
Se però restiamo al perimetro della comunicazione politica, dobbiamo partire da una premessa, scontata ma indispensabile: le logiche dei nuovi media digitali – per quanto “rivoluzionarie” possano essere – non vanno semplicemente a sostituirsi a quelle dei mezzi di comunicazione di massa tradizionali (organizzati, per tutto il secondo Novecento, intorno all’egemonia indiscussa dello schermo televisivo), ma si sovrappongono ad esse dando forma a una complessa stratificazione. Da questo cortocircuito emerge un nuovo ecosistema mediale, ibrido nell’efficace definizione proposta da Andrew Chadwick, in cui resistono – e anzi si intensificano – tendenze già emerse e consolidate nella fase pienamente televisiva di mediatizzazione della politica – come la personalizzazione e la spettacolarizzazione – e se ne affermano di inedite, legate nativamente al nuovo sistema operativo digitale che si è innervato nelle società del terzo millennio: dall’affermazione dei social media alla diffusione pervasiva dei device mobili di connessione, dal protagonismo partecipativo degli utenti alla micro-targettizzazione delle audience. In questo contesto è indispensabile adottare un approccio ecologico allo studio della comunicazione politica, che ti consenta di riconoscere la centralità innovativa dei nuovi media digitali, senza perdere di vista il ruolo ancora determinante che sulla scena politica è svolto dai protagonisti della precedente stagione politica, in primis la televisione. Per fortuna è la stessa logica dei social media – che della rivoluzione digitale oggi sono la massima espressione – a consentirci di catturare con un unico sguardo, senza rischi di strabismo, entrambi i setting mediali su cui si articola oggi l’azione politica.
Qual è l’importanza della Rete, e in particolare dei social, nella comunicazione politica contemporanea?
Per comprendere la centralità dei social media nella comunicazione politica contemporanea dobbiamo partire dal presupposto che essi non rappresentano semplicemente un nuovo spazio, per quanto nevralgico, in cui si articola parte del discorso politico (seguendo logiche più o meno innovative). Piuttosto essi si configurano come una nuova infrastruttura – tecnica e sociale – su cui si organizza, almeno in potenza, la totalità del discorso politico. Se pensi alla rete e ai social semplicemente come un nuovo palcoscenico, più o meno privilegiato, che si va ad aggiungere ai vecchi spazi della rappresentazione politica, dal punto di vista comunicativo, sostanzialmente, hai già perso. L’attore politico che ragiona in termini “analogici”, chiedendosi di volta in volta se per la sua strategia di comunicazione sia più conveniente andare in televisione o sui social, rilasciare un’intervista o scrivere un post, incontrare i fan in una piazza o i follower in una diretta Facebook, ha già perso. La trasmissione televisiva, la pagina del quotidiano, la piazza cittadina non sono luoghi in competizione – nella ricerca di maggiore attenzione e visibilità presso l’elettore, come nella scarsità di risorse e di tempi a disposizione del candidato – con gli ambienti della Rete. I social funzionano piuttosto come una piattaforma abilitante della rappresentazione politica, una piattaforma capace di organizzare le diverse, frammentate, almeno in parte sconnesse, manifestazioni del proprio discorso politico in una strategia di comunicazione compiutamente networked. Se i social media stanno oggi assumendo una centralità nevralgica sulla scena politica contemporanea, ciò dunque accade non solo perché in essi si manifestano con maggior intensità i caratteri fondamentali della comunicazione digitale – disintermediazione e partecipazione, protagonismo delle masse e potere del network, nuove pratiche di consumo e nuove modalità di diffusione dei contenuti – ma anche perché questi ambienti si sono imposti come lo spazio elettivo della crossmedialità, il luogo della rete in cui testi e frammenti prodotti e diffusi su altri media – anche quelli più tradizionali, dalla stampa alla televisione, dalla radio al cinema – si ritrovano e si ricompongono.
A cosa si deve l’affermazione delle forze di “cambiamento” nelle elezioni del 4 marzo 2018?
