“Prevenzione della corruzione. Strategie, sfide, obiettivi” di Valentina M. Donini

Prevenzione della corruzione. Strategie, sfide, obiettivi, Valentina M. DoniniProf.ssa Valentina M. Donini, Lei è autrice del libro Prevenzione della corruzione. Strategie, sfide, obiettivi, edito da Carocci: quale bilancio si può trarre riguardo all’efficacia delle strategie di lotta e contrasto alla corruzione adottate nel nostro Paese?
Un bilancio indubbiamente positivo, ma occorre fare alcune precisazioni. Nel nostro paese negli ultimi dieci anni si è passati, anche in adempimento a obblighi internazionali, da un approccio repressivo a uno preventivo. E questo ha rappresentato una vera e propria rivoluzione, che sicuramente ha prodotto degli effetti positivi.

È vero che valutare l’efficacia di una politica preventiva è difficile, o forse addirittura impossibile, dato che l’eventuale diminuzione o assenza di un fenomeno corruttivo può essere interpretata in diversi modi: semplicemente il fenomeno non è stato scoperto, oppure non si è verificato a prescindere dall’azione preventiva, oppure, opzione più rassicurante ma indimostrabile, è veramente un risultato della politica preventiva.

D’altra parte, sappiamo bene che l’approccio esclusivamente repressivo si era rivelato inefficace sotto diversi profili: in primo luogo perché un sistema che si basa solo sulla repressione della corruzione non consente di arginare il fenomeno, ma solo di intervenire (forse) ex post. Inoltre, perché la minaccia di una sanzione non rappresenta un vero deterrente, in un ambito in cui è alta l’aspettativa di un guadagno (illecito), bassa la possibilità di essere scoperti, e ancora più remota l’eventualità di una sanzione, visti i tempi troppo lunghi della giustizia, per cui può intervenire la prescrizione. Infine, basta vedere il posizionamento italiano nelle classifiche internazionali sulla percezione della corruzione per renderci conto della cattiva reputazione del nostro paese per molto, troppo tempo.

Ma queste stesse classifiche, oggi, ci danno un’immagine completamente diversa, penso ad esempio all’Indice di Percezione della Corruzione elaborato da Transparency International. Trattandosi di un dato non oggettivo, ma puramente percettivo, sicuramente c’è il rischio di una sovrastima del fenomeno. Tuttavia, anche considerando i limiti di questa misurazione, non si può fare a meno di notare come l’Italia abbia significativamente migliorato il suo ranking, scalando in poco tempo, tra il 2012 e il 2021 ben 14 posizioni.

Ma cosa è successo negli ultimi dieci anni per consentire un così netto miglioramento? È cambiato il quadro giuridico di riferimento, con l’introduzione della legge 190 del 2012 (Disposizioni per la prevenzione e la repressione della corruzione e dell’illegalità nella pubblica amministrazione), che ha comportato un vero e proprio cambio di passo nella lotta alla corruzione, proponendo per la prima volta una strategia di prevenzione e non solo di repressione. E soprattutto, è cambiato l’approccio nei confronti della lotta alla corruzione. Le riforme avviate dalla legge 190 (e poi proseguite nel corso di questi ultimi dieci anni), infatti, hanno affermato un principio importante: la lotta alla corruzione è un problema anche culturale e per questo motivo è importante una strategia che intervenga su più livelli.

Qual è il quadro giuridico italiano e internazionale della lotta alla corruzione?
La legge 190/2012 segna un vero e proprio spartiacque tra un “prima”, in cui era prevalente un approccio repressivo, e un “dopo”, in cui per la prima volta in Italia si mette in atto una strategia preventiva per cercare di ridurre il rischio di corruzione. Optare per un modello di prevenzione, però, implica tutta una serie di conseguenze.

In primo luogo, occorre superare la definizione puramente penalistica del concetto di corruzione, perché in una logica preventiva non si vuole aspettare il momento patologico del reato, ma intervenire prima, per evitare (o ridurre la possibilità) che si verifichi il reato. La corruzione non è un delitto passionale (non leggerete mai un titolo di giornale del tipo: “dirigente che in preda a un raptus accetta una tangente si appella all’incapacità di intendere e di volere”) ma nasce da un freddo calcolo razionale: di conseguenza, concentrarsi sulla dimensione esclusivamente penale impedisce di intervenire sul clima di disprezzo delle regole e di scarsa cultura dell’integrità che favorisce quei comportamenti scorretti, inopportuni e non etici che magari non costituiscono un reato, ma rientrano comunque nella nozione di corruzione amministrativa, più estesa di quella penale. Ampliare quindi la nozione di corruzione fino a farla coincidere con il concetto di maladministration (cattiva amministrazione) consente di intervenire proprio su quei comportamenti scorretti che si nutrono di un clima di illegalità diffusa, e che costituiscono il terreno fertile per eventuali reati.

