“Predire il futuro. I filosofi antichi e la divinazione” di Luciana Repici

Prof.ssa Luciana Repici, Lei è autrice del libro Predire il futuro. I filosofi antichi e la divinazione, pubblicato dalle Edizioni della Normale: che rilievo assunse, nel pensiero antico, il tema della divinazione?
Predire il futuro. I filosofi antichi e la divinazione, Luciana RepiciNon è forse esagerato dire che il desiderio di conoscere in anticipo ciò che accadrà è nato con l’uomo e ne accompagna in certo modo l’esistenza, tra scetticismo e speranza, a livello personale o collettivo. Gli uomini antichi non fanno eccezione; anzi, presso popoli e civiltà del vicino e dell’estremo Oriente, predire il futuro era una pratica apprezzata e riconosciuta a livello sociale e la divinazione si presentava come un sapere con regole e procedimenti propri e ambizioni di razionalizzazione. In terra di Grecia invece lo statuto della divinazione appare molto meno definito: meno rilevata è la documentazione sulle diverse pratiche; messa in discussione è la figura dell’indovino, sia a livello sociale sia dal punto di vista dell’esibizione di sapere; dibattuta è la dipendenza delle predizioni da rivelazioni divine, nonché l’attendibilità dei segni a partire dai quali gli indovini formulano previsioni su ciò che non è ancora accaduto. È questo il raggio d’azione dei filosofi, le nuove figure di intellettuali comparse sulla scena del mondo sullo scorcio del VI secolo a.C.

Quali riflessioni sviluppò Socrate intorno alla divinazione?
Che cosa ha veramente detto Socrate è, in generale, materia del contendere fin dall’antichità, per la nota ragione che Socrate non ha lasciato opere scritte. Esiste invece una vasta letteratura socratica, di autori cioè che hanno scritto di e su Socrate per averlo ascoltato direttamente o per aver sentito indirettamente parlare di lui e del suo modo di fare filosofia. Ciò vuol dire che esistono immagini di Socrate diverse a seconda di quello che i diversi autori intendevano come pensiero di Socrate e quindi la ricostruzione della sua riflessione non può prescindere dal caleidoscopio di ricostruzioni che ne sono state date. Anche sul tema della divinazione Socrate è oggetto di narrazioni diverse; solo in parte convergenti o complementari, esse ne attestano tuttavia l’attenzione per aspetti rilevanti del tema, quali l’esistenza di sogni predittivi e di segni come il daimonion capaci di incidere sulla condotta di vita. Nella narrazione del ‘socratico’ Senofonte, Socrate è introdotto a sostenere anche una giustificazione teorica della divinazione fondata sull’esistenza di una divinità provvidente che, nella sua benevolenza, si prende cura in ogni modo del benessere degli uomini. Ma non mancano neppure narrazioni risalenti ai ‘socratici’ cosiddetti ‘minori’, ossia a filosofi come Cinici, Cirenaici e Megarici, che nel nome di Socrate facevano filosofia e si consideravano autentici eredi del suo pensiero. In queste narrazioni a prevalere è piuttosto il volto critico e problematico del metodo socratico e la divinazione è messa in discussione dal punto di vista della sua utilità etico-pratica, della sua sostenibilità sul piano logico-argomentativo e della sua attendibilità sul piano conoscitivo. Il Socrate di Platone costituisce un caso ancora più complesso. Poiché Platone ne fa infatti il portavoce del suo pensiero, oltre che incarnazione del filosofo ideale, non è facile distinguere tra ciò che può essere attribuito al Socrate storico e ciò che invece può essere stata elaborazione platonica, Sul tema della divinazione alcune costanti comuni potrebbero tuttavia essere individuate nell’indagine sull’eventuale valore della divinazione come tecnica, ossia sapere competente; sull’eventuale portata gnoseologica di predizioni ispirate dalla divinità; sulla collocazione della divinazione nella polis, nonché sul rapporto da porre tra il sapere del filosofo e il presunto sapere dell’indovino.

