“Postpolitica. Cittadini, spazio pubblico, democrazia” di Luigi Ceccarini

Prof. Luigi Ceccarini, Lei è autore del libro Postpolitica. Cittadini, spazio pubblico, democrazia, edito dal Mulino: che relazione esiste tra politica e postpolitica?
Postpolitica. Cittadini, spazio pubblico, democrazia, Luigi CeccariniPost è un prefisso ormai non solo da tempo molto usato, ma anche, forse, abusato. Dove certamente anche io ho contribuito con questo lavoro. Tuttavia, al tempo stesso, appare molto utile ed efficace da utilizzare nello studio di realtà in continua trasformazione, al fine di definirne il mutamento. In un contesto, poi, dove i processi di cambiamento avvengono in tempi sempre più rapidi il post assume una certa rilevanza. Come noto, è un termine latino che combinandosi con sostantivi e aggettivi indica un dopo, una fase successiva. Ne mette in luce la posteriorità, cioè il prolungarsi nel tempo dell’oggetto che segue il prefisso post, che assume dunque una forma nuova, una metamorfosi, che si distingue, appunto, dal pre. Quantomeno negli aspetti di forma, se non nei meccanismi di base. Basti ricordare alcune categorie richiamate nel libro. Postmaterialismo, che non è certo un temine nuovo. Postmodernità, ormai diventato un oggetto classico. Ma anche la fortunata categoria coniata da Colin Crouch, postdemocrazia, che rimanda ai cambiamenti, e dal suo punto di vista, alle degenerazioni della democrazia. E poi, per quanto riguarda più direttamente il lavoro in questione, le organizzazioni postburocratiche e la postsfera pubblica nell’era digitale. E altri ancora.

Lo stesso termine postpolitica non è certo un neologismo. La filosofa e studiosa di dottrine politiche, Chantal Mouffe, ha riflettuto intorno a questa categoria. Dalla sua prospettiva il riferimento era allo «Zeitgeist» postpolitico che si esprime nelle nostre società contemporanee. In particolare, intendeva sottolineare la mancanza di una «vera» politica, nel senso che è venuta meno quella tensione agonistica, quel conflitto, tra grandi progetti culturali e ideologici, alternativi ed egemonici.

La prospettiva adottata nel libro è molto meno pretenziosa. Vuole guardare alla politica, o almeno ad una selezione di questioni a mio avviso centrali e di stretta natura politica, che vengono trattate nei singoli capitoli del lavoro. Si è cercato di capire come stiano cambiando. E quale direzione abbiano preso all’interno di un più ampio processo di metamorfosi. Del resto, la società attuale è segnata da frammentazione, fluidità e da cambiamenti tanto veloci quanto profondi.

Allora la politica nelle sue diverse espressioni, in particolare il nesso con i cittadini, si colloca alla base del lavoro, diventa l’oggetto privilegiato di attenzione. La politica viene affrontata come elemento in divenire, che si spinge oltre la sua configurazione “classica”, è segnata da un dinamismo che esprime forme diverse, appunto postpolitiche. Sempre in relazione al post, nel testo si parla anche di politica postrappresentativa. Ovviamente non significa che le istituzioni e gli attori della politica rappresentativa siano spariti. Ma certo hanno assunto una diversa collocazione nella dinamica politica, hanno mutato forma. Hanno perso centralità o sono fortemente cambiati. Dal partito ai gruppi di interesse. Dalla partecipazione nelle sue diverse forme ai luoghi dell’azione collettiva. Al cittadino stesso, che si colloca al centro di questa dinamica. Si tratta dei temi affrontati nel volume.

