
Così, anche le tradizioni storiche nel loro ciclo vitale attraversano i contesti adattandosi alla cd. ‘superficie sociale’ dei gruppi che ad esse affidano una funzione primariamente identitaria: le tradizioni greche subiscono in altri termini un processo fisiologico di adattamento ai contesti di trasmissione e alle caratteristiche e alle esigenze dei gruppi che le trasmettono, e la cui identità esprimono. In antropologia culturale tale fenomeno è indicato come ‘omeostasi’: la tradizione si adatta di volta in volta al presente, modificandosi nella forma e nei contenuti, per esempio enfatizzando alcuni aspetti o eventi, o ridimensionandone – fino ad ometterne – altri, al fine di mantenere una referenzialità rispetto al presente, dunque una validità per la comunità di riferimento.
Le tradizioni storiche greche sono peculiarmente molteplici, perché il mondo greco è tipicamente frammentato in entità portatrici di una coscienza storica e un’identità collettiva molto marcate, fondate appunto su base locale, come poleis ed ethne. Tali entità erano peraltro a loro volta attraversate da ulteriori e molteplici livelli comunitari: ad Atene, ad esempio, i diversi demi (unità territoriali politico-amministrative minori) esprimevano ciascuno uno proprio spiccato senso di identità. Le tradizioni storiche greche sono inoltre peculiarmente fluide e plastiche: manca infatti un potere di vertice in grado di produrre e trasmettere, dall’alto verso il basso, tradizioni ufficiali e stabili, date una volta per tutte. In altri termini, a differenza per esempio che nelle grandi monarchie orientali antiche, le tradizioni greche non si configurano su base elitistica, come una funzione del potere, ma su base più o meno partecipativa, come una funzione dell’identità collettiva, e in quanto tali sono particolarmente sensibili al cambiamento e alla riconfigurazione.
Come si costruì la memoria ateniese di Maratona?
La memoria della grandiosa vittoria di Maratona, ottenuta dagli Ateniesi sui Persiani nel 490, si costituì in fasi diverse a partire dall’immediato post battaglia. A seconda del contesto storico, e in particolare dello sviluppo della leadership ateniese nel mondo greco e dei conseguenti cambiamenti nel quadro dei rapporti interstatali, essa si prestava in effetti a sostenere e motivare secondo forme e significati diversi la preminenza di Atene sugli altri Greci. Monumenti, iscrizioni, riti e culti, a Maratona stessa così come ad Atene e nel santuario internazionale di Delfi, mostrano infatti come la vittoria di Maratona sia stata caratterizzata diversamente nel corso dei decenni centrali del V secolo: il tumulo con le stele dei caduti sul campo di battaglia, il cd. Tesoro degli Ateniesi con le statue degli eroi eponimi a Delfi, la Nike di Callimaco sull’Acropoli, le fiaccolate rituali per Pan, la Stoa Poikile nell’agora sono solo alcuni esempi di forme di memoria non storiografica che ‘raccontano’ storie su Maratona antecedenti ad Erodoto (e che in Erodoto si ritrovano, stratificate, ricomposte entro un’unica narrazione).
Nell’immediato dopoguerra, Maratona era percepita e celebrata come uno scontro di portata locale, che vedeva la sola Atene, e non l’intera Grecia, obiettivo della spedizione persiana: Dario infatti voleva vendicare l’aiuto che Atene aveva fornito ai Greci d’Asia minore ribelli contro il potere persiano alcuni anni prima, nella cd. rivolta ionica. Si trattava non tanto di una vittoria epocale sui Persiani, quanto dell’efficace difesa del territorio compiuta dal neonato esercito cittadino: costituito da appena un quindicennio e per la prima volta rappresentativo dell’intera regione – Atene e l’Attica insieme-, esso aveva respinto i Persiani e impedito loro di raggiungere e incendiare la città. Quando poi Atene, a partire dal 477 a.C., si pose a capo di un’alleanza navale anti-persiana, la cd. Lega delio-attica, Maratona veniva rappresentata come ragione storica della leadership ateniese nella guerra (ancora in corso, fino alla metà del secolo) contro i Persiani: gli Ateniesi erano stati infatti i protoi (i primi) ad affrontarli e sconfiggerli. Un intero sistema di racconti mitici, costitutivi del bagaglio identitario ateniese, vennero riplasmati e ‘agganciati’ alla storia recente a fine legittimante: tra le glorie del mito e la storia recente, Maratona rappresentava il decisivo anello di congiunzione. Successivamente, a seguito dello scoppio delle ostilità intragreche nel 446 a.C. (la cd. ‘prima guerra del Peloponneso’ che ho citato prima), gli Ateniesi rivendicavano il loro diritto all’egemonia non più solo contro i Persiani, ma anche sugli altri Greci, alla luce del fatto che a Maratona non erano stati solo protoi, ma anche monoi, soli: a differenza cioè che nella seconda guerra persiana, successo dei Greci tutti, Maratona era stata una vittoria solo ateniese. Maratona diventava il vero e proprio mito fondante dell’Impero ateniese. Più tardi, all’epoca delle invasioni spartane dell’Attica nella prima fase della guerra del Peloponneso (431-421), la vittoria di Maratona diventerà oggetto di un revival di attenzione in quanto paradigma della vittoria perfetta: esempio della strategia militare vincente, quella di difendere la città e le campagne andando incontro al nemico, nonché simbolo del ‘bel tempo che fu’, in un’epoca in cui la potenza ateniese era minacciata, il costo umano della guerra divenuto insostenibile, e la coesione civica prossima a incrinarsi.