Quale interpretazione del fenomeno divinatorio emerge in Platone e Aristotele?
Il debito di Aristotele nei confronti del pensiero di Platone è questione annosa, che, connessa a un’interpretazione ‘evolutiva’ della filosofia aristotelica da una fase di iniziale platonismo al successivo distacco critico della maturità, pone Aristotele in una sorta di stato sospeso tra continuità e discontinuità. In realtà, il confronto storico-critico con Platone e il platonismo sembra una costante del pensiero di Aristotele lungo tutto l’arco della sua riflessione, mentre non siamo abbastanza informati sulle opere cosiddette giovanili, non pervenute integralmente ma attraverso testimonianze indirette e frammentarie, per poterle considerare il documento di un’adesione a tesi platoniche, poi abbandonate. Di tutto ciò, la trattazione del fenomeno divinatorio, con i suoi risvolti psicologici, etici, gnoseologici, fisici e metafisici, costituisce un banco di prova non marginale: il problema è comune – definire la divinazione, verificare le sue eventuali ragioni – ma emergono significative differenze. Un aspetto particolarmente sviluppato da Platone è se la divinazione sia una tecnica, cioè un sapere qualificato, con oggetti e metodi propri e utilità pari a quella di medicina e agricoltura, o se invece l’indovino parli solo, come il poeta, per ispirazione divina, cioè per bocca d’altri e senza sapere cosa dice. Essa potrebbe, tuttavia, non essere esclusa dal contesto della polis a condizione che non avanzi pretese di comando, ma obbedisca ai decreti della scienza politica e se l’ispirazione divina, da cui la predizione divinatoria dipende, induce nell’indovino uno stato di «divina follia», quindi di uno stato di alterazione mentale non patologica. Il che darebbe alle sue predizioni sufficiente garanzia di veridicità, non inferiore al livello di verità che, anche riguardo al futuro, il filosofo attinge in sonno per opera e virtù della sua sola ragione. Per Aristotele invece, i cui unici scritti conservati sulla questione riguardano specificamente sogni e divinazione durante il sonno, non solo l’interprete dei sogni non ha alcuna competenza tranne quella di stabilire un’eventuale corrispondenza tra l’immagine di un oggetto sognato e l’oggetto reale; ma il punto cruciale è se l’indovino sia legittimato a fare predizioni sul futuro. Eventi non ancora accaduti potrebbero infatti accadere in seguito secondo possibilità contrarie; le predizioni sarebbero quindi smentite dai fatti, a meno che non si abbia conoscenza causale di ciò che avverrà. In tal caso però gli eventi futuri accadrebbero necessariamente e l’effetto deterministico riguarderebbe anche ciò che dipende da noi fare o non fare, il corso delle nostre stesse azioni. Non ci sono per Aristotele interventi o ispirazioni divine all’origine di un sogno che preannuncia un certo evento; può invece accadere che un sogno di questo tipo si presenti, ma solo per caso e accidentalmente, cioè né sempre né per lo più, mentre l’evidenza mostra che gli uomini ai quali può accadere di avere un sogno veridico sono soggetti fuori di senno e mentalmente disturbati, non ispirati dalla divinità o, se lo sono, sono solo sognatori fortunati. È su questo terreno che le divergenze da Platone toccano un estremo. Per l’ultimo Platone la divinazione, anche quella nel sonno attraverso i sogni, è il dono di una divinità provvidente per sopperire alla stoltezza di uomini incapaci altrimenti di attingere verità future, in un universo progettato e governato da un’intelligenza demiurgica. Per Aristotele invece i sogni sono prodotti dell’immaginazione, una capacità dell’anima a sua volta collegata alla facoltà percettiva. Sono quindi fenomeni che riguardano congiuntamente anima e corpo, sullo sfondo di una natura teleologicamente, non provvidenzialmente ordinata.

