
Ed è investigando in quell’arco di tempo che si possono trovare indizi interessanti. Ricostruendo l’evoluzione degli umori individuali e collettivi delle generazioni susseguitesi nell’ultimo quarto del Novecento, qualcosa cambia nella psicologia della scelta di un figlio. Una ferita nell’immaginario della società italiana fa deragliare il convoglio della riproduzione sociale e demografica. Ma cosa ha inferto questa ferita? Non una ma tante lacerazioni insieme. La cronaca della seconda metà dei Settanta illumina un intreccio complesso tra eventi e umori collettivi.
Sarebbe invece fuorviante associare a un’azione un’unica, onnicomprensiva intenzione che la preceda e la spieghi causalmente. Le intenzioni sono spesso frutto di una costruzione delle nostre menti. È il fraintendimento della modernità come culmine della libertà di scelta. Pensiamo di scegliere di non avere figli per i carichi materiali connessi, o pensiamo di esercitare una libera scelta di averlo, non condizionata da quadri culturali. L’era della modernità è l’era della scelta. Ma i protagonisti delle culle vuote di rado scelgono serenamente; più spesso non sanno decidersi. E così, di anno in anno, non scelgono. Azioni e intenzioni, apparentemente parti di uno stesso processo decisionale, sono l’esito di trafile differenti: plasmate le intenzioni dai vincoli cognitivi e normativi, forgiate le azioni al fuoco degli stati d’animo sottostanti, che le slegano o le bloccano.
Leggendo le pagine del saggio si coglie un ribaltamento nell’oggetto della riflessione: che non è tanto la scelta di avere o non avere un figlio, quanto piuttosto una “non-scelta”, una incapacità di effettuare una scelta. È così? E perché?
È vero. Ho infatti qualche dubbio sull’idea che il passaggio da procreazione controllata a intenzionale, compiuto nel secondo Novecento, porti necessariamente a un progetto di m/paternità consapevole, frutto di una realizzata cultura della scelta e di una matura cultura della responsabilità. Mettiamola così. Se intorno a una coppia che desidera un figlio tutto congiura contro, perché mai dovrebbe nascere un bimbo? Eppure figli, anche se pochi, ne nascono. Forse allora il ragionamento andrebbe capovolto. In uno studio etnografico recente si sostiene che un figlio oggi, in un contesto di bassa fecondità e di forte investimento materiale ed emotivo, “più che di razionalità riproduttiva (sia) un caso di istanza di razionalità sospesa”.
Il fatto è che in ogni scelta si nascondono due distinti lucchetti da aprire in sequenza. La scelta finale (su quale bene investire, se privilegiare un figlio o altri beni) è solo il secondo lucchetto. Il primo è quello di prendere una decisione, non importa quale. In scelte cruciali come quella di un figlio occorre entrare “nella giusta disposizione d’animo” a prendere una decisione, quale che essa sia: aprendosi a uno stato d’animo di accettazione del rischio e poi, solo poi, valutando il da farsi.
Elster chiama “effetti essenzialmente secondari” i risultati di processi decisionali privi di un legame diretto e consapevole tra intenzione e esito. Avere un figlio è, appunto, un effetto essenzialmente secondario. Maternità o paternità sono perseguibili se e quando si allenta la morsa del controllo della ragione. Viviamo tempi in cui le azioni al buio sono frenate da una sorta di superfetazione del controllo. Non sono pronto, non sono pronta. Ma pronti non si è mai. Raramente le scelte demografiche sono risposte dirette e razionali alle contingenze in cui si formano. Sono più spesso il risultato differito nel tempo di un mutato clima sottostante, in cui soffino umori desideranti invece che umori di crisi.
Perciò non cerco cause dirette di comportamenti infrequenti: mi domando piuttosto se certe titubanti scelte familiari non vadano accostate ad altre manifestazioni di disagio comportamentale, e il rinvio di un figlio, anche se desiderato, non identifichi una condotta di crisi, morbida e silente. In quest’ottica la non-scelta di un figlio diventa l’inconsapevole adesione individuale a un clima collettivo di crisi fiduciaria e di impoverimento dei codici affettivi.
Per inciso, mettendo l’accento su rischi e incertezze della genitorialità, piuttosto che sui benefici che ne discendono dobbiamo annoverarla nella schiera degli interpreti “pessimisti” della crisi demografica italiana?
