discipline riconducibili alla psicologia della conoscenza – decisero di abbracciare una nuova epistemologia giudiziaria. L’idea che “più informazioni si hanno, comunque siano state raccolte dall’inquirente, meglio si decide” lasciava il posto al convincimento che “meglio si decide, quando le informazioni sono assunte con un metodo che ne garantisca l’affidabilità”.
Viene cioè abbandonato l’orientamento epistemologico che, presumendo neutro il momento dell’acquisizione delle conoscenze, riserva coerentemente l’intervento dialettico alla loro valutazione, per abbracciarne un altro che, invece, ritiene utili per ben decidere soltanto le conoscenze scaturite nel e dal confronto dialettico.
La prima impostazione si può sintetizzare in questi termini: il tempo ineluttabilmente frantuma l’accadimento storico in mille schegge fisiche e mnestiche, che la sagacia investigativa dell’inquirente e la prudente valutazione del giudice sapranno, rispettivamente, ritrovare e ricomporre. Non conta chi e come raccoglie le tessere del mosaico: l’importante è che su di esse, prima della ricostruzione giudiziale, le parti possano controvertere.
Non ci sarebbe nulla da eccepire, se il testimone chiamato a rievocare un ricordo fosse res loquens. Ma non essendo così, l’operazione più difficile è quella di compulsare il “depositario” di quella memoria senza adulterarne il contenuto, trattandosi di materia labile, sfuggente ed anche, inconsapevolmente o intenzionalmente, manipolabile. Tutto dipende dal metodo maieutico, cioè, etimologicamente, dal metodo impiegato per aiutare a “partorire” la verità: frequentissimi e irreversibili i danni da “forcipe” dell’interpellante.
Da più di un secolo, ormai, la psicologia sociale ha sottoposto ad analisi sperimentali questo complesso strumento euristico della testimonianza, dimostrando irrefutabilmente la determinante influenza esercitata sulla risposta degli interrogati dal contesto e dalle modalità di formulazione della domanda.. Di estremo interesse risulta, al di là di non secondarie differenze, il denominatore comune di tali studi: persone sottoposte alle medesime esperienze percettive (in genere, la visione di uno stesso filmato) ne riferivano in modo sensibilmente difforme e talvolta opposto, a seconda di come veniva strutturata la domanda (diretta, determinativa, retorica, indiretta, suggestiva, orientante per presupposizione), della sua formulazione letterale (uso degli articoli, degli aggettivi, degli avverbi), del tono (neutro, allusivo, perentorio, sollecitatorio, suadente, minaccioso), del rapporto con l’interpellante, delle sue aspettative e del contesto in cui avveniva l’interrogatorio.
Se tale è il potere fuorviante di un interrogante che conosce tutta la verità, che non ha interesse ad un certo tipo di risposta, che non ha poteri autoritativi sull’interrogato, il quale, anzi, risponde in un ambiente accogliente in cui si è spontaneamente recato, nella consapevolezza che nessuna conseguenza potrà derivargli dal tipo di risposta fornita, si deve convenire che, a maggior ragione, la stessa fonte compulsata dall’inquirente darà spesso risposte fortemente condizionate e comunque diverse da quelle che fornirebbe dinanzi al giudice, che sorveglia la correttezza della tecnica di escussione impiegata durante l’esame incrociato dalle parti. Dunque, non è affatto irrilevante, come si mostrava di ritenere nel passato, chi sia e come operi la “levatrice” del ricordo: differenti forme di interrogatorio procurano differenti “verità”. Ed è ormai appurata la maggiore affidabilità offerta da una discussione dialettica dinanzi ad un giudice terzo, con un controllo “plurale” sulle domande e sulle risposte, rispetto all’interrogatorio investigativo, tendenzialmente svolto dalla parte in maniera “conducente”, quando addirittura non accompagnato da forme di pressione fisica o psicologica. Nella disputa davanti ad un giudice terzo, infatti, non solo la tecnica di escussione è molto più sorvegliata e corretta, ma i fattori distorsivi che eventualmente sfuggono alle maglie della legge o al sindacato del giudice sono trasparenti, si compensano, si elidono, si riconoscono, possono essere criticamente denunciati dalla parte interessata per infirmare l’attendibilità delle risposte.
Per questa ragione, nell’attuale processo penale, le indagini servono alle parti per acquisire elementi sulla cui base condurre le loro strategie e fondare le richieste al giudice, ma le prove per assolvere o condannare devono essere di regola formate dinanzi a questo nel contraddittorio delle parti.
Lei scrive, nel libro, che è importante, anzi indispensabile che la collettività conosca come viene amministrata giustizia. Perché?
Abbiamo detto che non meno importante della caratura tecnica del metodo prescelto, cioè della sua capacità di conseguire la migliore verità possibile nelle condizioni date, è la fiducia che in tale capacità ripone la comunità che l’ha adottato.
