
La terza classe di mutazioni socioculturali concerne la dimensione economico-industriale del cinema. In questa prospettiva l’industria cinematografica, nell’intreccio tra società di produzione, distribuzione, esercizio, ha contribuito a modellare l’esperienza sociale del cinema, di volta in volta contribuendo a definire il perimetro delle pratiche con cui ci relazioniamo al cinema.
Queste tre classi di trasformazioni socioculturali naturalmente sono distinte solo per una questione di chiarezza. Ma sono profondamente, inestricabilmente intrecciate e assumono configurazioni molto diverse da Paese a Paese e da epoca a epoca.
Insomma, il cinema – inteso come medium tecnologico, intreccio di culture, industria – è un fattore decisivo del cambiamento socioculturale, ma è, a sua volta, assai sensibile a recepire i processi di cambiamento nella società.
Qual è stato l’impatto dei media e delle tecnologie digitali sulle pratiche della spettatorialità cinematografica?
La ringrazio per questa domanda, perché mi consente di chiarire un nodo centrale della mia ricerca. Mi consenta però una premessa. Rispetto all’impatto delle tecnologie digitali sul medium cinematografico, nel corso degli ultimi dieci-quindici anni, abbiamo assistito a un affollamento di analisi, che possiamo ricondurre a due posizioni di massima. Da una parte si sono schierati quanti hanno parlato a più riprese di un’autentica rivoluzione, che avrebbe cambiato radicalmente il cinema, trasformandolo in qualcosa di ontologicamente diverso da quello che abbiamo conosciuto negli ultimi centoventi anni. Dall’altra parte c’è chi ha preferito concentrarsi sugli elementi di continuità tra il cinema analogico e quello digitale. Io ho provato a lavorare su un’altra pista, su un altro paradigma, quello della “continuità nella rottura”, cioè di una strutturale propensione del medium cinematografico al cambiamento. Il cinema, nel corso della sua storia, ha dovuto reagire a intervalli regolari a più traumi tecnologici: il sonoro, l’immagine videoelettronica, l’home video. Questa capacità di fronteggiare l’innovazione tecnologica, rielaborandola all’interno dei propri statuti espressivi, ha fatto sì che il cinema diventasse un medium continuamente pronto a reinventarsi, a riarticolarsi attorno all’insieme di tecniche, pratiche, processi e dispositivi tecnologici di volta in volta disponibili. Dunque, la digitalizzazione del cinema si inserisce in questa ampia storia di traumi che il medium ha dovuto affrontare e assorbire nel corso dei decenni.
Venendo alla Sua domanda, anche la spettatorialità cinematografica risulta profondamente influenzata dall’avvento dei media e delle tecnologie digitali, ma tenendo presente sempre che lo spettatore filmico è stato abituato, anche nell’era analogica, a sperimentare forme di consumo diverse dalla sala, come la visione in televisione e le videocassette. In altri termini, lo spettatore di film è sempre stato un soggetto tecnologicamente attivo, impegnato in quel processo di domestication così ben descritto da Roger Silverstone ed Eric Hirsch. Nell’era digitale, questo processo di “addomesticamento” delle tecnologie e dei media diventa più intenso, stratificato e complesso per lo spettatore cinematografico. I contenuti audiovisivi possono viaggiare su più dispositivi e piattaforme, cosicché allo spettatore è richiesta un’enorme capacità di apprendimento per muoversi in piena consapevolezza tra tutte le opportunità che il mediascape gli offre per godere di esperienze di consumo gratificanti. Il DVD, lo streaming, il digital download, ma anche la videoregistrazione digitale, sono esempi di modalità di relazione con l’immagine filmica digitale che richiedono un apprendistato, un allenamento. Tuttavia, il