Di conseguenza, alla nuova definizione del concetto stesso di corruzione corrisponde un nuovo paradigma nella strategia di contrasto, in cui l’attenzione si sposta dal momento repressivo sanzionatorio a quello preventivo e quindi organizzativo e culturale.

Sotto il primo profilo, è evidente che in un’amministrazione ben organizzata (dove i controlli sono funzionali ed efficienti, le regole chiare, le procedure trasparenti), sono più difficili eventuali interferenze di natura corruttiva. Un’organizzazione disfunzionale e poco efficiente, invece, può fornire l’opportunità (il cosiddetto fattore abilitante), a chi non ha una solida soglia etica, di compiere atti corruttivi. Per “blindare” un’amministrazione, quindi, e renderla potenzialmente impermeabile a interferenze corruttive, occorre una concreta strategia di prevenzione contenuta in un Piano, un documento programmatico che prevede specifiche misure dirette a trattare il rischio di corruzione. E questo Piano deve essere realizzato dalla stessa amministrazione, coinvolta quindi direttamente nella gestione del rischio di corruzione.

Ma la vera novità della legge 190/2012, consiste nell’avere introdotto anche una dimensione culturale. La corruzione, come è noto, non è solo un reato, ma è una vera e propria malattia sociale. Di conseguenza, è imprescindibile un approccio che intervenga anche a livello culturale per alzare la soglia etica e la consapevolezza dei dipendenti e renderli in grado di comportarsi correttamente quando si trovano di fronte a un dilemma etico. La legge 190/2012 quindi prevede delle misure “culturali”, quali la formazione e le azioni di sensibilizzazione, che sono espressamente dirette a valorizzare l’etica pubblica e di conseguenza, in una vera e propria strategia della virtù, ridurre il rischio corruttivo.

Le riforme non si sono esaurite con la legge 190 del 2012, ma sono proseguite con numerosi interventi del legislatore, in tema di obblighi di pubblicità e trasparenza (d.lgs 33/2013), sul regime delle inconferibilità e incompatibilità degli incarichi presso le pubbliche amministrazioni (d. lgs. 39/2013); disciplina delle incandidabilità (d. lgs. 235/2012); codice di comportamento dei pubblici dipendenti (D.P.R. 62/2013); nuovo codice degli appalti (d. lgs. 50/2016); accesso civico generalizzato d. lgs. 97/2016, n. 97); tutela del whistleblower, cioè il dipendente che segnala un illecito (l. 179/2017).

Va specificato però che tutti questi interventi del legislatore italiano nascono anche dalla necessità di adempiere a obblighi internazionali espressamente assunti dall’Italia nel momento in cui ha firmato e ratificato alcune importanti convenzioni sul tema, ad esempio la Convenzione OCSE contro la corruzione internazionale (1997), le due Convenzioni promosse dal Consiglio d’Europa (Convenzione civile contro la corruzione e convenzione penale contro la corruzione, entrambe del 1999), e la Convenzione delle Nazioni Unite contro la corruzione (2003), che prevede espressamente la necessità di un approccio preventivo.

È importante citare però anche strumenti di soft law, come ad esempio gli Alti principi promossi dall’Anticorruption Working Group del G20, innovativi strumenti per promuovere l’armonizzazione normativa tra i paesi G20 e la valorizzazione delle buone pratiche in tema di prevenzione e contrasto della corruzione.

Inoltre, vorrei anche ricordare Open Government Partnership, iniziativa multilaterale che unisce governi e società civile allo scopo di adottare politiche pubbliche improntate a trasparenza, partecipazione, lotta alla corruzione, accountability e innovazione della pubblica amministrazione. L’Italia aderisce dal 2011, e ha già partecipato alla realizzazione di quattro Piani d’azione nazionali per il Governo Aperto.