Quali caratteristiche presenta la cittadinanza nell’età digitale?
Questa prospettiva del post non poteva non attraversare una categoria classica degli studi sociali e politici, ma anche di altre discipline quale è la cittadinanza, che si configura come un crocevia di prospettive disciplinari. Un concetto complesso, la cui natura va considerata necessariamente in senso estensivo rispetto alla classica e fondamentale definizione di Marshall degli anni ’50. Oggi subisce l’impatto delle sfide del presente. I fronti aperti dalla globalizzazione. Una sfida particolarmente importante è quella del digitale con le ricadute sulle prassi della cittadinanza democratica. Se consideriamo infatti la cittadinanza in termini di inclusione politica, cioè sulle modalità dell’essere parte di una comunità, le nuove tecnologie entrano direttamente in questa dinamica. Offrono opportunità per creare spazi deliberativi e per l’innovazione democratica. Strutturano nuovi canali di informazione e partecipazione, ovvero del prender parte. Sono strumenti utili per attori politici, più o meno istituzionalizzati, e per la mobilitazione dei cittadini. L’inclusione politica passa anzitutto attraverso il rito fondamentale del voto. Ma le sole elezioni non bastano: le democrazie illiberali non sono, appunto, democrazie liberal-rappresentative. Anche nelle democrazie rappresentative la partecipazione alle sole elezioni renderebbe la democrazia qualcosa di discontinuo, di intermittente. Il digitale sollecita l’idea di una democrazia, e una cittadinanza, continua. Può abbassare le soglie dell’essere parte. Pur con tutti i rischi, che non vanno trascurati, che possono invece condurre ad una diversa idea di democrazia, basata sulla non-partecipazione, sul non-confronto, che può ridurre l’esperienza democratica a semplice ratifica, a forme di plebiscitarismo digitale, vista la facilità del “partecipare” con un click a favore di un iperleader, e magari nell’ambito di un partito digitale. Quindi se da un lato vi è un potenziale pro-cittadinanza nello spazio digitale, che accompagna lo sviluppo di nuove forme nelle pratiche di inclusione, dall’altro lato la logica stessa insita nel digitale può stimolare invece stili di cittadinanza democratica autoreferenziale, provvisoria, effimera.

Il digitale è il perno della platform society e offre, dal punto di vista normativo, opportunità democratiche. Ma accompagna ed esaspera anche tendenze, già presenti nella società e nella politica, come la personalizzazione, il narcisismo, che non sempre si combinano con il bene comune, elemento chiave del patto di cittadinanza.

Qual è lo stato attuale della democrazia?
I dati di centri di ricerca e i report di think-tank, gruppi di advocacy che si occupano dello stato della democrazia nel mondo ci mettono in guardia dallo stallo che, in termini di diffusione democratica, si trascina da circa venti anni. I cittadini che vivono in paesi in cui le libertà civili e le garanzie democratiche sono diffuse e protette sono una minoranza. A complicare questo quadro si osserva una situazione in cui è venuta a configurarsi una sorta di «contraddizione». I cittadini dei paesi democratici guardano con disincanto, se non con un sentimento rabbioso, alla realtà dei loro sistemi politici di appartenenza. Quanti invece vivono in regimi illiberali, o esplicitamente non democratici, si battono per ottenere quelle libertà civili e quelle garanzie politiche tipiche delle democrazie consolidate, ma stanche. La lettura della complessità della fase recente, la cui effettiva evoluzione economica, politica e geopolitica non è stata colta dall’interpretazione offerta in prima battuta nella fine della storia preconizzata trenta anni fa da Fukuyama, offre un quadro in continua evoluzione in termini di attori e logica di funzionamento.

La democrazia liberale non ha definitivamente vinto sul piano globale con la fine del bipolarismo internazionale né si è propagata nel mondo con il suo modello politico, economico e sociale per mancanza di un’alternativa sostenibile: there is no alternative! veniva infatti sostenuto. La rilettura del presente pone l’accento sulle distorsioni subite dal liberalismo classico a causa delle politiche di tipo neoliberista e le disuguaglianze sociali e territoriali prodotte, che alimentano le sfide ai regimi democratici, come la spinta populista in seno alle democrazie mature.

Ma in questa cornice, se lo sguardo si rivolge solo al malcontento popolare, al malessere democratico, alla rabbia dei cittadini si coglie solo parzialmente la complessità della situazione. Vi sono anche segni di resilienza che la democrazia ha saputo esprimere nel tempo. Quindi, se la profezia de la fine della storia non si è avverata la democrazia non è stata sconfitta da altri tipi di regime. Detto altrimenti, la democrazia non ha vinto sugli autoritarismi, ma al tempo stesso resiste con forza. Resta un riferimento importante, una aspirazione diffusa come hanno mostrato, nel tempo, le proteste pro-democrazia esplose in varie parti del mondo. Insieme a elementi di una strutturale fragilità, tipici del sistema democratico imperniato sulla libertà e sulla fiducia – che si basa a sua volta su risorse di natura culturale oltre che su articolate e lunghe prassi di tipo procedurale – si è riscontrata dunque anche una forte resilienza.