consumo è solo una delle dimensioni del rapporto tra spettatore e cinema nell’era digitale. Grazie alla potenza delle culture partecipative, di cui ha compiutamente scritto Henry Jenkins, lo spettatore si trova al centro di molteplici flussi di esperienza. I pubblici diventano parte di tutte le fasi di vita del cinema: il digitale ha reso l’esperienza del film più piena e coinvolgente. Già a partire dalla promozione del film, le major cercano l’engagement delle audience attraverso la gamification, i contest, gli eventi live, creando così attesa (hype) e rumore (buzz) intorno all’opera che uscirà nei mesi o nelle settimane successive. Lo spettatore è poi parte integrante della produzione, soprattutto di pellicole indipendenti: le campagne di crowdfunding, in questo senso, sono uno degli strumenti di cui egli può disporre per permettere l’esistenza di progetti non mainstream, spesso in cambio di gratificazioni come l’invio in anteprima del file o del DVD o l’apparizione nei titoli di testa. E ancora, i pubblici, nelle diverse configurazioni che assumono, partecipano attivamente all’ecologia della distribuzione audiovisiva digitale, contribuendo con i canali informali – troppo semplicisticamente ridotti al concetto di “pirateria” – ad assicurare una qualche forma di circolazione a opere il cui accesso sarebbe stato altrimenti limitato da barriere geografiche e commerciali. Analogamente, pratiche come il fansubbing sono una testimonianza concreta della dimensione globale della postspettatorialità contemporanea, che è capace di espandere gli spazi di circolazione di un’opera bypassando le restrizioni imposte dai vincoli legali e proprietari, promuovere attività cooperative, persino porre le basi per una professionalizzazione dell’attività di traduzione e sottotitolazione. Ancora, la digitalizzazione e satellitarizzazione delle sale, unitamente a progetti imprenditoriali lungimiranti come Movieday, pongono le basi per un ripensamento della programmazione, in due direzioni. Per un verso c’è una tendenza a trasformare la programmazione in un palinsesto aperto a eventi live, concerti, balletti, mostre d’arte, documentari. Per l’altro verso gli spettatori possono organizzarsi in modalità avanzate per chiedere la proiezione di un film in library molto estese. Si tratta di un processo di riformulazione delle logiche stesse della programmazione delle sale, che, sfruttando app, algoritmi e datafication, potrà garantire in futuro una mediazione altamente soddisfacente tra disponibilità dei titoli, esigenze delle sale e gusti dei pubblici. Infine, l’era digitale ha modificato anche il profilo dello spettatore-archivista: software, sistemi di indicizzazione, community di cinefili e appassionati incentivano il singolo utente a costruire collezioni piuttosto estese di opere, trasformando lo spettatore in una rotella di un immenso sistema di conservazione delle opere filmiche nell’era digitale. Una funzione, questa, che talora può espletarsi anche attraverso la preziosa custodia e conservazione di file, DVD, VHS con opere uniche, poiché estromesse da altri canali ufficiali di archiviazione e distribuzione dell’opera filmica. Tutte queste pratiche avvengono in uno scenario mediale fluido, dove i flussi di informazione contemporanei favoriscono un’esperienza mediale articolata, pluripiattaforma, dispersa. L’esperienza filmica si scioglie in un’esperienza cinematica, più ampia e dispersiva, centrata sulla relazione con immagini in movimento non cinematografiche, e in una ancor più estesa e complessa esperienza mediale, relativa alle tante possibilità di comunicazione on e offline offerte da dispositivi come smartphone e tablet.
Come si è articolata storicamente la riflessione teorica sulla spettatorialità?
