
Quali metodi utilizza la semiotica?
Innestandosi entro quel paradigma delle scienze umane che nel Novecento ha rivendicato una propria autonomia operativa rispetto alle scienze naturali, la dottrina della significazione ha spesso messo in crisi la stessa distinzione fra le cosiddette due culture, risalente, alla fine dell’Ottocento, e cioè fra scienze esatte e scienze umanistiche, o se si vuole fra mentalità tecnico-ingegneristica ed esperienza spirituale ed estetica, proprio in nome del principio – ricordato nel primo capitolo – secondo il quale la significazione è quel fenomeno specifico che mette in relazione fenomeni sensoriali e atti cognitivi, eventi fisici o fisiologici e azioni intellettive, percezioni e concetti. Corpo e mente, nei sistemi di segni, funzionano come un unico fenomeno umano e sociale. Ma tale ambito epistemologico, quello riguardante gli assetti generali del sapere, non è l’unico nel quale la semiotica ha operato e continua a operare.
Accanto a esso, c’è quello teorico, o se si vuole filosofico, che mira a ripensare alle fondamenta alcune categorie chiave legate alla conoscenza, all’etica e all’estetica, financo alla metafisica, a partire, sarà già chiaro, dalla centralità dell’esperienza linguistica e comunicativa, significativa e discorsiva, considerata come punto di vista privilegiato a partire da cui considerare il mondo nella sua variegata interezza. Nozioni diverse come quelle di opposizione e differenza, essere e fare, relazione e valore, azione e passione, sensazione e percezione, ragione e affetto, spiegazione e comprensione – oltre a quelle prevedibili in tale ambito di studi come lingua e linguaggio, segno e simbolo, interpretazione e rappresentazione, senso e significato – cessano di essere semplici postulati teorici perché vengono definiti uno rispetto all’altro, senza gerarche prestabilite e concetti predominanti.
Inoltre, la semiotica ha come suo terzo livello di intervento quello metodologico, mirante non tanto a costruire un criterio operativo razionale, alla maniera cartesiana, chiaro e distinto, ossia un canone a priori di regole sedicenti assolute, ma un organon flessibile di categorie e di modelli anch’essi interdefiniti fra di loro, da rivedere, ampliare e riconnettere ogni qualvolta le sollecitazioni dei fenomeni studiati (o ristudiati) lo rendano necessario. Molti di tali modelli e di tali categorie, fra l’altro, non vengono inventati ex novo, ma traggono spunto da un’esplicitazione del sapere fare pratico di discipline concomitanti come la filologia e la storia dell’arte, il folklore e la sociologia etc. Così, per esempio, la nozione di narratività ha preso corpo rielaborando le indagini e le riflessioni di alcuni studiosi di fiabe popolari, così quella di discorso sia stata predisposta mettendo insieme gli esiti di alcuni studi letterari con certe concettualizzazioni della retorica antica; analogamente, sarà la semantica delle lingue naturali a ripensare le analisi dei contenuti mediali praticate dai sociologi, e il concetto di testo dovrà molta della sua messa in luce, e in coerenza, del lavoro della filologia soprattutto romanza.
Ciò significa che la metodologia semiotica non è costruita in modo astratto e formale, ma viene elaborata in funzione del suo livello empirico soggiacente, ossia dei dati che essa ha in proposito di spiegare e comprendere. Tali dati, a loro volta, non sono da intendere come entità preesistenti in quanto tali, come realtà ontologiche che si danno per così dire spontaneamente a prescindere dall’occhio che le considera, ma come entità edificate in funzione di un preciso progetto conoscitivo, o, per altri versi, entro un qualche programma di vita, un qualche insieme di pratiche sociali, esperienze culturali, sistemi di valori. L’empiria semiotica è da costruire: è quel che fanno gli individui e i gruppi sociali, quando producono meccanismi semiotici profondi – e inconsapevoli (nel vestito, nel cibo, nello spazio circostante, oltre che con i suoni, le immagini, il movimento del corpo …) – per significare se stessi e il mondo che li circonda (identità individuali e collettive, gerarchie e parentele, sistemi di dominio, cosmologie, tassonomie di esseri viventi etc.); lo rifanno i semiologi, quando provano a ricostruire tali meccanismi profondi, e il senso che grazie a loro viene manifestato.
Come si è evoluta la disciplina?
La riflessione sul linguaggio e sulle lingue, sul segno e sul senso, è antica quanto l’uomo. Sia che essa sia stata condotta in modo consapevole ed esplicito, in quelle diverse teorie e filosofie che ne hanno fatto il proprio specifico oggetto di indagine e di conoscenza, dall’antica India passando per i Sumeri e i Greci, il Cristianesimo e il Medioevo, il razionalismo cartesiano e l’empirismo inglese, il kantismo e l’hegelismo, sino alla nascita e allo sviluppo della linguistica, delle altre scienze umane e della filosofia del linguaggio ordinario. Sia, invece, che questa riflessione sia rimasta per così dire sotto traccia nelle numerose pratiche sociali in cui il linguaggio, i segni, la comunicazione e la significazione sono state e sono in vario modo presenti, dall’invenzione della scrittura alle tecniche retoriche e dialettiche, dalla medicina alle matematiche, dalle arti poetiche a quelle numerologiche, passando per la divinazione e la magia, l’emblematica e l’iconologia, le parabole evangeliche e le allegorie barocche, la qabbalistica e le arti visive, giù giù fino all’osservazione della natura e alle morfologie goethiane, per arrivare alla modernità, dove, come è noto, i mezzi di comunicazione di massa, prima, e i nuovi media, poi, hanno fortemente permeato l’organizzazione della collettività, facendosi protagonisti di una cultura tendenzialmente globalizzata che si costituisce, si frantuma e si ricompone con loro e in loro.