Quale considerazione avevano, della divinazione, l’epicureismo e gli Stoici?
È un contrasto radicale, quasi un’opposizione di contraddizione, quello che in epoca ellenistica si può registrare tra Epicurei e Stoici in fatto di divinazione. Gli Epicurei sono infatti compatti nel sostenere con il loro fondatore che la divinazione in tutte le sue forme – oracoli, profezie, auspici, prodigi, presagi, invasamenti, visioni, sogni – è impossibile e comunque inutile, anzi dannosa, anche ammesso che fosse possibile, per le scelte sulle quali orientare la propria condotta di vita. All’opposto, per gli Stoici la divinazione in tutte le sue forme non solo è possibile, anzi necessaria ma anche utile e vantaggiosa per la vita. L’onere della prova però non fu per loro un compito facile e senza costi: la conoscenza anticipata del futuro apriva delicati problemi gnoseologici ed etici e gli Stoici si trovarono a dover affrontare casi di dissenso interni alla scuola, oltre alle critiche esterne provenienti in particolare da Accademici scettici sul piano formale ed Epicurei sul piano dei contenuti. Il contrasto di fondo con gli Epicurei è imperniato sulla concezione della divinità e il suo rapporto con il mondo e con gli uomini. In un suo ragionamento, divenuto un riferimento nella scuola, lo stoico Crisippo mostrava che l’esistenza della divinazione è indubitabile perché è da collegare all’esistenza di dèi provvidenti, evidente non solo nella mirabile perfezione del cosmo intero, ma anche nella benevolenza mostrata verso gli uomini nell’organizzare ogni cosa per il loro bene. La divinazione era solo un altro segno di questa sollecitudine divina. Per gli Epicurei però il punto debole dell’argomentazione, evidenziato in modo categorico dalle critiche di Lucrezio, era proprio questo: se non esistono dèi provvidenti – com’è chiaro dall’esistenza del male nel mondo e dal fatto che una volontà d’intervento confliggerebbe con il requisito di beatitudine che si attribuisce alla natura divina – che cosa garantirebbe l’esistenza della divinazione? Per gli Stoici inoltre era necessario postulare che la divinità avesse disseminato segni in grado preannunciare il futuro nella natura esterna e nella natura dell’anima, come nel caso dei sogni divinatori. Su questo essi basavano anche la loro risposta ad alcuni aspetti problematici. Uno era l’esistenza di predizioni false, cioè non andate ad effetto: data la fonte da cui provengono, i segni non mentono e le immagini dei sogni non hanno un grado di realtà diverso da quello delle rappresentazioni allo stato di veglia; l’eventuale errore nasce da cattive interpretazioni degli indovini. Un altro era legato al fatto che le predizioni non restituiscono una conoscenza causale degli eventi futuri, pena ovviamente lo scivolamento nel determinismo. È infatti l’ispirazione divina che sopperisce a qualunque carenza gnoseologica di questo speciale sapere, che è comunque umano e quindi fallibile. Se però – come mostravano gli Epicurei – nella natura delle cose non ci sono presenze divine, ma solo atomi e vuoto e se l’unica forma di conoscenza infallibile è solo quella sensibile, la divinazione stoica perde altri pezzi. In questa prospettiva, infatti, non ci sono nella natura esterna segni sui quali gli indovini potrebbero basarsi per formulare le loro predizioni e l’unico banco di prova della veridicità delle immagini oniriche sono gli oggetti realmente esistenti e percepiti, non quelle rappresentazioni di essi che si presentano agli occhi del sonno.

Su quali basi si articolò la demolizione scettica dell’astrologia?
È incerto se anche le critiche all’astrologia, riferite da Cicerone nel contesto della demolizione della divinazione stoica in generale e nella sua discussione sul fato, risalgano a Carneade di Cirene e agli intenti della sua metodologia confutatoria di matrice scettica: ribaltare nell’opposto l’opinione dell’interlocutore, non però allo scopo di contrapporre ad essa una tesi propria, bensì indurre l’interlocutore a riconoscere l’insostenibilità della sua opinione o a contraddirsi. Da Cicerone si può comunque desumere che le critiche all’astrologia si appuntavano, da un lato, sulle presunte competenze astronomiche degli astrologi e sulla difficoltà di spiegare come effetti degli influssi astrali le molteplici differenze, nella costituzione e nei modi di vivere, riscontrabili tra gli uomini; dall’altro, sugli esiti deterministici che avrebbe far dipendere il destino di ognuno dalla necessità dei moti degli astri e delle loro configurazioni e relazioni reciproche. In Sesto Empirico (II-III sec. d.C.), erede e interprete dello scetticismo pirroniano, sotto attacco è non l’aspetto filosofico della predizione astrologica (l’impossibilità di sfuggire a un destino scritto nelle stelle), ma gli aspetti tecnici – le presunte competenze, le procedure e gli strumenti di misurazione, calcolo e raccolta dei dati oroscopici, le complicate classificazioni e divisioni della disciplina – a conferma della presunzione, tutta dogmatica, di fare dell’astrologia un sapere con fondamenta certe e stabili.

Luciana Repici, già professore ordinario di Storia della filosofia antica nell’Università di Torino, si occupa, oltre che di logica e teoria delle argomentazioni, di filosofia della natura, con studi su fenomeni della vita animale come la percezione, il sonno e i sogni e sulle piante. I suoi interessi si estendono da Aristotele e dalla prima generazione dei suoi allievi, da Teofrasto a Stratone di Lampsaco, alle filosofie ellenistiche fino all’epoca romana. Tra le sue pubblicazioni, La logica di Teofrasto. Studio critico e raccolta dei frammenti e delle testimonianze (1977); La natura e l’anima. Saggi su Stratone di Lampsaco (1988); Aristotele e i sogni: Il sonno e la veglia, I sogni, La divinazione durante il sonno (2003); Teofrasto. Metafisica (2013); Uomini capovolti. Le piante nel pensiero dei Greci (20001; 20202); Nature silenziose. Le piante nel pensiero ellenistico e romano (2015); Aristotele, La fiamma nel cuore: Lunghezza e brevità della vita, Gioventù e vecchiaia, La respirazione, La vita e la morte (2017). Sulla presenza della botanica aristotelico-peripatetica in epoche successive, ha pubblicato i saggi Teodoro Gaza traduttore e interprete di Teofrasto (2003) e Il De plantis pseudo-aristotelico nella tradizione antica e medievale (2009).

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