A Gennaio 2022 è stato approvato il Quinto Piano per il biennio 2022-23, prodotto di un processo aperto di co-creazione tra PA e organizzazione della società civile. Tra le PA responsabili per l’attuazione di specifici impegni c’è anche la Scuola Nazionale dell’Amministrazione, che io rappresento nel gruppo di lavoro relativo all’azione 2, Prevenzione della corruzione e cultura della legalità. In particolare, la SNA ha assunto l’impegno di realizzare una Comunità di pratica per Responsabili della prevenzione della corruzione e trasparenza (RPCT), interistituzionale e aperta ai contributi della società civile.

Grazie alla collaborazione di diverse PA (tra cui ANAC, Dipartimento della Funzione Pubblica, Banca d’Italia-Uif, Conferenza delle regioni) e organizzazioni della società civile (tra cui Fondazione etica, Libenter, Libera, The Good Lobby, Transparency International Italia, Re-act), la comunità di pratica ha avviato i lavori a luglio 2022 ed è composta attualmente da circa 160 partecipanti.

La comunità di pratica rappresenta non solo il frutto di una sinergia tra amministrazioni e società civile, ma è un importante strumento per superare quell’isolamento che troppo spesso caratterizza l’attività del RPCT per favorire invece lo scambio e la condivisione di esperienze, e soprattutto la creazione e modellizzazione di buone pratiche nell’ambito della prevenzione della corruzione.

Come si articolano il Piano nazionale anticorruzione (PNA) e i Piani triennali per la prevenzione della corruzione e trasparenza (PTPTC)?
Il nuovo impianto di prevenzione della corruzione prevede un coinvolgimento diretto e attivo di ogni amministrazione, che alla luce di questa “rivoluzione copernicana” introdotta dalla legge 190/2012, diventa parte della soluzione, non più del problema.

Si è scelto infatti un sistema a doppio livello, che agisce a livello nazionale con l’ANAC (Autorità Nazionale Anticorruzione) e a livello locale tramite le singole amministrazioni, allo scopo di trasformare tutte le amministrazioni, e quindi tutti i dipendenti, in agenti del cambiamento, in attori dell’anticorruzione.

Infatti, se a livello nazionale l’ANAC fornisce a tutte le amministrazioni delle indicazioni generali attraverso il Piano Nazionale Anticorruzione (PNA), ogni amministrazione è chiamata a realizzare la concreta strategia di prevenzione della corruzione attraverso un proprio Piano che dovrà tenere conto delle indicazioni del PNA, ma necessariamente dovrà anche andare oltre, calandosi nella singola realtà organizzativa

Fino al 2021, il Piano relativo alla strategia anticorruzione di ogni amministrazione era il Piano triennale per la prevenzione della corruzione e trasparenza (PTPCT), ma recentemente, il d.l. 80/2021, allo scopo di ottimizzare e razionalizzare gli adempimenti delle PA per rispettare gli impegni assunti con il PNRR, ha introdotto un nuovo documento, il Piano integrato di attività e organizzazione (PIAO). Si tratta di una sorta di testo unico della programmazione per superare la vecchia logica a silos: la materia dell’anticorruzione deve quindi necessariamente integrarsi e coordinarsi con le altre azioni della PA (in particolare con il Piano della Performance) avendo come obiettivo finale la creazione e la protezione del valore pubblico.

Quale evoluzione concettuale e normativa ha caratterizzato il concetto di trasparenza?
Sappiamo bene che la corruzione si nutre di opacità e segretezza, e quindi la trasparenza è necessaria per “disarmare” corrotti e corruttori. Ma non è stato facile affermare questo principio nel nostro paese, dove per molto tempo è prevalsa la propensione al segreto, sebbene già nel 1908 Filippo Turati sostenesse che: «Dove un superiore pubblico interesse non imponga un momentaneo segreto, la casa dell’amministrazione dovrebbe essere di vetro».

Solo con la legge 241 del 1990 si è potuto garantire un accesso parziale, episodico e soggettivamente limitato, che però esclude categoricamente ogni possibilità di controllo diffuso da parte dei cittadini sull’operato della PA, dal momento che sono titolari del diritto di questo tipo di accesso solo i soggetti legittimati, cioè portatori di un interesse specifico, concreto, diretto e attuale, corrispondente a una situazione giuridicamente tutelata. È quindi evidente come la legge 241/1990 in realtà non persegua una reale finalità di trasparenza, ma garantisca invece un accesso strumentale, se non addirittura egoistico, perché legato a un interesse personale e non per favorire un controllo democratico sull’amministrazione.