Sulla spettatorialità cinematografica, almeno a partire dagli anni Sessanta, si sono registrati numerosi studi empirici e riflessioni teoriche. La sfida del volume è stata proprio far dialogare approcci differenti. Partendo dall’asse disciplinare centrale, la sociologia dei processi culturali e comunicativi, ho preso in considerazione contributi provenienti dalla mediologia, dalla media archaeology, dai Cultural Studies, dalla fenomenologia dei media, dall’estetica analitica. Il punto di partenza sono alcuni studi classici. Penso ad esempio a Georg Simmel e alla sua attenzione a come l’intensificazione della vita nervosa delle metropoli del primo Novecento predisponga i pubblici dei media alle stimolazioni percettive e sensoriali dei media elettrici, agli studi di Walter Benjamin sulla riproducibilità tecnica dell’opera d’arte, alle profetiche riflessioni di René Barjavel sul “cinema totale”, alle analisi delle celebrità e della dimensione socioantropologica della spettatorialità audiovisiva in Edgar Morin, e naturalmente a un libro capitale come Understanding Media di Marshall McLuhan. Senza dimenticare il capitale contributo degli Audience Studies e dei Cultural Studies, che per primi hanno evidenziato come le modalità di consumo, interpretazione e risemantizzazione del cinema rispondano a strategie molto diversificate da parte di spettatori resistenti e resilienti. In questo contesto un ruolo importante è quello svolto da una certa sociologia dei media italiana, che, a partire dai seminali lavori di Alberto Abruzzese, ha lavorato con costanza per evidenziare la centralità dei pubblici nell’evoluzione tecnoculturale dei media audiovisivi: mi riferisco in particolare al contributo di Gino Frezza, la cui ricerca è stata per me fondamentale e di grande ispirazione. Con la digitalizzazione dei processi sociali e culturali risulta più complicato studiare la spettatorialità cinematografica con i soli strumenti teorici e analitici della sociologia e della storia del cinema. Pertanto è indispensabile ricorrere agli studi mediologici che meglio rendono conto dei nuovi spazi di partecipazione dei pubblici negli scenari della Social Network Society. E qui gli autori da considerare sono molti, con prospettive eterogenee e tutti egualmente interessanti: Marcel Maffesoli, Derrick de Kerckhove, Pierre Lévy, Richard Grusin e Jay Bolter, Rosalind Krauss, Henry Jenkins, Lev Manovich, Francesco Casetti, Ruggero Eugeni, Guglielmo Pescatore e molti altri. Altre riflessioni innovative arrivano dalla sociologia di Nick Couldry e dall’antropologia di Bruno Latour. Anche l’estetica analitica ha contribuito a ridefinire l’ontologia del cinema, proprio a partire dalla digitalizzazione e dalla centralità dell’esperienza dello spettatore: penso, per esempio, a Trevor Ponech. Altrettanto rilevante è il lavoro della fenomenologia dei media statunitense che ha evidenziato la sensualità, la carnalità, l’embodiment nella relazione tra chi guarda e le immagini in movimento. Non si può prescindere dal contributo di Vivian Sobchack e Laura Marks. Non si può, infine, tacere degli approcci alla storia del cinema in chiave media-archeologica, sviluppati da Thomas Elsaesser, e della schermologia elaborata da Erkki Huhtamo. Senza dimenticare altri contributi, come gli studi sulla hyper attention di Katherine Hayles, le ricerche su neuroscienze ed esperienza filmica di Vittorio Gallese e Michele Guerra, i numerosi lavori nel campo dei Software Studies, della cultura visuale e dell’estetica. Insomma, il panorama degli studi sulla spettatorialità è ricco, vario ed eterogeneo. Occorre un notevole sforzo teorico per afferare le molteplici dimensioni della nostra relazione con le immagini nell’era digitale.
Quali elementi caratterizzano il framework della postspettatorialità?
Il framework della postspettatorialità si basa sostanzialmente su tre elementi: mediashock, forma culturale ed esperienza. Il presupposto da cui partiamo è che il cinema è una forma culturale composta da dispositivi, tecnologie e prodotti culturali, modellati dall’azione di industrie, pubblici e professionisti. Questa forma culturale si è evoluta nel tempo sulla scorta di traumi tecnoculturali, che abbiamo definito “mediashock”, attribuendo una sfumatura di senso differente all’omonimo concetto elaborato da Richard Grusin. Dopo ciascuno di questi mediashock, come il sonoro, la televisione, l’immagine elettronica, l’home video, il medium cinematografico ha ritrovato degli assetti temporanei tra i vari attori, ridefinendo anche il rapporto delle immagini tecnologiche con gli ambienti e i corpi. Proprio su queste due componenti – l’ambiente esterno e il corpo – si fonda la relazione dell’utente mediale con le immagini in movimento, che, perciò, possiamo definire essenzialmente in termini di esperienza. In una duplice accezione, chiarita da Casetti, del “fare esperienza”, come possibilità di sperimentare in prima persona un evento o un oggetto, e dell’“avere esperienza”, come acquisizione di conoscenza e competenza. Il framework della postspettatorialità è concepito come un insieme di strumenti utili a ripensare l’esperienza che noi facciamo e abbiamo delle immagini in movimento nell’era digitale. In altri termini, l’esperienza filmica “pura” si scioglie in un’esperienza cinematica e poi in un’esperienza mediale, assai più articolata e varia che nel passato. Il modo in cui variamo la nostra relazione tra ambienti, corpi e immagini determina esperienze mediali molto diverse. Il framework della postspettatorialità serve a sottolineare che oggi, grazie alle culture partecipative, gli spettatori digitali hanno un ruolo assai più mobile, attivo, intraprendente rispetto al passato. Naturalmente, ciò non significa che siano colmati i divari di potere tra le istituzioni mediali e i pubblici, che vanno colti e studiati nella specificità dei singoli contesti. Ma significa che ci sono spazi di manovra significativi per i pubblici, così tanti e importanti da richiedere una radicale contestazione dello stesso concetto di “spettatore”, in qualche modo sempre associato a possibilità circoscritte d’azione.