Quali dinamiche caratterizzarono la memoria panellenica delle Guerre persiane?
Una memoria panellenica, nel senso di sovranazionale, delle Guerre Persiane in realtà non esistette mai in Grecia fino al IV secolo. Fu solo di fronte alla minaccia dei ‘nuovi barbari’, i Macedoni di Filippo, nella seconda metà del IV secolo, che i Greci iniziarono a ricordare e rappresentare le Guerre Persiane come una guerra panellenica contro i Persiani. Nell’immediato dopoguerra invece, e per tutto il corso del V secolo, la memoria delle Guerre persiane fu frammentata in tante memorie civiche quante furono le poleis che vi avevano preso parte.
La documentazione risalente al decennio immediatamente successivo alla fine del conflitto, dunque agli anni ’70, mostra che ogni comunità intendeva evidenziare il proprio contributo alla guerra contro i Persiani, e lo faceva attraverso le modalità canoniche di immissione di racconti storici nel circuito della memoria sociale, vale a dire la poesia: sia quella destinata alla pubblica performance (odi ed elegie), sia quella incisa su pietra, come gli epigrammi iscritti sui monumenti per i caduti. In particolare la poesia attribuita a Simonide, che scriveva su ‘commissione’, testimonia la volontà da parte di ogni polis di sottolineare i propri meriti contro i Persiani, talvolta anche attraverso il ricorso a formule comuni, antenati dei moderni ‘hashtags’: espressioni di merito come ‘aver dato alla Grecia il giorno di libertà’ o ‘allontanato dalla Grecia il giorno della schiavitù’ ricorrono per esempio nei testi poetici commissionati da Atene, Sparta, Corinto, Megara. Aver dato il proprio contributo alla guerra comune contro i Persiani era insomma diventato un ingrediente immancabile nella carta d’identità di ogni polis, da esibire su scala panellenica. Tanto che la storia di due monumenti dedicati nei principali santuari internazionali, Delfi e Olimpia, e iscritti con la lista dei Greci che avevano combattuto contro i Persiani, documenta una vera e propria competizione tra le varie poleis, con tanto di rettifiche e aggiunte, per la loro inclusione nella lista ufficiale.
Questo quadro ‘poli-ellenico’, animato da una competizione inclusiva da parte delle varie poleis, muta a poco a poco carattere: a seguito infatti della crescita della potenza ateniese e della conseguente ostilità tra Atene e Sparta, e rispettivi alleati, sfociata in un quindicennio di scontri talora indicato come ‘prima guerra del Peloponneso’ (461-446 a.C.), anche la memoria delle guerre Persiane subisce una virata competitiva. Che si manifesta in racconti nuovi: Ateniesi, Argivi e Plateesi da un lato, e Spartani, Corinzi e Tebani, dall’altro, iniziano a immaginare, raccontare e rappresentare il ruolo proprio e degli altri Greci in forme diverse, alla luce delle nuove esigenze di senso indotte dalla nuova scacchiera dei rapporti interstatali e dai nuovi sviluppi politici e culturali. In particolare la monumentalità pubblica dei decenni centrali del V secolo, corredata com’era di testi e immagini, documenta una memoria delle Guerre persiane fortemente riplasmata rispetto al quadro poli-ellenico degli anni ’70. Alcuni aspetti sono enfatizzati, altri depotenziati, alcuni elementi sono omessi, altri introdotti ex novo, all’interno di una competizione tra le poleis che non è più inclusiva ma è diventata esclusiva, finalizzata alla preminenza. È su tale quadro che Erodoto costruisce la sua narrazione della seconda guerra persiana.
Come venne recepito nella memoria sociale il sacco persiano di Atene?