Un dubbio comprensibile, ma non rispondente al vero. Parlare di scelte elementari, primordiali come quella di un figlio espone al rischio di incorrere in alcuni equivoci. Uno è appunto l’ombra di pessimismo che qualcuno legge nella frase riportata in quarta di copertina: “avere un figlio è una scelta al buio, come un tuffo nel mare di notte”. Ma questa frase non vuole affatto dipingere pessimisticamente la scelta di un figlio; anzi. Sta a indicare una “scelta” che si prende non perché la bilancia tra costi e benefici sembra tendere al pareggio (cosa comunque importantissima!), ma perché è l’azione in sé che ci riempie di senso, quali che siano gli inconvenienti.
D’altronde c’è anche una seconda reazione, per certi versi opposta, di diffidenza verso la demografia quando si propone come ingegneria sociale, come sapere che dall’alto sancisce ciò che va o non va bene “per il bene della popolazione”. Personalmente credo che delle culle vuote non vada tanto enfatizzato il fatto che minacciano l’equilibrio demografico (concetto macro e algido), ma il fatto che sono il sintomo di un malessere diffuso. A dar conto di scelte come quella di non avere figli, più che il bilancino dei costi e dei benefici implicati, serve approfondire le dinamiche di formazione degli stati d’animo sottostanti.
Perché gli stati d’animo sono importanti per capire il collasso delle nascite?
Anzitutto per la particolare natura degli stati d’animo o moods, che sono fenomeni mentali strategici per decifrare logiche non razionali dell’azione. Infatti coinvolgono l’individuo in modo meno intenso delle emozioni ma si prolungano nel tempo, non hanno una causa o un oggetto di immediato riferimento, e sono spie di un malessere del paesaggio interiore più che un segnale d’allarme di un pericolo esterno.
Ma soprattutto perché alcuni di essi – depressione e aggressività, melanconia e apatia, impotenza e angoscia – possono innescare cambiamenti nei comportamenti, non prevedibili con gli strumenti della logica cognitiva ma non per questo in-prevedibili. Perché, se non discendono da eventi precisi accaduti nell’immediato precedente, sono comunque l’esito differito di concatenazioni di eventi passati, che sfocino in quella che De Martino definisce “l’esperienza acuta di un conflitto tra un impulso perentorio a fare qualcosa e il dubbio sconvolgente che nulla v’è da fare”.
Esistono diversi sentieri di ingresso in un mood di crisi. Quello che ci è più familiare è il concatenarsi temporale di più quadri insostenibili, ma soprattutto insostenibilmente prolungati nel tempo senza che si vedano vie d’uscita. L’intrecciarsi di più criticità persistenti quotidiane come ristrettezze economiche, crisi nei legami, disoccupazione, non porta a un punto di rottura se e fino a che possono essere vissute come transitorie; ma la loro cronicizzazione produce effetti devastanti. Il circuito decisionale e performativo inizia a girare a vuoto, come una vite spanata.
Finché subentra una qualche deformazione nello stato d’animo stesso, tutto mirato non più al perseguimento di un obiettivo ma a salvaguardare lo stato emotivo interno, a lenire la percezione di fallimento personale. Così le scelte quotidiane manifestano vari segnali di destrutturazione della razionalità: come l’indifferenza agli stimoli e l’inerzia e apatia; come la perdita di capacità di dare un ordine gerarchico di priorità e consequenzialità alle decisioni da prendere; come il disancoramento delle azioni dalle intenzioni, e di queste dalla valutazione razionale del quadro sottostante; come l’azzeramento di ogni orizzonte di progetto. Stati d’animo di crisi sono insomma il crogiolo in cui si forma una molteplicità di “condotte di crisi”. E tra queste anche la incapacità di assumersi il rischio di un’azione contrassegnata da “incertezza totale”, come quella di avere un figlio.
Non è un caso se la copertina del libro propone una panoplia di maschere africane. Le maschere sono corpi artificiali, che ricoprono e nascondono quelli veri di coloro che li indossano, allo scopo di mostrare e rendere presenti quelle entità (i daimones, gli stati d’animo) che non hanno un corpo visibile e che possono essere percepite solo attraverso un corpo fittizio. La maschera è la veste che indossiamo. Una molteplicità di maschere segnala la molteplicità di stati d’animo, che fanno da tramite tra il nostro “dentro” e il nostro “fuori”, tra il daimon che noi percepiamo e quello che gli altri percepiscono in noi, dandoci un’identità. Maschere – e stati d’animo – che oscillano secondo gli eventi di vita o lo spirito del luogo o lo spirito del tempo. Le maschere sono stati d’animo perché gli stati d’animo sono maschere.
