
Se dovessi trovare una definizione semplice e facilmente accessibile direi che possiamo pensare al made in Italy, oggi, in un contesto globale/glocale, come progressivamente disancorato dal territorio, non dalla terra, e sempre più ricontestualizzato in termini di valori, brand, immaginario e anche dalla percezione del consumatore.
Distinguo tra terra e territorio seppur la radice della parola è la stessa. La terra è fondamentale perché rappresenta un distinguo, un unicum, un ambiente fisico che non è totalmente replicabile del tutto, anche se, alcuni italiani emigrati, hanno provato a farlo, ad esempio, in Sudamerica. Tuttavia, se pensiamo alla produzione vitivinicola ogni luogo ha un suo particolare clima, terreno, risorse, ambiente idrografico ecc…
Lo so non è semplice e potrà sembrare paradossale non parlare di territorio per il made in Italy, ma al di là di quelli che sono i nostri sentimenti, preferenze, che magari fanno vedere i prodotti tipici italiani, in questo caso, come più autentici; c’è tutto un mondo affianco fatto di prodotti di cui non si comprende bene l’origine. Questo non vuol dire che siano falsi. Assumono piuttosto un’identità ibrida e con questo dobbiamo fare i conti.
In altre parole la contrapposizione vero/falsa non sempre è chiara e riconoscibile e al sottoscritto interessa vedere ciò che accade, con spirito fenomenologico, nel mondo e non quello che vorrei accadesse.
Proprio per questo motivo dobbiamo cogliere i segnali che ci arrivano da ovunque. Alla fine ci vuole anche poco basta viaggiare, entrare in un ristorante o in un supermercato e come per “magia” qualcosa di particolare, in questo senso, accadrà.
Di cosa si compone l’immaginario del made in Italy?
Credo che al mondo pochi made in.. come il made in Italy siano in grado di suscitare un immaginario così denso e pregno di simboli e richiami.
Ancora oggi si sente dire che se il made in Italy fosse un brand sarebbe il terzo al mondo. Non abbiamo elementi sicuri per sostenerlo. Di certo possiamo dire che si comporta come un brand al quale vengono associati determinati valori, emozioni, modi di intendere e vivere la vita. Ad esempio, da un’importante ricerca svolta dal centro di ricerca KPMG, fatta proprio su questo tema con un campione preso tra persone straniere, risulta che al made in Italy vengono associate le seguenti parole: qualità, apparenza, bellezza, lusso, benessere, passione, creatività. In particolare la qualità risulta essere l’indicatore più apprezzato, che non a caso si incrocia con l’idea di qualità della vita. Insomma a noi piace parlare di Italian way of life.
Quali sfide pone oggi la gestione del marchio Country of Origin (CoO)?
La sfida più importante è quella di una chiaro riconoscimento dell’origine. Sembrerebbe, a prima vista, tutto facile, cioè dove si fa un prodotto. Ma la realtà non è così semplice come appare, anzi proprio per questo può nascondere risposte più complesse. Non tutti i prodotti made in Italy sono fatti in Italia, altri sono fatti in Italia ma non sono made in Italy. Alcuni si presentano come italiani e possono essere frode, altri non è chiaro. Sono, piuttosto, la conseguenza della mobilità delle competenze e di ambienti di lavoro sempre più incroci di culture. Il luogo conta meno ed entrano in gioco altre processi: conta più il luogo stretto di produzione o quello dove ha sede l’azienda? Oppure, conta quello dove si progetta o quello dove si fabbrica; conta più quello di origine delle materie prime o della trasformazione finale? Sono tutte questioni che pongono dubbi e necessitano di risposte. Non a caso se oggi abbiamo bisogno di ribadire il 100% made in Italy e proprio per mettere ordine in questa situazione confusa, provando a ridefinire un’origine indubbia.