Ma tutte queste teorie e queste pratiche riguardanti i sistemi di segni, il linguaggio e la comunicazione sono rimaste a lungo frammentarie e intermittenti, spesso isolate l’una dall’altra, monadi non comunicanti, senza una sintesi complessiva che le racchiudesse in un’unica forma di sapere istituzionalizzata, in una disciplina con un nome proprio, un metodo chiaro e uno statuto preciso. Sino a che, tra la fine dell’Ottocento e la prima metà del secolo scorso è iniziata a sorgere la necessità, teorica e metodologica al contempo, di una semiotica propriamente detta, che racchiudesse in un solo paradigma di ricerca – sia esso ancorato a una disciplina o, come è stato anche detto, sparso in un variegato campo di studi affini e di problematiche fra loro imparentate. In filosofia, è accaduto con Charles S. Peirce, pensatore americano della corrente pragmatista che riprendeva la tradizione kantiana della teoria della conoscenza ripensandola in chiave di tassonomie di segni e processi interpretativi; o, per altri versi, con Edmund Husserl, fondatore di quella corposa tradizione di ricerca fenomenologica che, fra le altre cose, collegherà la costituzione della soggettività alla prassi linguistica concreta e alla comunicazione interpersonale. Parallelamente, e pressoché contemporaneamente, è accaduto che, ripensando alle fondamenta la scienza linguistica, molti autori come Ferdinand de Saussure, Louis Hjelmslev o Roman Jakobson abbiano sollecitato l’edificazione una scienza nuova, definendola semiologia, come studio rigoroso dei diversi sistemi di segni presenti nelle diverse società e culture. Qualcosa di analogo è accaduto nel campo della teoria e della critica letterarie, con i cosiddetti formalisti russi e i new critics statunitensi; e ancora in quelli del folklore, della mitologia comparata, della storia delle religioni, dell’antropologia, della narratologia, della psicanalisi, delle teorie e della storia dell’arte, dell’architettura e del design, dove la problematica trasversale del linguaggio e del senso si è imposta come fondamentale e necessaria in ognuno di questi saperi, mettendoli in efficace relazione l’uno con l’altro.
Tuttavia la semiotica vera e propria, come disciplina a sé stante e istituzionalmente riconosciuta, è sorta soprattutto – a cavallo del secolo scorso – sotto la spinta propulsiva di quella nuova società di massa, e degli strumenti di comunicazione che l’hanno posta in essere, la quale richiedeva sguardi critici specifici e modelli interpretativi efficaci, di fatto affiancando, e per molti versi superando, l’analisi sociologica tradizionale e le sue metodologie quantitative e qualitative. Nel momento in cui la stampa, il cinema la radio, la televisione, la pubblicità, i fumetti, la paraletteratura etc., in quegli anni, predispongono i gangli stessi della socialità, gli strumenti della semiotica si impongono quasi spontaneamente sulla scena intellettuale, se ne percepisce la necessità critica, l’impellenza metodologica entro numerosi centri di ricerca sociale a carattere transdisciplinare e in alcune fra le università più aperte alle sollecitazioni della contemporaneità. Studiosi come Roland Barthes, in Francia, e Umberto Eco, in Italia, per menzionare solo i due esempi più celebri, forti della loro cultura classica (il primo) e filosofica (il secondo), elaborano in quegli anni una serie di modelli semiotici a supporto di una nuova analisi critica della cultura mediatica emergente. La semiotica si impone così, a poco a poco, come una forma di sapere in grado di far dialogare tutti gli altri, fornendo loro una problematica e una metodologia comuni.
Quando pensiamo alla semiotica, il nostro pensiero corre a Umberto Eco: qual è stato il contributo dello scomparso professore alla disciplina?
