“Prima dei giornali. Alle origini della pubblica informazione (secoli XVI e XVII)” di Mario Infelise

Prima dei giornali. Alle origini della pubblica informazione (secoli XVI e XVII), Mario InfelisePrima dei giornali. Alle origini della pubblica informazione (secoli XVI e XVII)
Mario Infelise
Laterza

«Alla fine del Medioevo le grandi città italiane erano snodi centrali di una rete che avvolgeva Europa e Mediterraneo, lungo la quale transitavano notizie politiche ed economiche. Le lettere dei mercanti ne erano allora il veicolo principale e le piazze commerciali i luoghi di raccolta e di scambio. Tra gli ultimi decenni del Quattrocento e i primi del Cinquecento la situazione cambiò. Alle corrispondenze private tra singoli mercanti si affiancarono altri strumenti che tesero a spostare l’informazione dal piano prevalentemente mercantile e privato a quello politico e pubblico, determinando piuttosto rapidamente il coinvolgimento di una platea molto più vasta. L’affermarsi di servizi postali con frequenza regolare e il miglioramento complessivo dei collegamenti tra le principali città aveva favorito il movimento di notiziari appositamente predisposti. Si trattava di fogli copiati a mano, redatti con la periodicità dei corrieri, noti dapprima con nomi quali «avvisi», «reporti», «novellari», e più tardi come gazzette.

La diffusione di simili scritti si intensificò notevolmente nel corso del XVI secolo e fu, in qualche caso, aiutata dalla stampa. In coincidenza col verificarsi di eventi eclatanti di qualsiasi natura, gli avvisi che li riferivano potevano passare in tipografia e comparire sotto l’aspetto di fogli volanti occasionali. Agli inizi del Seicento, tra Fiandre e Germania, prese invece il via la stampa di regolari gazzette settimanali. Tra gli anni Venti e Trenta, con il dilagare della guerra dei Trent’anni, l’impressione di avvisi politici periodici si affermò anche in Francia e Italia.

La comparsa di gazzette a stampa non segnò tuttavia la fine degli avvisi manoscritti, che continuarono a costituire la fonte principale a cui le gazzette stampate attingevano e sulle quali mantennero a lungo alcuni indiscutibili vantaggi: erano più veloci da confezionare; non dovevano passare attraverso le varie operazioni tipografiche; sfuggivano molto più facilmente ai controlli censori; potevano essere segreti e personalizzati a seconda delle esigenze di chi li acquistava. Sicché per tutto il corso del Seicento e per buona parte del Settecento l’informazione che contava, quella più riservata e destinata almeno in partenza alle alte sfere, continuò a restare manoscritta, alimentata da efficienti botteghe, presso le quali lavoravano a tempo pieno veri e propri professionisti del mestiere, occupati nel raccogliere, trattare e vendere informazioni. Principi, corti e ambasciatori dell’Europa intera non potevano evitare di far conto su servizi di questo genere, spesso svolti da uomini avventurosi e ambigui, costantemente in bilico tra lo spionaggio vero e proprio e la tentazione di presentare se stessi quali artefici di un mestiere nuovo in cerca di una precisa definizione. […]

Questo libro intende rivolgere l’attenzione in primo luogo verso i fogli di notizie e gli uomini che furono responsabili della loro redazione. Più che gli aspetti teorici della questione resta preliminare la necessità di affrontare anche in dettaglio i contraddittori sviluppi degli strumenti della comunicazione e le pratiche ordinarie del loro uso. Le vicende dell’affermarsi della pubblica informazione furono tutt’altro che lineari. Gli esiti, poi, sono stati spesso il risultato casuale o non gradito di atti che avevano propositi affatto diversi da quello di fornire un pubblico servizio o un’occasione di stimolo alle capacità critiche dei sudditi. Scritti molto mirati, appositamente predisposti per fruitori professionali, sono col tempo divenuti oggetto d’interesse da parte di «curiosi» di ogni ceto, spinti alla loro lettura con entusiasmo crescente per null’altra ragione che la curiosità stessa. Tra fine Cinquecento e Seicento il progressivo svilupparsi di interessi politici in ambiti diversi delle società urbane fu conseguenza della grande diffusione di materiali del genere. […]