Che utente è quello dell’era digitale?
Un utente estremamente coinvolto. Non solo consumatore di immagini, ma anche parte integrante delle strategie di marketing e promozione, programmatore, distributore, archivista, critico. Tutte queste attività testimoniano che l’esperienza mediale del cinema nell’era digitale ha un carattere sociale. Nonostante tutte le cerimonie funebri sulla morte della sala e quindi della socialità del cinema, in realtà ancora oggi la passione per il cinema, i film, i generi e anche i singoli autori alimenta culti, eventi, aggregazioni varie, on e offline. Il postspettatore è colui che può scegliere il tipo di esperienza, per esempio scegliendo di vedere un film in una sala tecnologicamente superattrezzata, in compagnia di amici su una smart tv o sul proprio tablet da solo, sdraiato su un divano o un letto. Può scaricare un film e una serie oppure guardarli in streaming. Può scegliere se commentare sui social, postare un’immagine, condividere le proprie sensazioni, emozioni, pareri. Può partecipare alle campagne di engagement, ai giochi, ai quiz e agli eventi. Può concorrere alla produzione e al finanziamento di opere che altrimenti potrebbero non vedere mai la luce. Può tradurre sottotitoli di un film non ancora uscito in Italia, contribuendo notevolmente alla sua distribuzione e circolazione. Può collezionare DVD, Blu-Ray, file e archiviarli. Insomma, le capacità e le competenze del postpettatore sono aumentate a dismisura, tanto da consentirgli di modellare la propria esperienza mediale secondo esigenze, obiettivi, affezioni del momento. Forse l’unica componente che resta costante, pur nel considerevole passaggio dalle culture mediali analogiche a quelle digitali, è proprio la passione acuta, l’affezione intensa che le immagini cinematografiche e audiovisive stimolano in chi le guarda. Ma alle forme cangianti, mutevoli e affascinanti che assume la passione per il cinema, chiamata cinefilia, dedicherò un secondo volume, da considerarsi come corollario e “sequel” di Postspettatorialità, dal titolo provvisorio Cinefilie. Sociologia di una passione.
Mario Tirino è assegnista di ricerca al Dipartimento di Studi Politici e Sociali dell’Università degli Studi di Salerno. Si occupa di sociologia delle culture digitali, mediologia della letteratura e del fumetto, teoria dei media. Ha scritto oltre settanta saggi scientifici pubblicati in volume e su riviste accademiche, tra cui “Comunicazioni Sociali”, “Sociologia”, “Italian Journal of Sociology of Education”. Ha curato i volumi Sport e scienze sociali (2019, con Luca Bifulco), Flash Gordon. L’avventurosa meraviglia (2019), I riflessi di Black Mirror (2018, con Antonio Tramontana), Romanzi e immaginari digitali (2017, con Alfonso Amendola) e Saccheggiate il Louvre (2016, con Alfonso Amendola). Dirige, con Gino Frezza e Lorenzo Di Paola, la collana editoriale di studi su fumetti e media “L’Eternauta”.