Non a caso oramai si parla diffusamente di COBO (Cultural of Brand Origin), con questo si parla di un’origine culturale di un brand che rimanda appunto ad un immaginario, che può anche distaccarsi da un territorio, uno stato nazione ben preciso. La cultura, in questo caso materiale, ha un’anima simbolica e si muove transterritorialmente. Non solo è prodotta da persone che la conoscono, la amano e la consumano. Pensiamo ad esempio ad aziende non italiane che vendono gastronomia italiana nel mondo. Piuttosto che frode si tratta del mondo dell’inspired by… .
Quali conseguenze produce la mobilità delle competenze e le contaminazioni culturali degli ambienti di lavoro?
Produce un mondo glocale, dove le tensioni globali e locali si mescolano provocando nuovi fenomeni, come quello dei prodotti ibridi e degli hybrid brand. Se un prodotto viene fatto un po’ qua e un po’ là, cosa ci rimane per indicarci la sua provenienza? Si pensi a brand molto importanti nel campo della moda acquisiti da non italiani che continuano a vendere come italiani e che hanno uffici di produzioni in Italia, altri di marketing strategico in Francia o negli Stati Uniti. È questa multilocalizzazione della produzione che modifica i fenomeni e la loro interpretazione. E poi pensiamo anche a casi particolari come quelli riferibili ai tanti italiani che sono emigrati nel mondo che si sono portati competenze professionali utilizzate in altri contesti. Ricordiamo, per fare un esempio tra gli altri, ai formaggi “italiani” negli Stati Uniti: l’asiago o il parmesan, che non sono protetti come in Europa ma a produrli negli Usa sono italiani od oriundi. Insomma la situazione è complessa.
Quali mutamenti socioculturali sono intervenuti nella relazione tra territorio, virtualizzazione dei processi e identità di prodotti e servizi del made in Italy?
La relazione più chiara è il passaggio da identità fortemente legate al territorio, caratterizzate da uno spazio delimitato con dei confini, ad altre che si costruiscono negli spazi virtuali della rete e assomigliano più a dei network che a delle strutture chiare e rigide. Il politologo Parag Khanna, nel suo illuminante testo “Connettografia”, parla proprio di questa trasformazione che va nella direzione di poli comunicanti e in continuo processo dialettico e dinamico. Questo vuol dire anche possibilità di conflitto e possibili tendenze a contenere il processo per la paura di perdere i caratteri originari identitari. Purtroppo, la globalizzazione non è qualcosa che bussa la porta e chiede permesso, accade con tutto il suo carico di tensioni e spesso determina situazione di grande complessità. È la grande sfida di questo secolo. In ogni caso qui noi parliamo di prodotti “italiani” e questi cambiamenti incidono sull’identità dei prodotti stessi.
Viviamo dunque nell’era del Post-made in Italy?
Sì indubbiamente. Negarlo sarebbe ingenuo perché ormai sono tanti gli esempi e i casi, ai quali rimando nel libro, che ci raccontano un’altra storia, un’altra narrazione. Questo non vuol dire, ci tengo a ribadirlo, che il made in Italy, come inteso nel senso comune non esista, anzi c’è ed è molto forte. Solo che è affiancato da fenomeni nuovi e di più larga interpretazione. Non a caso i modi per apporre made in Italy sui prodotti, creando un’idea di plusvalore, sono vari. Un caso su tutti: scarpe prodotte da marchi non italiani in paesi dell’est europeo, fatte suolare in Italia e…voilà.. ecco che diventano made in Italy. Si può fare. Non è illegale.
Vedere le cose da una prospettiva diversa rispetto a quella alla quale siamo abituati ci può indicare un modo per intraprendere nuove strategie comunicative in grado di render ancora più forte, diffuso e amato il nostro caro italian way of life.
Riccardo Giumelli è sociologo dei processi culturali. Insegna Teorie e Tecniche della comunicazione ed Educazione ai Media all’Università di Verona. È columnist per La Voce di New York, Pres. dell’Associazione Italia Stati Uniti d’America di Verona. È membro del Common Board della Schola Italica, centro di alta formazione sul Made in Italy.