
Quali cambiamenti epocali segnano non soltanto il modo di condurre i conflitti bellici ma anche la mentalità e l’atteggiamento nei confronti della guerra?
Secondo alcuni studiosi anglosassoni come Michael Roberts e Geoffrey Parker il periodo che intercorre tra 1560 e 1660 (o, per il secondo, più estensivamente, tra i secoli XVI e XIX incipienti) assistette a una vera e propria rivoluzione militare. I fattori determinanti possono essere individuati, in modo estremamente schematico, nell’impiego sempre più sistematico di armi da fuoco sui campi di battaglia, siano esse portatili (archibugi, moschetti, focili che i progressi tecnologici rendono sempre più maneggevoli e precisi) o artiglierie campali leggere, oltre a quelle di grosso calibro determinanti negli assedi e presto anche negli scontri navali; la conseguente evoluzione dell’architettura militare per resistere ai bombardamenti; e infine il progressivo aumento numerico degli effettivi negli eserciti, che comportò una complessa riorganizzazione delle tecniche di combattimento e della stessa struttura gerarchica. Solo un perfetto addestramento e una rigida disciplina consentivano infatti, attraverso la cosiddetta Contromarcia, ai tiratori di avvicendarsi ordinatamente garantendo un micidiale fuoco continuo. Il nerbo degli eserciti è ormai costituito dalla fanteria che si coordina con le rapide manovre della cavalleria leggera. Tramontano i fasti della cavalleria pesante, e con essi la risolutiva azione dell’eroismo, della forza e del valore individuali nel duello feroce ma leale, uomo contro uomo, con lancia e spada. Insigni capitani come Giovanni dalle Bande Nere o il Connestabile di Borbone cadono inopinatamente per un colpo di moschetto. Ariosto, autore della forse più celebre tirata contro le armi da fuoco, deplora in nome delle regole della cavalleria l’avvento dell’“abominoso ordigno”; ma poi, sempre nel Furioso, non riesce a trattenere l’ammirazione per i potenti cannoni di Alfonso d’Este e per il sapiente uso che della polvere pirica seppe fare il principe ferrarese nelle grandi battaglie di quel tempo, su tutte quella della Polesella. Appena tre lustri più tardi, il Belisario del Trissino, nell’Italia liberata da’ Goti, all’angelo che gli rivela per grazia divina, tra le mirabolanti invenzioni future della tecnica, il funzionamento delle armi da fuoco e il potenziale distruttivo di quel “flagello orrendo”, non si limita ad “alzare le ciglia”, ma “risguardando assai quel nuovo ingegno / desiderava di portarlo seco / giù ne la vita, a dibellare i Goti”.
Quando e come si sviluppa la nozione di “arte della guerra”?
La sottigliezza dell’Oriente è addirittura in anticipo sull’Occidente. Penso a Sun Tzu o all’Artasastra (IV sec a. C.): il sastra (trattato) che tratta dei mezzi per acquistare e far fruttare questa terra. Arta è la sussistenza degli uomini, il principio dell’azione razionale, completamente svincolata dalla morale, diretta a fini egoistici. Vi è incluso tutto, politica, guerra, economia … L’imperativo è vincere. In Occidente il primo ad avere scritto di questa materia fu, secondo la tradizione, Enea detto Tattico (IV sec. a. C.), seguito da una lunga serie di autori. Tra i latini menzionerò almeno la tarda Epitoma rei militaris di Vegezio, che non solo i teorici ma anche i poeti del Cinquecento conoscevano a menadito. La nozione di arte della guerra nasce come tentativo di razionalizzare e di trasformare in episteme soggetta a regole e a leggi la realtà irrazionale e caotica della guerra.
Quale ruolo svolgono, nella rinnovata concezione strategica, le architetture militari?
La potenza di fuoco delle artiglierie da assedio determina una profonda trasformazione nell’ambito della architettura militare difensiva, di cui gli italiani sono protagonisti in Europa. Semplifico. Da una difesa puramente statica (mura alte e sottili di pietra, perimetri irregolari) si passa a impianti poligonali sempre più estesi e complessi. Una nuova generazione di fortezze, caratterizzata da cortine basse e massicce fatte di terra e concepite come manufatti elastici in grado di assorbire gli urti. I bastioni sporgenti con feritoie aperte nei lati (troniere) consentono alle artiglierie di posizione di investire gli assalitori con un efficace “tiro di fiancheggiamento” perpendicolare alle cortine. Le fortificazioni assumono in tal modo una funzione offensiva. Tutto ciò rende l’espugnazione di città fortificate e piazzeforti sempre più ardua, lunga e dispendiosa. In breve tempo dal modello di una guerra di annientamento che si decideva in uno scontro campale (la “giornata”) si passa a una guerra di logoramento caratterizzata da interminabili assedi e dalle manovre tattiche alla ricerca delle posizioni più vantaggiose.
Quali sono le figure e le opere più significative della nuova concezione dei fatti e degli uomini d’armi nella letteratura coeva?