Questo sistema ha infatti mostrato la capacità di adattarsi ai cambiamenti e alle sfide che si sono sviluppate sia storicamente sia nella fase più recente.

Nel 2020 – anno peraltro in cui l’emergenza pandemica da Covid-19 è esplosa nella sua forma più virulenta – le libertà individuali e le procedure democratiche sono state messe a dura prova. Il dissenso, novax o freevax si è via via rafforzato, ha avuto ampia possibilità di espressione, nel dibattito pubblico democratico, nelle piazze, nelle pratiche effettive di componenti importanti di cittadini. Ma questo è una prova che la democrazia, nei suoi elementi di base, resta un modello forte.

Tuttavia, non va dimenticato un divide che pare avere preso progressivamente, quello tra democrazie e antidemocrazie. Quindi tra paesi liberi e regimi autocratici. Si tratta di una frattura che si configura come un (quasi) nuovo cleavage, dunque, che ha superato un mondo diviso dal bipolarismo internazionale, definito postoccidentale, e ha definitivamente attraversato, superandola, la tesi della fine della storia.

In che modo le piattaforme condizionano la democrazia?
Diversi studiosi parlano, ricorrendo ad un temine non particolarmente bello, di piattaformizzazione della società, della vita quotidiana, delle relazioni umane e commerciali, quindi della stessa politica. Nei sistemi democratici le piattaforme imprimono un cambiamento alle logiche stesse della politica. Si parla di disintermediazione, rimandando alla idea di democrazia diretta. Ma di fatto si tratta di una re-intermediazione. Le stesse piattaforme diventano nuovi nodi, mediatori, gatekeeper.

In questa prospettiva non possono essere considerate semplici strumenti o applicazioni. Le piattaforme social non sono nemmeno viste come intermediari neutrali, ma diventano veri attori che giocano un ruolo nel plasmare la vita politica, un modello di regolazione che riflette le affordances dello strumento. Quando la logica della piattaforma trova applicazione negli ambiti dello spazio democratico, come nei media e nel giornalismo, nella comunicazione politica ed elettorale, entrano di fatto nella politica e nell’attività di governo. Allora viene facile comprendere che, almeno in una certa misura, le piattaforme digitali svolgono un ruolo di regolazione nella società postmoderna, dando forma a un particolare ecosistema della comunicazione politica, non più «ordinato» come un tempo. Dalla mediatizzazione della politica si è passati ad uno step successivo quello della piattaformizzazione della politica. Velocità, fluidità e interdipendenza, e un insieme ampio ed eterogeneo di attori che si influenzano a vicenda con rilessi sull’ambiente, rappresentano i tratti costitutivi che alimentano la logica ibrida sottostante il sistema mediale del nostro tempo. Questo ha portato a una sua profonda riconfigurazione che costituisce un caposaldo della democrazia e della formazione dell’opinione pubblica. Si tratta di un elemento chiave per il dibattito pubblico e per la definizione dei pubblici. La campagna permanente, categoria nata negli anni ’80 in USA, al tempo della centralità della TV, che rimanda ad un modo di governare basato sulla ricerca del consenso pubblico con una campagna elettorale definita postmoderna, quindi continua. L’uso politico del sondaggio si pone al centro di questa logica. Oggi la democrazia risente di un diverso sistema mediale. La velocità anzitutto (fastpolitics), la microtargettizzazione dell’elettorato, l’esaltazione dell'”io” rispetto al “noi”, del leader o dell’iperleader che esaspera la personalizzazione e la sua centralità nella organizzazione partitica.

Si tratta di un modello mediale che ridefinisce i pubblici, al plurale. Li moltiplica, li rende più effimeri, anche nelle modalità dell’impegno democratico praticate, che cambiano forma.

La partecipazione, nella cornice della società postmoderna, si individualizza. Ma in questi sfericoli pubblici, con il rischio di plebiscitarismo, da sempre peraltro insito nella politica democratica, possono svilupparsi anche spazi democratici di discussione e di coinvolgimento.

Le esperienze di innovazione democratica che usufruiscono di piattaforme sono parte di questo processo. Le campagne di opinione transnazionali o le petizioni sono spazi importanti a questo fine. Sicuramente il rischio del clicktivism è reale ma si aprono anche opportunità per esprimere forme di cittadinanza democratica. Ovviamente la stessa retorica antipolitica e i contenuti virali di questa prospettiva ricorrono efficacemente a tali canali. Vanno in una direzione opposta a quella della rappresentanza democratica: le categorie di «webpopulismo» o «populismo digitale» fanno riferimento a questa logica.