Una buona parte del suo libro tratta però degli effetti degenerativi di stati d’animo non sulle persone direttamente colpite, bensì sulle generazioni immediatamente successive. Come avviene allora questo slittamento nel tempo?
Vero. Se lo scenario generatore di crisi persiste molto a lungo, esso può “intorbidare il liquido amniotico”, per così dire, non solo dell’immaginario collettivo – la fiducia negli altri, nel futuro, nelle relazioni affettive – dell’individuo e della coorte che lo subisce, ma può anche incidere in altri modi sull’immaginario delle coorti successive. La sequenza degenerativa può dispiegare i suoi effetti oltre il corso di vita della prima persona coinvolta, ricadendo sulla vita dei nati in anni successivi (chiamiamoli fratelli minori), o addirittura su individui nati decenni dopo ma straordinariamente legati all’individuo zero: i loro figli.
La parte centrale e più consistente del libro è appunto dedicata a ricostruire, negli anni critici tra metà Settanta e fine Ottanta, alcune trappole, effetti imprevisti e non desiderabili, nella trasmissione del sentire collettivo ai fratelli via via minori e, in ultima istanza, ai figli. Non entro nel dettaglio su questa investigazione lunga e articolata, lasciandone l’onere a chi vorrà leggerla. Va precisato solo che l’investigazione non si sviluppa – per una scelta di metodo – con la scatola degli attrezzi dell’analisi statistica ma con quella (apparentemente più arbitraria ma più penetrante e comprendente) di categorie teoricamente e storicamente dense come quelle di doppia presenza, flessibilità, reversibilità, situazioni paradossali (per i fratelli minori) e ancora (per i figli) di imprinting, esperienza, identità, codici affettivi.
Quel che emerge è una cruciale differenza quanto al tipo di “passioni tristi” generate nei tornanti coinvolti in prima persona o tra i loro fratelli minori, o tra i loro figli. E di conseguenza una differenza sostanziale nei rimedi per sanarle.
Lei sostiene che politiche di sostegno alle giovani coppie e di riequilibrio di genere non servono, per ridare slancio alle nascite?
No, affatto. Prendiamo lo straordinario e faticoso lavoro parlamentare che ha portato a un assegno unico per figli. Un risultato da approvare incondizionatamente. Resta solo il dubbio che politiche di sostegno alle nascite basate su interventi diretti su lavoro, servizi, riequilibri di genere non siano sufficienti per rilanciare le nascite. Un invito insomma a non farsi soverchie illusioni. D’altronde non è questo lo scopo primario di queste politiche, primario è ripristinare condizioni di pari giustizia e opportunità; e se questo scopo venisse raggiunto ciò basterebbe e avanzerebbe, anche se non producesse come una bacchetta magica il riequilibrio delle nascite.
Molti e autorevoli studiosi sostengono però che è proprio quel pacchetto all-inclusive di riforme ad aver portato la Germania a un rialzo netto della fecondità: perché allora in Italia non dovrebbe funzionare? Per due ordini di motivi. In primo luogo, quanto più a lungo si sarà rimandata una risposta concreta e radicale (qualcosa di più di quel pacchetto di cui si è detto) alle domande delle nuove coorti, tanto più la loro eventuale soluzione, per un normale effetto isteresi, avrà effetti ritardati e non certi sulla scelta di avere un figlio.
Ma soprattutto credo si sottovaluti il fatto che il caso italiano è minato alle fondamenta da una doppia – e ben radicata – degenerazione dei climi fiduciari e dei codici affettivi. Entrano cioè in gioco due questioni capitali che segnano lo spartiacque della cultura Latina e Mediterranea (probabilmente coinvolgendo anche le sponde Sud e Est del Mediterraneo) assai più che altri quadranti occidentali.
Sono queste sedimentazioni nel tempo che rendono più difficile sbrogliare la matassa, ripristinare i “giorni del rischio” e far sì – diceva Turoldo – che i bambini nascano ancora. Non si induce direttamente una ripresa demografica come non si comanda al vento. Davvero non sono facili da pilotare, gli stati d’animo che predispongono a scelte al buio.
Un doppio ‘cultural divide’ insomma, che renderebbe meno efficaci politiche di sola redistribuzione delle risorse. In cosa consiste? E come disinnescarlo?