Il sacco persiano di Atene del 480/79, raccontato da Erodoto e ampiamente documentato dall’archeologia, ebbe a tutti gli effetti un effetto traumatico sulla comunità civica ateniese. Fu in particolare l’incendio della sacra rocca a colpire l’immaginario e le coscienze dei cittadini. Eschilo nei Persiani, messi in scena solo pochi anni dopo, nel 472 a.C., vi dedica versi di drammatica vividezza: i templi incendiati, gli altari abbattuti, le statue degli déi scalzate dai piedistalli e rovesciate furiosamente a terra. La reazione disperata degli Ateniesi alla messa in scena del sacco di Mileto nella omonima tragedia di Frinico, messa in scena verosimilmente dopo la seconda guerra persiana, e il mancato raggiungimento dell’obiettivo primario della tragedia che era la catarsi collettiva documenta che la distruzione della città costituiva per il pubblico, fatto di cittadini, un’esperienza ancora traumatica, vale a dire non metabolizzata, destinata a essere rivissuta in toto, anziché ricordata e rappresentata.
Gli Ateniesi reagirono in modi diversi al sacco della città: da un lato ferventi operazioni di pulizia e ricostruzione edilizia e infrastrutturale, documentate archeologicamente soprattutto dal recupero e reimpiego di materiale edilizio, dall’altro la ‘musealizzazione’ delle rovine, investite di una valenza simbolica e memoriale. Ancora oggi, guardando al muro settentrionale dell’Acropoli, si possono vedere le porzioni architettoniche dei templi bruciati dai Persiani (il tempio arcaico di Atena Poliade e il cd. Pre-Partenone), reimpiegate e rimontate nella parte superiore del muro di cinta della rocca ristrutturato nel dopoguerra: gli Ateniesi le vollero conservare ed esibire in una sorta di museo a cielo aperto, a quotidiana e perenne memoria del sacco persiano e dell’empietà dei barbari. Fatto salvo il ripristino di strutture di ricovero per la statua di culto di Atena e i culti ancestrali dell’Acropoli (Cecrope, Pandroso ed Erittonio), i templi distrutti non vennero ricostruiti fino all’apertura del grande cantiere acropolitano voluto da Pericle negli anni ’40: ciò significa che per diversi decenni gli Ateniesi praticarono le loro attività devozionali, sia quelle quotidiane sia quelle calendarizzate come le Panatenee, in uno scenario di rovine. Anche le korai, le statue femminili arcaiche dedicate ad Atena, che i Persiani avevano distrutto e incendiato, vennero seppellite nella cd. colmata persiana, uno strato di materiali di scarico e riempimento ben documentato archeologicamente sul lato settentrionale della sacra rocca. Vennero quasi tutte seppellite, tranne alcune, che vennero invece rialzate a perenne memoria della profanazione persiana: Pausania, sette secoli dopo, le vede ancora, annerite dal fuoco e dal fumo.
In che modo tale processo di memorializzazione ha costituito il milieu delle Storie di Erodoto?
L’opinione comune, che si riflette anche nei manuali di storia greca, vuole che le Guerre persiane siano accadute esattamente come Erodoto le ha raccontate. Secondo l’approccio tradizionale, improntato alla cd. ‘critica delle fonti’ di matrice ottocentesca, il racconto storiografico di Erodoto rappresenta infatti la fonte principale, compiuta e attendibile, corrispondente all’esatta trascrizione della realtà fattuale. Da ciò consegue che qualsiasi dettaglio, rappresentazione o racconto, antecedente o posteriore, viene generalmente confrontato con la narrazione erodotea, e di fatto ‘salvato’ nel suo valore documentario solo se concorde o integrativo rispetto ad essa.
Erodoto scrive in realtà diversi decenni dopo gli eventi: secondo la ricostruzione biografica accettata, Erodoto, che sarebbe nato alla metà degli anni ’80 ad Alicarnasso, in Asia Minore, e sarebbe stato in esilio a Samo con la famiglia, per poi rientrarvi alla metà degli anni ’50, viaggiò in lungo e in largo per il Mediterraneo, fino a mettere piede ad Atene negli anni ’40, in piena età periclea (ma forse già nei secondi anni ’50). E completò le sue Storie in piena guerra del Peloponneso, sicuramente dopo il 424 (il riferimento cronologico più basso che troviamo nell’opera). Secondo ipotesi recenti Erodoto avrebbe assistito anche alla presa di Decelea del 411, se non alla fine della guerra, con la sconfitta di Atene per mano di Sparta nel 404. Insomma, Erodoto compie la sua historie, la sua ricerca, in diversi luoghi e soprattutto nell’arco di molti decenni. Ha a che fare con tradizioni storiche in formazione e in movimento, che appunto sono documentate dalle forme di memoria non storiografiche analizzate in questo libro: testi poetici, tragedie, iscrizioni, monumenti, porzioni di spazio, riti, culti, feste. Analizzate per la prima volta come un sistema di documenti, come icebergs di sottostanti discorsi storici in formazione e circolazione, esse rivelano l’esistenza di tradizioni locali sulle Guerre Persiane già dotate di una configurazione narrativa e di precisi fili semantici.