A questo va poi aggiunto che la piattaforma digitale ha finito per riflettersi sugli assetti organizzativi degli attori stessi della politica, ad esempio i partiti. Il partito digitale è ormai un modello. Le forme organizzative di tipo reticolare vengono privilegiate rispetto a quelle piramidali. Sono esperienze che si collocano su una diversa cultura politica. Su identità e obiettivi centrati sull’individuo e sull’individualizzazione, sull’autosufficienza dei cittadini, più che su narrative ideologiche di natura universale. Ma questo approccio rimanda a modi di coinvolgimento tipici del mondo globalizzato e postmoderno, segnato dalla logica della rete e dalle forme del digitale entrate prepotentemente in questa dinamica, cosi come nella vita quotidiana.

Quali nuovi cleavages emergono nella società contemporanea?
La (post)modernizzazione della società ha provocato l’erosione dei cleavages tradizionali spingendo verso una loro ridefinizione nel quadro del mutamento del contesto oppure aprendo spazi alla nascita e allo sviluppo di nuove fratture. Si tratta di un fatto interessante che richiama anche l’idea opposta, per certi versi, ovvero l’ipotesi di un riallineamento su nuove basi che non condivide la prospettiva della vera e propria fine dei cleavages. Lo scongelamento delle tradizionali fratture ha certamente portato a percorsi di partisan dealignment ma anche a ipotesi di realignment. Ovvero di fronte all’allentamento del legame con i partiti e l’indebolimento del sentimento di identificazione degli elettori con questi attori della politica si sviluppa quantomeno una parziale riconfigurazione del sistema dei cleavages. La frattura tra establishment e antiestablishment assume una particolare forza in questa cornice. In tempi di crisi la ridefinizione dei cleavages socio-politici tra esclusi e inclusi rispetto alla globalizzazione ha acquisito una prospettiva concreta negli scenari delle attuali moderne democrazie. A questa linea di frattura si aggancia tutto il discorso intorno ai loosers, left behind, forgotten (vs i frequent flyers o i cosmopolitans) che sono categorie importanti per la spiegazione del voto populista nelle democrazie occidentali.

Vi sono infatti segmenti di cittadini che nutrono particolari sentimenti di delusione verso la politica e inquietudine rispetto al futuro. Non è certo un atteggiamento nuovo, ma negli ultimi anni il profilo di questi soggetti disillusi si è delineato in modo più netto in rapporto alle crisi e alle trasformazioni globali avvenute. Si tratta di un orientamento che deriva da aspettative insoddisfatte per la perdita di posizione nella scala sociale – che coinvolge non solo i ceti popolari, ma anche la classe media – o per le magre prospettive di vita rispetto al futuro. Il blocco della mobilità sociale, come dato oggettivo, ma anche come atmosfera frustrante percepita dai cittadini, alimenta tale risentimento. Sono stati efficacemente definiti cittadini rancorosi in un’analisi del Censis sul caso italiano. I partiti del risentimento, come sono stati definiti, si basano su questo sentimento sociale.

Il nesso sul piano culturale è evidente e rimanda ad una realtà formata da valori e attori che si confrontano su una serie di nuove dimensioni: apertura vs chiusura, multiculturalismo vs assimilazionismo, cosmopolitismo vs comunitarismo, approccio libertario vs conservazione. In altre parole, semplificando, è l’idea di società aperta che confligge con quella di società chiusa, e viceversa.

Le ricadute elettorali nelle democrazie occidentali sono altrettanto evidenti. Nei regimi democratici la linea di demarcazione tra il fronte (neo)populista, da un lato, e quello antipopulista, dall’altro, è ormai diventata piuttosto importante, quasi una frattura sul piano sistemico. Sebbene un po’ tutti i partiti, sotto certi aspetti, si siano avvicinati alla logica populista quantomeno sul piano della comunicazione.