È invece la legge 190/2012 invece, a sottolineare esplicitamente e per la prima volta il collegamento della normativa in materia di trasparenza con la prevenzione della corruzione, ed è il decreto legislativo 33/2013 a introdurre il concetto di accesso civico semplice, per consentire forme diffuse di controllo sul perseguimento delle funzioni istituzionali e sull’utilizzo delle risorse pubbliche, e promuovere la partecipazione al dibattito pubblico.

Tuttavia, anche l’accesso introdotto dal decreto 33/2013 non è assoluto, perché riguarda solo i dati già soggetti a un obbligo di pubblicazione ma, qualora questo obbligo non fosse ottemperato, il cittadino ha il diritto di chiederne la pubblicazione.

La vera rivoluzione è quindi rappresentata dall’accesso civico generalizzato, disciplinato dal d.lgs. 97/2016, che introduce nel nostro sistema il cosiddetto FOIA (Freedom of Information Act) di derivazione statunitense. In questo caso, chiunque, indipendentemente dalla titolarità di situazioni giuridicamente rilevanti, può accedere a tutti i dati e ai documenti detenuti dalle pubbliche amministrazioni (quindi non solo quelli a pubblicazione obbligatoria) nel rispetto di alcuni limiti tassativamente indicati dalla legge, quali gli interessi pubblici e privati giuridicamente rilevanti.

In che modo il codice di comportamento contribuisce alla prevenzione della corruzione?
Il codice di comportamento ha un ruolo fondamentale nella diffusione dell’etica pubblica. Ha una funzione che potremmo definire “didattica”: non rappresenta solo una precisa e puntuale disciplina dei doveri del pubblico dipendente, ma è uno strumento di prevenzione della corruzione che mira a innalzare la sua soglia etica, promuovendo la cultura della legalità.

Il codice di comportamento dei pubblici dipendenti (d.P.R. 62/2013) contiene delle regole generali valide per tutte le amministrazioni, ma i contenuti del codice dovranno poi essere integrati e specificati da ciascuna amministrazione con l’adozione di un proprio codice di comportamento, i cosiddetti codici di amministrazione, che devono essere caratterizzati da un approccio estremamente concreto e pratico, e devono essere scritti con un linguaggio chiaro e semplice per mettere il dipendente nella condizione di capire immediatamente quale sia il comportamento corretto e quale quello sbagliato. Funzione dei codici, infatti, è fornire risposte certe che pongano un limite netto e preciso tra quelli che sono i comportamenti accettabili e quelli che non lo sono, pur non costituendo reato, in una sorta di processo di “giuridicizzazione” dell’etica, dal momento che la violazione dei codici comporta responsabilità disciplinare oltre che civile, penale, amministrativa e contabile.

Importante ricordare poi come il codice di comportamento debba sì essere realizzato dal RPCT (Responsabile per la prevenzione della corruzione e trasparenza) di ogni amministrazione, ma nella fase di realizzazione è fondamentale garantire un coinvolgimento di tutti i dipendenti, che non si devono limitare ad adempiere pedissequamente agli obblighi previsti, ma devono contribuire alla formazione del codice, per poterne poi meglio interiorizzare i contenuti.

Quali ulteriori misure si rendono, a Suo avviso, necessarie per la lotta e il contrasto alla corruzione?
Le recenti riforme hanno sicuramente consentito al nostro paese di fare grossi passi in avanti, ma la strada è ancora lunga. C’è bisogno di nuovi interventi del legislatore, ad esempio per quanto riguarda la regolamentazione delle lobby, del fenomeno del revolving doors, ma anche di chiarimenti sulla disciplina del pantouflage, troppo sintetica e lacunosa. Poi c’è il grave problema della mancata (fino a oggi) recezione della direttiva 2019/1937 sulla protezione del whistleblower nonostante i termini siano scaduti nel dicembre 2021. E occorre anche promuovere una reale integrazione e coordinamento dell’anticorruzione con i settori dell’antifrode e antiriciclaggio (obiettivo che rientra nelle attività della già citata Comunità di pratica istituita presso la SNA).