“La vita dei segni nell’ambito della vita sociale”. Era questo l’oggetto della semiotica per Saussure. Già dai primi passi della scienza della significazione, quando il monito saussuriano è stato ripreso e sviluppato da autori come Roland Barthes e Umberto Eco, quest’attenzione verso la socialità è stata molto presente. La nascente cultura di massa con i suoi specifici strumenti di comunicazione, l’emergenza di una società dei consumi, il design, ma anche la sperimentazione letteraria e artistica, la rinnovata attenzione logico-linguistica della filosofia, lo sviluppo di un’epistemologia autonoma delle scienze umane rendono pressoché indispensabile una prospettiva teorica al tempo stesso attenta e disincantata, capace di allestire un metodo d’analisi formale della società scevro da ogni ideologia soggiacente. La semiotica risponde a questa domanda, e nasce come disciplina specifica, con suoi autori e sue istituzioni, proprio a cavallo del secolo. Libri come Miti d’oggi (1957) e Apocalittici e integrati (1964) sono fra le migliori dimostrazioni di questa attenzione della scienza dei segni verso la vita quotidiana e sociale, di questa vocazione critica – in tutti i sensi del termine – che una prospettiva di studio sui sistemi e processi di significazione non poteva non avere. Occuparsi di televisione o di pubblicità, di canzonette di consumo o di fumetti, di giornalismo o di moda, di avanguardie artistiche o di romanzi sperimentali, di mitologie alimentari o d’incontri di catch esigeva la costruzione progressiva di uno sguardo che coniugasse competenze linguistiche e curiosità sociologica, attenzione metodologica e spirito polemico, vocazione formale e profondità filosofica.
Per quel che riguarda Eco, la questione della testualità resta per certi versi intrecciata a una più generale riflessione sul segno, per quanto ripensato secondo i principi della pragmatica filosofica di Charles S. Peirce. Secondo quest’ultimo il segno è una realtà dinamica, senza una conformazione specifica né dal punto di vista materiale né da quello formale, che mette in moto un lavorio interpretativo in linea di principio inesauribile dove significanti e significati si rimandano gli uni con gli altri. Il significato di un segno, afferma Peirce, è un altro segno in cui il primo deve venir tradotto, o se si vuole anche soltanto approssimativamente ricondotto, in un rinvio potenzialmente senza fine dove materie espressive di qualsiasi genere (gestualità, verbalità, immagine etc.) portano avanti l’interpretazione (idea che convince sia Derrida sia Ricoeur). Finché non si produce una qualche stabilizzazione istituzionale, un certo ‘abito’ interpretativo che blocca – per un tempo più o meno lungo – la fuga continua degli interpretanti. Analogamente per Eco, la primarietà del piano semantico su quello espressivo, che abbiamo visto essere decisiva per una semiotica del testo, trova conferma nel concetto di interpretazione come attività non esterna ma costitutivamente inerente sia al segno sia del testo – i quali talvolta sembrano differenziarsi solo per taglia e per complessità. Il testo, dice Eco, è un lessema espanso, così come il lessema è un testo concentrato: il senso si allarga e si restringe in forme espressive differenti, che vanno dalla singola parola a un’intera opera, dando luogo ogni volta ad attività interpretative più o meno complesse, più o meno fondamentali. Una parola, una frase, un testo, un insieme di testi sollecitano, grazie alle proprie strutture interne – semantiche e sintattiche –, un costitutivo lavoro pragmatico del destinatario, che viene portato ad attivare porzioni più o meno consistenti della propria ‘enciclopedia’ (ossia della propria competenza linguistica, lessicale, testuale, intertestuale, generalmente culturale), in modo da completare il senso che il testo lascia come in sospeso. Il testo emerge, nella semiotica interpretativa di Eco, come una specie di configurazione culturale dinamica, una sorta di dialettica continua fra detto e non detto, fra ciò che esso esplicitamente proferisce e ciò che invece si limita a presupporre, promettere, implicare, implicitare – e che il destinatario, grazie alle proprie competenze pregresse, deve saper cogliere. Il testo è una macchina pigra, piena di ‘buchi’, di interstizi, di spazi lasciati vuoti, in attesa che il lettore (perché è soprattutto il testo scritto che Eco considera) li riempia di un significato che è al tempo stesso inscritto e inferito, interno ed esterno, testuale e culturale, oggettivo e soggettivo. Da una parte, il lettore del testo – definito ‘lettore modello’ – fa parte della macchina testuale, provvedendo a riparare all’innata pigrizia di quest’ultima con un’attività cognitiva in qualche modo prevista in anticipo. D’altra parte, questa prefigurazione testuale del lettore agisce in modo che – non foss’altro che come utopia autoriale, aspettativa di una realizzazione perfetta dell’opera – il lettore empirico si attivi per comprendere del testo anche e soprattutto tutto ciò che esso non dice ma si limita a presupporre.
Per Eco insomma la cultura è un insieme di testi senza alcuna gerarchia prestabilita che decida scale assolute di valori logici o metafisici: è semmai un luogo dinamico dove si negozia in continuazione fra attori della comunicazione, in modo da decidere ogni volta in modo diverso non solo che cos’è uso e che cosa interpretazione di un testo, ma più in profondità – come vedremo anche in Greimas e Lotman – che cosa, a determinate condizioni e secondo certe pertinenze, è un testo e che cosa non lo è. Da qui, per quanto senza enfasi, quello che Eco stesso chiama pansemiotismo, secondo il quale l’intera vita quotidiana – e non solo la cultura – “appare come un reticolo testuale in cui i motivi e le azioni, le espressioni emesse a fini comunicativi così come le azioni che esse provocano, diventano elementi di un tessuto semiotico in cui qualsiasi cosa interpreta qualsiasi altra”.