Quali dinamiche caratterizzano l’azione collettiva postmoderna?
Le tendenze più generali a cui abbiamo fatto riferimento hanno finito per incidere sulle fondamenta della partecipazione organizzata lasciando spazio a formule di azione collettiva di segno nuovo, leggere, effimere in certo senso e de-istituzionalizzate, che non rimandano necessariamente a modalità non convenzionali intese nella classica concezione della protesta. La diffusione del digitale rende più complesso il concetto stesso di azione collettiva frammentandola e individualizzandola. L’elemento pubblico e quello personale si intrecciano. La dimensione istituzionale e della vita quotidiana si mescolano. Questo modello di partecipazione rimanda a un’azione collettiva individualizzata, ovvero a una forma di partecipazione 2.0 come è poi stata ribattezzata, sottolineando l’idea della flessibilità reticolare che supera, in questa forma post di coinvolgimento e presa di responsabilità, la rigidità gerarchica che aveva in passato.

L’azione collettiva è in continua evoluzione, il digitale ha spinto in questa direzione, e si è gradualmente ibridata perdendo i tratti consueti che la caratterizzava. Appare intermittente e disintermediata, frammentata e orientata anche ad un singolo evento, andando quindi oltre la dimensione stessa dell’attivismo single issue.

Allo stesso tempo si intrecciano dimensione strumentale ed espressiva, collettivista e individualizzata, istituzionalizzata e creativa: questo il volto proteiforme della partecipazione nella postmodernità. Si tratta di elementi che caratterizzano il modo in cui il (buon) cittadino si attiva nella comunità politica di appartenenza.

L’uso sistematico dei media digitali, la configurazione leggera e reticolare delle organizzazioni postburocratiche, i bassi costi di gestione di queste organizzazioni senza peso e senza organizzazione, appartenenza non istituzionalizzata, approccio operativo, diretto, si impongono come tratti importanti. Tutto ciò ha permesso anche a gruppi con scarse risorse in termini sia di membership, sia, soprattutto, finanziari di fornire pubblicità a specifiche tematiche ed entrare nel gioco della politica.

Questi tratti organizzativi snelli e le relative strategie di mobilitazione, sono infatti ormai adottati da molti gruppi associativi sia monotematici sia generalisti, piccoli e grandi, appartenenti a diverse aree politiche e orientamenti ideologici. Questo si combina con una risposta dal basso, dai cittadini, piuttosto variegata. Libera da gabbie ideologiche.

Si tratta di una tendenza trasversale, per certi aspetti, che suggerisce come nell’ambito della società connessa le peculiarità della partecipazione illustrate precedentemente si stiano progressivamente affermando accanto a, ma anche a scapito di, forme dalla natura più tradizionale, che hanno finito per subire un progressivo declino.

Nel processo di destrutturazione della politica e della società, insieme alla struttura delle opportunità messe a disposizione dallo sviluppo della logica digitale, si inseriscono efficacemente questi nuovi attori politici. Questi soggetti, diffusi anche a livello locale, in-visibili per certi aspetti per la loro territorialità definita, propongono nuove forme di coinvolgimento per mobilitare i cittadini critici e monitoranti, che a loro volta trovano, anche in modo intermittente ed effimero nuovi spazi per partecipare e ricostruire la propria identità politica.

Questo avviene sia internamente, nella politica nazionale dei singoli paesi, nella dimensione locale e territoriale, sia, conseguentemente, a livello globale, dando vita anche a forme di azione collettiva e campagne di tipo transnazionale.

Cosa significa vivere nella democrazia di Internet?
La rivoluzione digitale ha creato uno spazio sociale diverso. La sua pervasività condiziona necessariamente la quotidianità dei cittadini. E non ha potuto che impattare anche su elementi fondamentali dello spazio politico: la democrazia, da un lato, e la cittadinanza nell’era digitale, dall’altro. Queste due entità vanno considerate congiuntamente. L’idea del cittadino monitorante in questo peculiare scenario, grazie all’empowerment assicurato dal digitale, gode di opportunità per svolgere azioni di contropotere democratico indiretto, in modo individuale o associato. Può mettere in campo iniziative di sorveglianza continua, andando così oltre le procedure, i tempi e le logiche della rappresentanza, le prassi della mediazione di tipo tradizionale. Può, in altri termini, rendere meno intermittente la democrazia e spingerla verso una formula continua, di monitoraggio. Andare quindi oltre le elezioni, momento in cui spesso si esprime il malcontento popolare: il negative voting.