L’elenco sarebbe lunghissimo, includendo tutti i generi letterari. Si deve naturalmente partire dalla messe crescente di trattati tecnici, che nel XVI sec. assurgono alla dignità di vero e proprio genere autonomo. Mi limiterò a ricordare il De re militari del Valturio: scritto alla corte di Sigismondo Pandolfo Malatesta tra 1446 e 1455, vi sono umanisticamente recuperati tutti i precetti e gli insegnamenti tecnici della scienza bellica classica. E non si può trascurare il dialogo machiavelliano Dell’arte della guerra (1521), dove già si riflettono le esperienze delle guerre d’Italia. Nel finale del libro III lo scrittore traduce gli astratti principi teorici in vivente e palpitante accadimento: per bocca del principale interlocutore, il grande condottiero Fabrizio Colonna, ci immerge con evidenza sensoriale – come se tutto stesse accadendo davanti ai nostri occhi – nel tumultuoso spettacolo di una ben condotta e vittoriosa battaglia, evocata in tutte le sue fasi per pura forza di immaginazione. (Nel volume cerco di dimostrare come questo magnifico dialogo non fosse ignoto al Trissino e forse anche al Tasso). Ma altrettanto significative sono le storie (su tutte la Storia d’Italia del Guicciardini) e persino le relazioni dei testimoni diretti intorno a grandi battaglie o campagne, ricche di particolari rivelatori, nelle quali si rinnova il genere classico del commentario. L’incidenza della guerra su chi ne subisce le rovinose conseguenze o di chi la osserva, da protagonista partecipando al gioco politico, o da semplice spettatore, emerge con vividezza dagli epistolari. E i suoi riflessi non sono assenti nella novellistica del Cinquecento, dove il preambolo dell’ “orrido cominciamento” – esemplato dalla peste nel modello decameroniano – viene sostituito dalla calamità della guerra e della fame (le altre due sventure dinnanzi alle quali si suole invocare: libera nos, Domine). Così i Trattenimenti di Scipione Bargagli sono aperti da una descrizione, cruda e atroce come solo la realtà sa essere, del terribile assedio stretto da Firenze e dagli Imperiali intorno a Siena dal 1553 al 1555, fino alla resa per fame della città tra scene di puro orrore. (L’argomento è studiato dalla collega Patrizia Pellizzari nel primo volume del nostro progetto di ricerca).
Nei tre ultimi volumi della serie noi italianisti ci siamo però soprattutto concentrati sul passaggio dalla rappresentazione stilizzata e spesso irrealistica fino all’iperbole che caratterizza la battaglia nei poemi cavallereschi (con significative eccezioni, quali certe zone del Furioso o dei Cinque canti dove già, sulla serenità ariostesca, si proiettano le ombre della tragedia italiana; o come, su un diverso piano di mera attenzione alla tattica, alla strategia, agli stratagemmi, l’Avarchide di Luigi Alamanni, singolare tentativo di adattare il romanzo al paradigma classico dell’Iliade) all’evocazione ben altrimenti drammatica, realistica e ferocemente violenta che dello scontro bellico compare nei poemi eroici fondati sul vero storico. Grande importanza assume da questo punto di vista L’Italia liberata da’ Goti del Trissino (1547-48). Poema certamente “muto nel teatro del mondo e morto alla luce degli uomini”, come sentenzia il Tasso, ma determinante per la costruzione di una nuova immagine della guerra. Imitatore di Omero (ma non sempre così pedissequo come si è sostenuto), il Trissino trasforma il tradizionale “catalogo” dei combattenti nella tecnica descrizione di un esercito ideale, gerarchicamente organizzato (con tanto di organigramma dei comandi) e diviso in reparti con predominio della fanteria. Pedante, aspira dichiaratamente all’utilità del suo poema: di qui gli excursus didascalici sull’addestramento delle reclute, sulla tecnica di marcia, sulla castrametazione. Non trascura l’importanza della logistica, le precauzioni da prendere marciando in territorio nemico. L’arte della guerra – la sua complessità – entra a pieno titolo nella narrazione. Proprio per questo la figura del capitano, dello stratega – Belisario – acquista un inedito rilievo. Così per le battaglie e gli assedi, dove i particolari – spesso atroci – attinti dalla Guerra gotica di Procopio di Cesarea conferiscono alla narrazione quell’evidenza che solo la realtà della guerra, sempre superiore a ogni immaginazione, sa trasmettere. Nel Trissino, l’orrore realistico delle ferite, lo scempio dei corpi – tutti vulnerabili, salvo eccezioni – non conosce, sul modello di Omero, alcuna censura. Proprio un seguace del Trissino, Antonio Francesco Olivieri, ci da con La Alamanna (1567), un vero unicum nel panorama cinquecentesco: un poema eroico che prende ad argomento una guerra moderna, la campagna del Danubio (1546) che oppose Carlo V alla protestante Lega di Smalcalda. Se ne occupa qui a fondo Patrizia Pellizzari. (E aggiungo che solo più tardi il Marino ritenterà la prova evocando profeticamente, nel canto X dell’Adone, la guerra del Monferrato (1613) con risultati molto originali, e cimentandosi anche in una incompiuta Anversa distrutta). Per parte mia, cerco di mostrare come di tutto questo il Tasso sappia tenere genialmente conto nella Gerusalemme liberata e poi nella Conquistata, riconoscendo la grandezza e la novità (spesso legata alla tecnica “cinematografica” del montaggio) delle scene epiche del poema, che mi sembrano talvolta ancora troppo trascurate a vantaggio dell’elemento erotico-elegiaco-idillico.
Paolo Luparia insegna Letteratura italiana nel Dipartimento di Lingue e Letterature Straniere e Culture Moderne dell’Università di Torino