I social hanno avuto un ruolo fondamentale nelle ultime elezioni politiche nazionali. E certamente Salvini e Di Maio, pur con le molte differenze che hanno caratterizzato – e ancora caratterizzano – la loro proposta politica (nei contenuti e nello stile), sono legati dalla comune capacità che hanno avuto nel dominare, a partire dalla dimensione quantitativa della loro presenza in rete, la comunicazione sui social. Di contro, Berlusconi e Renzi, i due grandi sconfitti, a destra e a sinistra, del 4 marzo, non hanno saputo arginare l’onda d’urto generata da questo straripante flusso di comunicazione alimentato dall’azione social dei due futuri alleati di governo. Si sono mostrati spesso afasici e hanno lasciato che fossero i loro aggressivi avversari a dettare i temi dell’agenda politica. Sarebbe però colpevolmente ingenuo ricondurre l’affermazione delle forze di cambiamento giallo-verde alla sola, condivisa, capacità di essere presenti sui social media. L’ascesa politica di Salvini e Di Maio va letta in uno scenario più ampio: il loro essere infatti in linea con lo spirito politico del tempo va ben al di là della loro reciproca vocazione alla comunicazione social. Entrambi sono infatti riconducibili alla famiglia spuria del populismo, sebbene Di Maio e il MoVimento 5 Stelle abbiano costruito il proprio appello al “popolo” sul tema dell’attivismo civico e della lotta alle élite, mentre Salvini e la sua nuova Lega sovranista abbiano puntato soprattutto sulla difesa della comunità nazionale (#primagliitaliani) dalla minaccia dell’immigrazione clandestina (#stopinvasione). L’ascesa del populismo rappresenta però un macro-trend della politica contemporanea a livello globale. Il populismo civico e tecnocratico del M5S così come quello etnocentrico e xenofobo della Lega di Salvini hanno dunque capitalizzato, in termini di consenso politico, il clima di strutturale sfiducia che nel mondo occidentale ha investito, complice anche la lunga crisi economica dell’ultimo decennio, il sistema politico, i suoi storici protagonisti e le sue tradizionali forme di rappresentanza. Lo hanno fatto attraverso i social, ma non lo hanno fatto semplicemente a causa dei social. Evitiamo dunque facili spiegazioni deterministiche che vorrebbero ricondurre il risultato elettorale alla sola variabile tecnologica. Allo stesso tempo però, se allarghiamo la prospettiva della nostra analisi, non credo sia oggi possibile rinunciare a una riflessione critica sul rapporto che c’è tra la diffusione pervasiva dei social media e la contemporanea affermazione, su uno scenario globale, di uno zeitgeist populista, tra le logiche mediali degli uni e la cultura politica dell’altro. È su questo interrogativo che si conclude libro.
Quale ruolo ha assunto Facebook in particolare nell’ultima campagna elettorale?
Nel libro vengono prese in analisi le strategie di autorappresentazione seguite dai principali leader politici impegnati nella campagna elettorale del 4 marzo 2018. In base alla ricerca che abbiamo condotto presso l’Università degli Studi della Tuscia (ricerca che è stata coordinata dalla professoressa Flaminia Saccà nell’ambito del PRIN 2015 Personalizzazione, istituzionalizzazione e deistituzionalizzazione: le nuove dinamiche del potere nella società post-democratica), Facebook ha rappresentato un asset strategico nel processo di costruzione della propria immagine politica portato avanti dai diversi leader in campo. Questa centralità che il social network “generalista” di Zuckerberg ha mostrato nell’ultima campagna elettorale non è stata acquisita a discapito degli altri media (radio, stampa e soprattutto televisione) e degli altri spazi della comunicazione politica (il territorio), ma attraverso essi, imponendosi come hub multidimensionale ideale per la costruzione di un’efficace narrazione politica. Attivando un cortocircuito virtuoso tra mass media, social e territorio, l’uso strategico di Facebook, ha consentito a quei leader che sembrano aver meglio compreso la logica networked della comunicazione politica contemporanea di moltiplicare, per ognuno dei propri messaggi, tempi di consumo, spazi di visibilità e tipologia di audience raggiunta. Una stratificazione degli spazi, dei media e dei pubblici che si è anche tradotta nella moltiplicazione del livello di engagement del cittadino-elettore. A vincere la battaglia comunicativa delle elezioni sono stati così quei leader che hanno saputo sfruttare al meglio il potenziale di connessione di Facebook.
Cosa rivela l’analisi delle strategie e delle tecniche di comunicazione adottate dai sei principali leader politici nazionali – Silvio Berlusconi, Luigi Di Maio, Pietro Grasso, Giorgia Meloni, Matteo Renzi e Matteo Salvini?
Un primo dato, se vogliamo banale, è che Di Maio, Salvini e Meloni, leader di “rottura” dello status quo (perché alla guida di movimenti anti-sistema, finora tenuti fuori o ai margini dalle responsabilità di governo), tutti e tre diversamente riconducibili alla categoria “debole” del populismo, hanno dominato, anche quantitativamente la scena comunicativa (a partire dai social, ma non soltanto in essi) e hanno visto tradursi questo predominio in un risultato elettorale positivo. I leader invece di continuità istituzionale e di garanzia (tra i quali si è dovuto per forza di cose iscrivere per la prima volta anche Berlusconi), che hanno impostato la loro strategia comunicativa in primis sulla necessità di arrestare l’avanzata dei “barbari” alle porte, hanno faticato enormemente a costruire una contronarrazione capace di reggere l’urto della retorica populista. Il loro deficit di comunicazione, soprattutto social, si è riflesso, per ragioni e su scale diverse, in una fragorosa débâcle elettorale.
