“Povertà femminile nel medioevo. Istantanee di vita quotidiana” di Maria Paola Zanoboni

Dott.ssa Maria Paola Zanoboni, Lei è autrice del libro Povertà femminile nel medioevo. Istantanee di vita quotidiana edito da Jouvence: quanto era diffusa la povertà femminile nel medioevo?
Povertà femminile nel medioevo. Istantanee di vita quotidiana, Maria Paola ZanoboniPer l’epoca medievale è impossibile avere un quadro preciso, corredato di dati numerici e statistici, sulla povertà in generale, e meno che mai su quella femminile, che sfugge ancora di più alle fonti, difficoltà a cui si aggiunge quella di definire in modo univoco il concetto stesso di povertà. A parte qualche rarissima indicazione (sappiamo ad esempio che a Bergamo, negli anni ’80 del ‘200, dei 286 assistiti dalla confraternita della Misericordia, 141 erano donne, 108 uomini e 37 bambini), per il resto si può procedere soltanto attraverso gli scorci che emergono casualmente dalla documentazione più disparata, lasciando trapelare “istantanee” di vita quotidiana sottratte alla polvere del tempo.

Va sottolineato però che, contrariamente a quanto comunemente si pensa, gli studi più recenti hanno evidenziato come le donne sole non fossero necessariamente povere e incapaci di mantenersi, ma la situazione variava moltissimo da caso a caso, in rapporto all’età, al contesto sociale ed economico, alla condizione specifica di ciascuna. Persino l’iconografia offre molto più frequentemente immagini di donne nel pieno delle loro capacità lavorative piuttosto che di mendicanti (il libro contiene tra l’altro una decina di immagini a colori tratte da particolari di affreschi e da miniature poco conosciute).

A quali cause era da imputarsi la povertà femminile?
Esistevano, nel medioevo come oggi, specifiche fasi o congiunture sfortunate dell’esistenza (malattia, invalidità, vecchiaia, madri sole con neonati), o settori lavorativi particolarmente disagiati (come il bracciantato agricolo), che potevano gettare le donne (e parimenti gli uomini), nella miseria più nera. La situazione peggiore era quella della disabilità (cieche e paralitiche in primo luogo), che comportava la perdita del lavoro e quindi l’impossibilità di condurre una vita decorosa, portando invariabilmente alla mendicità sia le donne che gli uomini.

Eppure, anche nei frangenti peggiori, alcune donne riuscivano sorprendentemente a risollevarsi grazie ad un’oculata gestione delle proprie misere risorse, o con l’aiuto di attive reti di solidarietà femminile che qualche volta riuscivano persino a sottrarre all’abisso della malattia e della disperazione le più sfortunate. Pur nell’estrema variabilità dei contesti, anche tra i ceti più umili e nei mestieri meno retribuiti (filatrici, balie e domestiche cittadine), una donna sola riusciva talora a sopravvivere col proprio lavoro, e qualche volta persino ad aiutare parenti più poveri. Questo si verificava anche perché molte di loro, pur in situazione precaria, riuscivano a mettere in atto soluzioni per sfuggire alla povertà integrando il proprio reddito con gli introiti derivanti dall’affitto di una casa, di una stanza, di un terreno, o con l’acquisto di titoli del debito pubblico, grazie ai risparmi di momenti migliori.

Come cambiava la povertà femminile tra campagne e città?
La povertà femminile è sicuramente maggiormente rintracciabile nelle campagne, sia italiane che europee. I casi più eclatanti sono documentati in regioni geografiche assai distanti fra loro, come la Toscana tre/quattrocentesca (soprattutto l’aretino), e le campagne inglesi del ‘200, dove le braccianti agricole che lavoravano a volte portando sulle spalle i propri neonati, potevano ingaggiare lotte furibonde per un tozzo di pane, o morire di stenti, durante l’inverno, scivolando in canali ghiacciati. Dalla documentazione emergono mogli di contadini che non avevano nulla per sostentare la famiglia, balie di campagna (remunerate molto meno di quelle cittadine), così denutrite che non riuscivano ad allattare i piccoli loro affidati; filatrici sottopagate, derubate con vari trucchi dai lanaioli che commissionavano loro il lavoro, o costrette a vendersi per riscattare l’abito della festa.

Molto migliore invece la condizione di filatrici e balie cittadine, meglio remunerate e che talvolta riuscivano a vivere del proprio lavoro, anche se in periodi di guerre o carestie la situazione si faceva più drammatica proprio nelle città, costringendo le madri a vendere le figlie bambine per un po’ di nutrimento.

Nelle città poi, le donne di tutti i ceti sociali di tutta Europa, fra il XIII e il XVI secolo erano coinvolte in tutte le possibili attività lavorative, dal tessile ai lavori più pesanti come l’edilizia e le miniere, e ad ogni livello, dalla manovalanza all’imprenditoria. L’imprenditoria femminile è anzi documentata in tutta Europa e in tutti i settori (tessile, edilizia, editoria, armatrici di navi, mercantesse pubbliche a livello internazionale), sempre nelle città (da Genova a Venezia, Milano, Padova, Verona, Napoli, Palermo, Messina, Trapani, Marsiglia, Barcellona, Bilbao, Rouen, Londra, Parigi). Le donne erano del tutto autonome e in grado di autofinanziarsi con la propria dote, o vendendo abiti e gioielli, pur di avviare lucrosi affari. La loro versatilità ed intraprendenza le mettevano cioè spesso al riparo dalla povertà. Ma di questo ho parlato nel mio precedente libro: M.P.Zanoboni, Donne al lavoro nell’Italia e nell’Europa medievali (secc. XIII-XV), Jouvence 2016.

Quali forme di assistenza e di tutela esistevano a favore delle donne povere?
Sorprendentemente, in soccorso delle donne in difficoltà, oltre alle istituzioni assistenziali e alle reti solidaristiche, intervenivano talvolta statuti cittadini e rurali, provvedimenti governativi, datori di lavoro, sia pubblici che privati (grandi cantieri, arsenali, istituzioni “statali” come la Zecca veneziana), e in questo senso erano rivolti persino gli orientamenti giurisprudenziali del diritto canonico. C’erano istituzioni come l’Arsenale di Venezia (il cantiere pubblico veneziano) o la Fabbrica del Duomo di Milano, che prevedevano persino una pensione per la vedova dell’operaio morto per infortunio sul lavoro; statuti rurali che consentivano alle donne in attesa di un bambino di entrare nella proprietà altrui e nutrirsi dei frutti degli alberi. Il consiglio direttivo di una miniera di sale francese (secc. XV-XVII) giunse persino ad accordare la pensione di vecchiaia a donne di almeno 60 anni che lavorassero da più di 40 …

La famiglia invece non sempre era di aiuto: vedove un tempo facoltose si riducevano in povertà perché gli eredi dei mariti rifiutavano di restituire loro la dote; ragazze disabili di famiglie agiate venivano abbandonate dai parenti sulla tomba del santo dove erano state accompagnate col pretesto di chiedere un miracolo; mogli paralitiche venivano costrette dai mariti a mendicare per contribuire ugualmente al reddito familiare.

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