Inoltre, può destare qualche preoccupazione la riduzione degli obblighi di trasparenza richiesta dal PNRR (e sembra paradossale che tali obblighi siano considerati “norme che alimentano la corruzione) perché se una semplificazione è sicuramente necessaria, ridurre trasparenza e controlli proprio nel momento in cui vengono elargite grosse risorse può far temere una caduta dell’integrità e un aumento dei rischi di corruzione.

Occorre quindi consolidare i progressi fatti negli ultimi anni, senza rischiare pericolose marce indietro, sottolineando il ruolo fondamentale di un approccio preventivo.

Inoltre, è necessario favorire e promuovere la partecipazione civica: il coinvolgimento della società civile è un importante arma contro la corruzione. È ben noto, infatti, che la corruzione trova terreno fertile in un clima generale di sfiducia e rassegnazione, occorre quindi restituire la fiducia ai cittadini promuovendo un’amministrazione trasparente, partecipativa e collaborativa, e quindi favorire la democrazia attraverso un modello di amministrazione aperta. Ben vengano quindi tutte le iniziative dirette a incoraggiare la partecipazione della società civile, come ad esempio la creazione del Forum Multistakeholder per il Governo Aperto, organo che rappresenta la governance della comunità di Open Government Partnership Italia (OGP) ed è composto da rappresentanti delle PA e delle organizzazioni della società civile.

Infine, un’ultima considerazione: la corruzione ruba il futuro e toglie speranza soprattutto ai più giovani, ed è per loro che dobbiamo fare ogni sforzo possibile per arrivare all’eliminazione della corruzione, obiettivo forse utopistico, ma irrinunciabile.

La corruzione, nel suo essere un fenomeno multidimensionale, è un problema soprattutto di ordine culturale, dipendente quindi da variabili metagiuridiche come l’educazione, il contesto sociale, territoriale, l’istruzione e familiare.

Di conseguenza, non si può sperare di sconfiggere la corruzione senza un’efficace azione culturale che stimoli un cambiamento delle mentalità e degli atteggiamenti, soprattutto nelle nuove generazioni, intervenendo con un’esposizione precoce ai concetti di integrità, bene comune, interesse pubblico, cittadinanza attiva.

La formazione ha quindi un ruolo fondamentale, per sensibilizzare, aumentare la consapevolezza etica, diffondere una cultura dell’integrità. A questo proposito non posso non citare una ricerca che stiamo conducendo alla SNA (coordinato dalla prof.ssa Valentina Lostorto e con il prof. Nereo Zamaro) diretta proprio a valutare l’impatto della formazione sulla percezione dell’istituto del whistleblowing: “Formare per trasformare. Amministrazione aperta e modelli formativi innovativi per una più efficace attuazione dell’istituto del whistleblowing.” Si tratta di un progetto sperimentale e decisamente ambizioso, la cui importanza è stata riconosciuta anche a livello internazionale, dal momento che è stato citato come “buona pratica” nel “Compendium of Good Practices on Public Participation and Anti-Corruption Education” promosso dal Gruppo Anticorruzoine del G20, approvato a novembre 2022 al vertice di Bali.

La formazione è quindi cruciale per promuovere un’etica pubblica, ma per cambiare la cultura e la mentalità dominante ci vorranno anni, forse generazioni. Per questo è opportuno anticipare un’educazione all’anticorruzione (o meglio: all’integrità) già alla scuola dell’infanzia per poi rafforzarla alla scuola primaria. Inoltre, questa educazione all’integrità non dovrebbe rimanere confinata nello studio dell’educazione civica, ma dovrebbe avere una dimensione trasversale, che vada oltre i singoli, ottimi, progetti. Non mero trasferimento di conoscenza, ma trasmissione e condivisione di valori allo scopo di promuovere l’interiorizzazione dei valori etici e della cultura dell’integrità.

Valentina M. Donini insegna “Prevenzione della corruzione” presso la Scuola Nazionale dell’Amministrazione dove è anche responsabile scientifico della Comunità di pratica per Responsabili per la prevenzione della corruzione e trasparenza. Ha scritto numerose pubblicazioni su riviste italiane e straniere. Rappresenta la SNA alle iniziative di Open Government Partnership – Italia, e partecipa al processo di co-creazione del Quinto Piano d’azione Nazionale per il governo aperto. Per il biennio 2022-2023 è portavoce, in rappresentanza delle PA, del Forum Multistakeholder per il governo aperto.

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