Un secondo dato interessante mostra come, a seconda del parametro di analisi della strategia di autorappresentazione preso in considerazione, cambi la distribuzione delle sei leadership prese in considerazione. Se in base al semplice parametro quantitativo della presenza sui social abbiamo visto formarsi una contrapposizione tra leader populisti e leader istituzionali di garanzia, quando prendiamo in considerazione variabili che più direttamente chiamano in causa l’universo valoriale e la cultura politica di riferimento (ad esempio rispetto al livello di individualismo/personalizzazione della propria autorappresentazione) si compone di fronte a noi uno scenario, ancora bipartito, in cui la coalizione di centro-destra si riscopre, anche stilisticamente, coesa, mentre Di Maio va ad assumere una fisionomia molto più vicina a quella propria dei due leader di (centro) sinistra, Renzi e Grasso. C’è infine un terzo set di variabili, che in qualche modo fanno riferimento a pratiche d’uso comuni sui social ma “eccentriche” rispetto allo standard del linguaggio politico (per esempio l’esposizione della propria intimità), in cui i rappresentanti del populismo più “grasso”, quello etno-centrico e sovranista della Lega e di Fratelli d’Italia, si differenziano da tutto il resto del gruppo, “spingendo” sia Berlusconi che Di Maio vicino ai leader di LeU e PD, nella zona più “educata” e formale dell’autorappresentazione politica.
Difficile infine restituire sinteticamente le principali caratteristiche delle strategie di comunicazione seguite dai “nostri” sei attori protagonisti dell’ultima campagna elettorale. Nel libro mi concentro in particolare sull’analisi delle architetture narrative costruite dai leader di Lega, M5S e Partito Democratico. Quella di Di Maio è stata una leadership anomala nella sua debolezza, mediocre e priva di carisma, che funziona però alla perfezione, proprio nella sua ostentata normalità, se collocata dentro la logica comunicativa networked – che è anche un’identità politica – del MoVimento 5 Stelle. Mentre non ha funzionato lo stile di leadership performativo scelto da Matteo Renzi. Il leader del Partito Democratico infatti non ha saputo (o voluto) cambiare la linea narrativa che già nel referendum del 2016 lo aveva condannato alla sconfitta politica. Abbandonata, per necessità, la narrazione vincente del giovane outsider autoproclamatosi, con omeopatica dose di populismo, rottamatore della vecchia nomenklatura post-comunista, Renzi non è riuscito a costruire uno storytelling alternativo a quello dell’autocelebrazione dei risultati raggiunti nell’ultima legislatura dal proprio governo e dagli esecutivi a guida democratica, capaci finalmente di portare il paese fuori dalle sabbie mobili di una quasi decennale crisi economica. La presentazione convinta del proprio curriculum, delle 100 cose fatte e delle 100 cose da fare, ha più irritato che convinto l’elettorato, anche a sinistra. Ma il vero trionfatore delle ultime elezioni è stato certamente Matteo Salvini. Se quella di Di Maio era anomala, quella di Salvini è invece una leadership, nella forma e nella fisionomia, perfettamente allineata allo spirito del tempo, populista e xenofobo, sovranista e securitario. Su questa capacità di incarnare gli umori politici, rabbiosi e impauriti, del tempo presente e su una naturale abilità nell’essere presente sui social (dei quali è ormai una vera celebrity), con una mimesi perfetta delle più comuni, anche triviali, pratiche d’uso del medium, il leader della Lega ha costruito il successo della sua comunicazione elettorale e ha poi conquistato una posizione di centralità negli equilibri del governo, ben superiore al reale peso elettorale della sua compagine politica. Una centralità cresciuta con il passare delle settimane, in cui il volontarismo esasperato del ministro degli Interni e vice-premier sui temi caldi dell’immigrazione e della sicurezza ha inesorabilmente rubato spazio (di visibilità e di consenso), con il suo duro populismo etnocentrico, al populismo civico e inclusivo del partner di governo pentastellato (teorico socio di maggioranza nel nuovo esecutivo di cambiamento).
Luca Massidda, PhD in Comunicazione e nuove tecnologie, insegna Sociologia dei fenomeni politici e Sociologia della sicurezza sociale e della devianza presso l’Università degli Studi della Tuscia.