Il convinto affidamento dei consociati nell’amministrazione della giustizia svolge una importantissima funzione di coesione sociale. La riconosciuta legittimazione del procedimento giurisdizionale e la conseguente accettazione dei responsi decisionali permettono di conseguire un obbiettivo irrinunciabile: il disinnesco politico del dissenso delegittimante, scongiurando il ricorso alla vendetta privata e l’affermazione della legge del più forte. A rilevare non è il consenso rispetto alla singola decisione, quanto un diffuso, fiducioso affidamento della generalità dei cittadini nella giustizia.
Naturalmente, per riconoscersi nella propria giustizia il popolo deve prima poter verificare come viene amministrata. Oggigiorno non è il cittadino che si reca in tribunale per assistere alle udienze, ma sono i mass media che gli portano le informazioni sulle vicende giudiziarie.
Ma poi alla collettività giunge spesso una rappresentazione deformata…
In effetti, l’informazione giudiziaria, almeno attualmente, è uno specchio che non si limita a riflettere le vicende processuali raccontate, ma spesso ne rimanda un’immagine distorta. Talvolta, poi, incide sulla realtà rappresentata, modificandola. In altri termini: la giustizia senza il suo racconto mediatico in alcuni casi sarebbe diversa nel suo svolgimento e nei suoi approdi.
Troppo spesso la rappresentazione mediatica non si dimostra all’altezza del suo alto compito istituzionale. Tra le principali cause di tale inadeguatezza, va segnalata l’inadeguata professionalità dei cronisti giudiziari (peraltro, con lodevolissime eccezioni): l’impreparazione giuridica di molti tra questi favorisce una informazione-spettacolo, che tende a presentare i fatti in forma personalistica e sensazionalistica, sovente con grave adulterazione del valore di taluni atti o di taluni momenti dell’accertamento giurisdizionale, che sarebbe bisognoso, invece, di una accorta mediazione tecnica.
Soprattutto, però, una profonda consapevolezza dell’effettivo significato processuale dell’attività giudiziaria permetterebbe al giornalista di affrancarsi dalla sua fonte, nel senso che gli consentirebbe di non esserne soltanto il passivo megafono, ma di valutare, apprezzare e correlare ad altre conoscenze in suo possesso le notizie che gli vengono non disinteressatamente fornite. Probabilmente, proprio a causa della lamentata carenza di preparazione specialistica, il giornalismo giudiziario finisce sovente per trasmettere tantissime notizie e pochissima conoscenza in ordine alle cose della giustizia: il vero antidoto al segreto, infatti, non è l’accumulo di informazioni, ma l’intelligenza critica della vicenda giudiziaria. Quando offre mille dati sfilacciati e asincroni, disordinati fotogrammi di un procedimento penale, senza spiegare come sono tra loro legati, che cosa significhino, il giornalista si comporta come l’interprete quando si limita a tradurre parola per parola senza consapevolezza della sintassi logica. L’informazione giudiziaria smarrisce così la sua funzione, che è quella di collegare le notizie tra loro, illustrarne correttamente il senso e la valenza tecnica, spiegare il carattere precario o interlocutorio di alcune decisioni, le ragioni poste a fondamento dei provvedimenti.
Tutto ciò interagisce in modo molto negativo con una realtà – come l’attuale – connotata da una vistosa sfasatura temporale tra il clou dell’informazione giudiziaria (che in genere riserva la massima attenzione alle prime indagini) e il clou del procedimento penale (che in genere insiste sul dibattimento). Si registrano, in tal caso, due “velocità” molto dissimili: quella dell’amministrazione della giustizia e quella della sua rappresentazione massmediatica.
Da un lato, vi è l’“andatura” del processo, con i suoi tempi “geologici”. Dall’altro, vi è l’incalzante rapidità dell’informazione. La notizia è ormai prodotto estremamente caduco: quella odierna eclissa quella di ieri e sarà eclissata da quella di domani; è una realtà effimera e ad altissima deteriorabilità. Immaginiamo i media come un riflettore e il processo come una sorta di lentissimo tapis roulant. Poiché l’attenzione della cronaca non si può soffermare sul singolo procedimento penale per molto tempo, finisce per metterne in luce soltanto i primissimi passi, talvolta non insensibili alla pressione mediatica.
Non è difficile cogliere le conseguenze di questo macroscopico disallineamento temporale: l’attenzione mediatica puntata soltanto sui primi atti del procedimento finisce per caricarli di un significato probatorio “improprio” (un’iscrizione nel registro delle notizie di reato equivale a un’imputazione; un’imputazione ad una condanna; la misura cautelare ad una pena) e di un’attendibilità che non dovrebbero avere. E poiché le prime risultanze investigative provengono dall’organo inquirente, troppo spesso matura presso l’opinione pubblica un orientamento colpevolista, che a sua volta non manca di condizionare l’azione e il contributo degli stessi soggetti processuali.
Glauco Giostra è professore ordinario di Procedura penale presso la Sapienza Università di Roma. È stato componente della Commissione redigente dell’attuale codice di procedura penale. Dal 2010 al 2014 è stato membro del Consiglio Superiore della Magistratura. È stato nominato dal ministro della Giustizia nel 2017 presidente della Commissione per la riforma dell’ordinamento penitenziario.