Come Erodoto abbia esattamente selezionato, rilavorato e ricomposto in un insieme organico queste ‘storie prime delle Storie’, secondo una brillante formulazione di Nino Luraghi (peraltro autore della prefazione del libro), è terreno d’indagine in corso, anche e soprattutto sulla scorta degli sviluppi teorici e metodologici scaturiti dal dialogo della ricerca antichistica con le discipline socio-antropologiche. Certo è che le Guerre persiane narrate da Erodoto, lungi dal rappresentare in tutto e per tutto le Guerre persiane così come si sono svolte, racconta gli eventi in forme e significati che erano già stati profondamente riconfigurati dal lavorio della memoria sociale presso le diverse comunità greche.
Quale valore metodologico generale può avere un libro come questo, impegnato a ricostruire la stratificazione della memoria di un evento ritenuto ‘fondante’ per la storia greca ed europea?
“Gli eventi sono come la schiuma della storia, bolle grosse o piccole che si spaccano in superficie, e scoppiando suscitano turbini che si propagano più o meno lontano. Questo evento ha lasciato tracce molto durature, che neppure oggi sono del tutto scomparse. Soltanto queste tracce gli danno vita, e senza di esse l’avvenimento non è nulla”: così George Duby scriveva a proposito della battaglia di Bouvines, a introdurre l’operazione storiografica che si prefiggeva di compiere (e magistralmente compie) nel suo lavoro seminale del 1973 dedicato alla famosa battaglia, mythomoteur della nazione francese. Che racconta però non in quanto mito fondante della Francia moderna, bensì sulla base della prima cronaca redatta da Guglielmo il Bretone, cappellano al seguito di Filippo, al netto dunque di narrazioni, rappresentazioni e significati introdotti successivamente.
Come Bouvines per Duby, le Guerre Persiane, evento di portata dirompente per i contemporanei, ricordato raccontato e rappresentato in una molteplicità di modi sin dall’immediato dopoguerra, e investito di significati storici e culturali fondanti nei decenni e secoli successivi, rappresentano per lo storico antichista un prezioso laboratorio, di metodo e di contenuto. Dall’analisi condotta appare per esempio chiaro che Maratona, investita in età moderna del significato di mito fondante dell’Europa (per limitarsi ad un paio di esempi: il generale Füller la definiva il Geburtsschrei -il grido di nascita- dell’Europa, John Stuart Mill la dichiarava più importante della battaglia di Hastings per la storia dell’Inghilterra), all’epoca dei fatti non aveva certo il significato epocale attribuitole in seguito. Si trattava infatti di un episodio di portata limitata a una dimensione locale, e non di uno scontro ideologico di vasta portata tra Occidente e Oriente, barbarie e civiltà, libertà e schiavitù.
La scomposizione dell’immagine di Maratona e delle Guerre Persiane in strati del ricordo diversi, prima di Erodoto e in Erodoto, rappresenta insomma un’occasione per esplorare non solo come i Greci ricordavano e raccontavano il loro passato, ma in una prospettiva più ampia, che trascende il caso specifico, anche come i gruppi umani, in tempi e spazi diversi e lontani, attribuiscono agli eventi passati significati sempre diversi, in ragione delle esigenze di senso di volta in volta presenti. Fino a trasformare un evento di portata locale, come il respingimento dei Persiani a Maratona, in un mito nazionale, ateniese, ellenico e infine europeo.
Giorgia Proietti è ricercatrice in Storia greca presso il Dipartimento di Lettere e Filosofia dell’Università di Trento, dove dal 2014 insegna storia greca e metodologia della ricerca storica nei corsi di laurea triennale e specialistica. Ha studiato a Londra e ad Atene. I suoi interessi scientifici si concentrano sul mondo greco in età classica, in particolare sulla storia politico-militare e le connesse dinamiche memoriali, psicologiche e identitarie, nonché su guerra e dopoguerra in una prospettiva comparativa tra antico e moderno. Il suo approccio teorico e metodologico è fortemente influenzato dagli studi socio-antropologici su memoria, identità e conflitto.