
«I desideri sono ricordi. Non si desiderano le cose che non abbiamo conosciuto, ma solo quelle che abbiamo perduto» è l’incipit del libro, che con queste parole subito rapisce in un racconto nel quale è difficile non immedesimarsi.
Innanzitutto la scoperta della gravidanza, che sconvolge: «Superata la soglia dei cinquant’anni, ero riuscito a costruirmi una perfetta vita da figlio.» Eccola, la voce del destino che bussa alla porta: «Siamo incinti» e che riporta tutto alla realtà: «Ho sempre la sensazione di giocare con la realtà e che nulla mi succeda sul serio. Invece.»
Cosa significa diventare padri a cinquant’anni? «Vorrei davvero essere un padre di trent’anni?
Se ti avessi avuto a quell’età, adesso penseresti di me tutto il male possibile. Magari lo penserai lo stesso. Però all’epoca non avrei avuto scampo. Ero concentrato soltanto sul mio destino.»
«Però un figlio richiede tempo. Vuole essere guardato. E pretende l’esclusiva. Non gli basta un occhio, reclama anche l’altro. Tutti quelli che ci sono passati dicono che ti spolpa e che non potrai mai più essere quello di prima. Sarà dunque per questo che non ho fatto figli fino alla mia età?»
La prima ecografia, il ricordo del padre scomparso e le parole che avrebbe voluto dirgli: «Stai per diventare nonno, papà. Spero che tuo nipote ti assomigli, ma non troppo. Sto per diventare padre, papà. Spero di essere un padre diverso da te. Ma non troppo.»
Scoprirne poi il sesso: «Noi padri siamo egoisti da millenni. Quando eravamo contadini volevamo figli maschi perché servivano braccia per i campi e per le guerre. Ma adesso che siamo narcisisti, preferiamo le femmine per potere contare su qualcuno che ci metta al primo posto. Procreare è una polizza contro la solitudine. Uno dei pensieri reconditi di ogni genitore è che un giorno i suoi figli si prenderanno cura di lui. Ma uno dei pensieri nemmeno troppo reconditi di ogni padre è che solo una figlia femmina lo farà davvero.»
E la scelta del nome: Tommaso. «Come Tommaso d’Aquino, il dottore angelico, l’intelletto più raffinato del suo tempo. Un giorno la sua mente collassò ed ebbe una visione. «Tutto quello che ho scritto e insegnato, in confronto, è paglia» disse. Da quel momento smise di scrivere e persino di parlare.»
Il seguito è una sorta di ‘lettera al figlio’, un testamento spirituale che nasce dal proposito di riuscire nella sfida di educarlo, di farne un uomo migliore di se stesso, sicuro di sé: «Vorrei che da grande fosse capace di uscire da una relazione a testa alta. Che sapesse reggere il dolore del distacco senza diventare un persecutore, ma nemmeno una vittima.»
È vivo il desiderio che nasca in lui l’amore per lo studio: «A che cosa serve la scuola? «A niente» mi ha risposto con tono sprezzante un ragazzo che una volta intervistai perché aveva guadagnato un mucchio di soldi. «Se avessi studiato, non sarei mai arrivato dove sono.» Non lo attraversava il sospetto che magari avrebbe avuto una vita migliore.»
La lezione di Gramellini è non piegarsi sull’altare del dio della Competitività, che fa dipendere il successo «dalla sconfitta di qualcun altro.» Quando la sfida si fa pressante, il consiglio è: «prova la mossa del cavallo», l’unico pezzo degli scacchi che scarta e sorprende. «Sottraiti al gioco della competizione, allontanati dalla ressa e galoppa verso territori inesplorati. Non perdere tempo a fare meglio degli altri quello che fanno già tutti. Prova a fare meglio che puoi qualcosa che non ha ancora fatto nessuno.»
E chiude il diario una domanda: «Quando è stata l’ultima volta che ho fatto qualcosa per la prima volta?» È il miracolo che si ripete ad ogni nascita e che fa rispondere così ogni padre e ogni madre: «Adesso. Sto per conoscere te.»