Sullo sfondo traspare evidente l’infido terreno delle origini della pubblica opinione. Negli ultimi decenni, a partire dal celebre libro di Jurgen Habermas, molto si è discusso sull’archeologia della pubblica opinione soprattutto nel XVIII secolo, giungendo a distinguere tra un’opinione borghese critica e razionale e un’opinione popolare a lungo negata, ma esistente e vitale. Pur esitando ad utilizzare l’espressione «pubblica opinione» per il Cinquecento e il Seicento è peraltro indubbio che già allora, ben prima del Secolo dei Lumi, una miriade di scritti diversi, ma simili, animò e abituò un’umanità urbana dai caratteri sociali alquanto eterogenei all’interesse nei riguardi delle vicende politiche vicine e lontane. Non vi fu più avvenimento grande o piccolo della scena politica europea che non fosse seguito con passione da schiere animate e vocianti di «geniali» – per usare il termine del tempo – che a seconda delle occasioni si dividevano tra partigiani del re di Francia o di Spagna, del papa o dell’imperatore. I fogli e le voci che innescavano fornivano gli argomenti per scambi di vedute non sempre propriamente pacifici. Inoltre proprio le differenti versioni circa gli stessi avvenimenti inducevano a verificare, confrontare, interpretare, consentendo a chiunque di improvvisarsi «statista». Malgrado l’irrisione della cultura alta, in simili discussioni, in cui regolarmente si confondevano personaggi di estrazione diversa, i confini tra opinione pubblica «borghese» e opinione popolare appaiono confusi, tutt’altro che definibili con precisione.

Il campo di osservazione è l’Italia tra seconda metà del Cinquecento e inizi del Settecento, estremi che segnano il manifestarsi del fenomeno, da una parte, e il costituirsi definitivo di forme di informazione pubblica tramite gazzette a stampa, dall’altra. In primo piano si staglia Venezia, dove vennero sperimentati usi che nel resto d’Europa avrebbero avuto sviluppo solo più tardi. […] Una repubblica aristocratica sovrana fondata su un patriziato numeroso e composito, impegnato a livelli differenti nel governo dello Stato incoraggiò presto la crescita di un mercato dell’informazione che, malgrado l’ostentata e formale devozione nei riguardi della segretezza dell’azione politica, operava alla luce del sole, con botteghe aperte in cui si scambiava una notevole varietà di fogli di notizie da ogni parte d’Europa. Alla vitalità di tale mercato contribuirono anche una folta burocrazia al servizio della pubblica amministrazione e soprattutto una folla di stranieri presente in città per ragioni diplomatiche, mercantili e di svago. Fu attorno a loro che ebbe modo di attecchire una corte eterogenea di figure che dello smercio delle notizie fece la propria fonte di sostentamento. Gli usi ordinari dell’informazione furono il riflesso inevitabile dei caratteri dell’agire politico interno e del tessuto sociale a cui essa era rivolta.

Al di là di Venezia si intravede il resto d’Italia. Roma, «ricovero di tutti gli avvisi del mondo», secondo la definizione di uno dei tanti avventurosi professionisti del genere di quegli anni, e le altre capitali di antichi Stati italiani, ognuna delle quali maturò itinerari particolari, dove l’uso della stampa di gazzette venne sperimentato in notevole anticipo rispetto alle capitali vere e proprie dell’informazione. Le ragioni che furono alla base della moltitudine di fogli locali e i rapporti dialettici che a lungo si mantennero con la perdurante fortuna dell’informazione manoscritta consentono di spiegare l’evoluzione del genere e di rivelare gli atteggiamenti ambigui che ogni potere mantenne con lo strumento giornalistico, alimento per le opinioni come nessun altro in precedenza, ma anche utile opportunità per mantenerle sotto controllo.

La miriade di giornali che costellò il trionfale sviluppo settecentesco della stampa periodica trae origini da queste vicende.»

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