Gli attori della sorveglianza nella democrazia al tempo di Internet godono di un potenziale particolare. Oggi, le democrazie hanno a disposizione maggiori strumenti per offrire occasioni di partecipazione, arene deliberative e giurie di cittadini, audit e forum, panel e lavori preparatori per la definizione dei bilanci partecipativi o dell’agenda di governo e così via.

Le petizioni online o il voto in vari tipi di referendum, compresi quelli di iniziativa popolare, rappresentano formule democratiche che vanno oltre il meccanismo classico della rappresentanza e sono rese più efficaci dal digitale.

Accanto alle problematiche legate alla disinformazione, alla post-verità, alle storture dell’algocrazia, come le camere dell’eco o le bolle di filtraggio, l’azione di sorveglianza democratica da parte di cittadini, attraverso le organizzazioni di monitoraggio civico o di government watchdog, viene sicuramente rafforzata dal digitale.

Si tratta di un ambiente in continua trasformazione, anche sul piano demografico con le inevitabili ricadute, in cui vi è maggiore libertà da parte del cittadino in termini ideologici. Lo scenario appare mutevole e discontinuo e nell’insieme si sviluppano sensibilità nuove verso determinate issue. A ciò si associa una tendenza, dei leader politici, a ripiegare verso la figura del follower, alla ricerca di un quotidiano consenso. Gli strumenti e le possibilità disponibili nell’era digitale rendono il cittadino un attore potenzialmente più incisivo, poichè relativamente «incapsulato» in narrazioni ideologiche e in ampie strutture politiche organizzate; quindi più libero e dinamico in un contesto dai contorni decisamente più fluidi.

È in questo svincolo che la dimensione civile e democratica potrebbe avere margini maggiori di influenza sul processo democratico e sul relativo percorso decisionale. È il vecchio dilemma tra ruled by public opinion e rule of public opinion oggi più che mai attuale nella cornice politica postmoderna.

L’opinione pubblica, più che in passato, si colloca al centro di questa dinamica con inedite potenzialità (oltre che rischi). La fluidità del quadro sociopolitico apre finestre di opportunità al pubblico. Anche se non è mai stato una realtà unitaria e oggi ancor meno compatto che in passato.

La frammentazione è il tratto distintivo, quindi considerare i pubblici variegati che compongono l’opinione pubblica e quanto emerge da queste posizioni diventa un elemento fondamentale per la politica. I pubblici, sebbene frammentati, appaiono, probabilmente, meno controllabili dai grandi soggetti della mediazione politica e comunicativa. Basti vedere gli esiti elettorali e la volatilità che segna le elezioni nei paesi democratici. La moltiplicazione dei canali di informazione nell’era digitale è certamente funzionale a questo esito. La ricerca di legittimazione popolare – quando non populista – da parte degli attori della politica attribuisce di fatto all’opinione pubblica o, meglio, alle opinioni pubbliche, una funzione, in un certo senso, leaderistica, di guida.

Ma l’inconsapevolezza di questo potenziale da parte del popolo, la «volontà generale», non porta certo a un uso razionale e organizzato di questa inedita struttura di opportunità politica e civica che è andata ad aprirsi nel tempo postmoderno.

Per converso, si possono aprire spazi di ri-democratizzazione, dove appunto il follower diventa il decisore pubblico o l’esponente politico che si muove nell’ambito del dibattito pubblico alla ricerca di legittimazione e consenso presso l’opinione pubblica.

Il rischio da parte della politica, se priva di un progetto, è quello di inseguirne le pulsioni nella versione più dannosa e irresponsabile per il bene comune. Ma un’etica politica e un senso di responsabilità dall’alto e dal basso potrebbero davvero giocare a favore della qualità della democrazia, ai tempi della rete.

Luigi Ceccarini è professore di Scienza politica nell’Università di Urbino Carlo Bo, dove coordina le attività del Laboratorio di Studi Politici e Sociali (LaPolis) ed è Presidente della Scuola di Scienze politiche e sociali. È co-editor della rivista Comunicazione Politica – ComPol e Presidente della Società Italiana di Studi Elettorali (Sise). Tra le pubblicazioni più recenti: Le divergenze parallele (Laterza, 2018, con F. Bordignon e I. Diamanti), Tra politica e società (Il Mulino, 2018, con I. Diamanti), The Digital Citizen(ship) (Edward Elgar, 2021) e Constituency Communication in Changing Times (Palgrave, 2022, con R. De Rosa e J.L. Newell, a cura di).

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