La prima trappola, che si sedimenta e si solidifica tra le generazioni, è quella di un collasso del clima fiduciario sia tra uomo e uomo e tra uomo e donna, che nella proiezione verso il futuro. Lo stallo delle spinte emancipatrici volte a ridefinire sia i rapporti di lavoro che quelli familiari è stato, in quei cruciali anni Settanta-Ottanta, forse più secco e pesante in Italia che altrove: così la vanificazione da parte delle forze economiche di un’organizzazione del lavoro più flessibile e la dura reazione della filosofia patriarcale a una transizione dei ruoli maschili e femminili hanno messo in folle la macchina di uno sviluppo a misura d’uomo. Il risultato è quella sorta di “grande gelo” del clima fiduciario (tra uomo e uomo, tra uomo e donna) che vediamo intorno a noi. L’immagine di giovani “introflessi in [loro] stessi fino a non desiderare un futuro che non sia il proprio”, suggerita di recente da Loredana Lipperini, combacia con gli assembramenti metropolitani o periurbani agli happy hour descritti in “Preferirei di no”: “grappoli di giovani col calice o il boccale in mano, tutti rigorosamente – complici i cellulari in azione – orientati altrove, i volti apparentemente affacciati sul mondo esterno delle relazioni tra pari, gli occhi rovesciati all’interno, introflessi verso un mondo virtuale”.
Disinnescare questa trappola impone di decidersi a incrinare il patto di reciproca collusione che (quasi) ogni italiano firma con gli altri. Attivare regole sociali di fair play sembra un’utopia, eppure non deve esserlo, se in altri paesi occidentali la trasparenza delle regole è quantomeno più diffusa. Se oltre al supporto materiale i giovani percepissero anche segnali che quel groviglio di clientelismo, complicità, non trasparenza che li circonda potesse essere smantellato (qualcuno, in questi giorni, declina il groviglio come csip, “corruzione, stupidità, interessi costituiti” e inizia a mettere seriamente in agenda politica il problema), forse potrebbe baluginare nelle loro teste l’idea che almeno un po’ del loro destino è davvero nelle loro stesse mani. Forse, ai primi segnali di una svolta di questo genere, il ‘rischio’ di un figlio tornerebbe ad essere preso senza ansia in considerazione.
La seconda questione capitale è l’incapacità del maschio Mediterraneo (più che altrove) di fare suoi i codici affettivi e corporei non della sopraffazione ma della tenerezza e del senso paterno. Codici che iniziano ad affiorare nelle nuove leve urbane, ma faticano a farsi largo nella cultura di massa, che ancora paga a chi resta complice il premio del dividendo patriarcale. Un dividendo di cui ogni maschio fruisce i benefici, non opponendosi alla deriva anche feroce con cui è stata tarpata la spinta femminile a legittimare un modello di vita in cui convivano – in ogni individuo, uomo o donna – l’esperienza del mondo strumentale e di quello affettivo, del mondo ‘maschile’ e di quello ‘femminile’.
Sbloccare questo stallo è davvero vaste programme, dato che il blocco prende forma di paradosso: dismettere i codici di sopraffazione maschili imporrebbe di accettare il rischio della perdita dell’immagine ‘virile’ dell’uomo, ma non c’è ancora – nella cultura Mediterranea più che altrove – consapevolezza che senso materno e tenerezza non escludono mascolinità. Per questa seconda, capitale, questione, occorrerebbe una cesura più drastica: come quella di riprendere l’antica proposta di un servizio civile che obblighi i giovani maschi a ‘prendersi cura’ delle componenti fragili della popolazione, accudendone il corpo. Il contatto – è l’intuizione straordinaria di Bowlby – genera infatti l’istinto dell’accudimento, che a sua volta può riaccendere il desiderio di un figlio. Il grimaldello della tenerezza può scardinare l’incapacità dei giovani uomini di dare voce al registro affettivo della propria esistenza, perché “se Eros è desiderio, Tenerezza è la sua porta d’accesso”.
Giuseppe A. Micheli ha tenuto per oltre trent’anni la cattedra di Demografia alle università di Palermo, Milano Cattolica e Milano Bicocca. In oltre duecento pubblicazioni scientifiche si è occupato di povertà e logiche dell’azione, generazioni e malattie mentali, matematica delle popolazioni e antropologia della famiglia e della parentela. Tra i volumi pubblicati I nuovi Catari. Analisi di un’esperienza psichiatrica avanzata (Il Mulino, 1982), Cadere in povertà (Angeli, 1999), Strong Family and Low Fertility: a Paradox? (Kluwer, 2004, con G. Dalla Zuanna), Logiche affettive (Utet, 2010).