“Porcospini digitali. Vivere e mai morire online” di Davide Sisto

Dott. Davide Sisto, Lei è autore del libro Porcospini digitali. Vivere e mai morire online, edito da Bollati Boringhieri. Il titolo del libro riprende una celebre metafora di Arthur Schopenhauer oggi quanto mai attuale, in epoca di pandemia e con il progressivo estendersi della dimensione digitale delle nostre vite: quale metamorfosi antropologica è in atto?
Porcospini digitali. Vivere e mai morire online, Davide SistoIl celebre dilemma del porcospino di Arthur Schopenhauer rappresenta una delle metafore più suggestive riguardo alle difficoltà relazionali tra gli esseri umani. I porcospini, in una giornata d’inverno piuttosto fredda, sentono la necessità di avvicinarsi gli uni con gli altri in modo che il calore reciproco eviti loro la morte per assideramento. Ma più si avvicinano più sentono gli effetti dolorosi delle reciproche spine, dunque si allontanano. Di nuovo, hanno bisogno di avvicinarsi reciprocamente ma, non appena vicini, risentono il dolore che li spinge a riallontanarsi. E così via fino a quando non trovano una moderata distanza reciproca quale compromesso fondamentale in vista della sussistenza. Schopenhauer ritiene che il dilemma del porcospino rappresenti perfettamente la condizione relazionale degli esseri umani, i quali hanno bisogno di fare comunità, di stare vicini ma – al tempo stesso – patiscono i reciproci difetti. Schopenhauer parla, a proposito, di “molteplici repellenti qualità”. Dunque, anche gli uomini necessitano di una moderata distanza reciproca per sopravvivere nello spazio pubblico. Keep your distance! è il monito da rispettare per salvaguardare sé stessi.

Keep your distance! è diventato, nel corso della pandemia da Covid-19, un monito fondamentale per la sopravvivenza tout court. Ma, mentre nelle epoche storiche passate non si poteva fare altro che tenere i corpi distanti gli uni dagli altri per evitare il reciproco contagio, oggi – nonostante il lockdown, la quarantena e il coprifuoco – non abbiamo smesso di muoverci in tutti i luoghi pubblici del mondo. Lo abbiamo fatto tramite i nostri corpi digitali, i quali rendono ancora più complessa la relazione di per sé problematica tra la vicinanza e la distanza. Questo è un aspetto a fondamento della metamorfosi antropologica attualmente in atto ed è il tema attorno a cui è costruito il mio nuovo libro. Viviamo, per la prima volta nella storia dell’umanità, in un mondo ampliato dalle tecnologie digitali, condizionato dalla moltiplicazione degli spazi in cui sostare e dei tempi attraverso cui passare. Ne seguono molteplici opportunità e altrettanto numerose criticità, le quali complicano il nostro modo di creare una comunità e una società. Complicano, inoltre, il nostro modo di accumulare memoria, personale e collettiva, e di scendere a patti con la morte. Ecco che il monito Keep your distance! diventa un punto di riferimento fondamentale per la nostra sopravvivenza: non basta la moderata distanza reciproca tra i nostri corpi, occorre anche quella tra le nostre identità digitali, spesso in balia dei rischi creati negli ambienti online frequentati.

In che modo i nostri corpi digitali influenzano il nostro modo di stare nel mondo?
Da quando, soprattutto, si sono diffusi gli smartphone e i mobile device abbiamo progressivamente imparato a prolungare le nostre identità personali attraverso un triplice processo di registrazione, condivisione e pubblicazione di dati e informazioni sottoforma di parole scritte, immagini fotografiche, documenti audiovisivi. Il loro insieme, perlopiù disomogeneo e disordinato, costituisce tanto l’immenso archivio quanto lo spettro autonomo delle nostre identità digitali. I social media sono tanto autobiografie culturali collettive quanto enciclopedie dei morti. E la particolare temporalità nella dimensione online, determinata dal processo di registrazione, fa sì che continuiamo a essere presenti nel web anche dopo la morte dell’unica nostra identità psicofisica. È ovvio, pertanto, che i nostri corpi digitali, liberi di muoversi online anche quando i nostri corpi biologici sono “congelati” in casa a causa della pandemia, producano un numero tale di dati, documenti e informazioni che incidono profondamente sulla nostra vita quotidiana da più punti di vista. Pensiamo all’importanza assunta dal live streaming per poter continuare a svolgere a distanza quelle attività che si sono bloccate tra il 2020 e il 2022 (attività lavorative e scolastiche, funerali, aperitivi con gli amici, ecc.). O pensiamo, ancora, al ruolo sempre più importante assunto da social network come Twitch o Tik Tok, contraddistinti dalle dirette live e da una nuova forma di interazione reciproca. È chiaro che tutto ciò che succede online non possa più essere separato da ciò che succede offline. Nel libro faccio riferimento al concetto di “carne digitale” per indicare una specie di materializzazione alternativa, la quale prende corpo nell’investimento emotivo quotidiano che mettiamo nella gestione dei nostri profili social e dei luoghi che frequentiamo online. Mi piace proprio evidenziare l’aspetto “carnale” del nostro modo di stare online; credo che parlare di rappresentazione o di riproduzione virtuale non colga appieno ciò che facciamo nella realtà “onlife” odierna. Tantomeno ha senso credere che ogniqualvolta entriamo nella dimensione online ci smaterializziamo. Al tempo stesso, i mobile device sono diventati una sorta di “casa trasportabile” che, non solo ci fa portare insieme a noi le persone fisicamente distanti, ma ci fa andare a nostra volta da coloro che non ci sono fisicamente accanto. Lo abbiamo constatato, per esempio, tramite le videochiamate tra i malati di Covid intubati negli ospedali e i parenti rimasti a casa. Carni digitali che si muovono in virtù di case continuamente trasportabili: è evidente quanto sia mutata la vita degli esseri umani nel XXI secolo.

Come si manifesta, in tale scenario, la dialettica tra i bisogni solitudine e di contatto?
Certamente, questo tipo di dialettica assume significati molto problematici. Se il contatto con gli altri assume un ruolo centrale nelle nostre vite 24/7, diventa invece difficile riuscire a raggiungere sani momenti di solitudine. Schopenhauer, sempre nel famoso dilemma del porcospino, sostiene che chi “accumula molto calore interno preferisce rinunciare alla società, per non dare né ricevere sensazioni sgradevoli”. Credo che nella realtà iperconnessa sia molto difficile accumulare questo calore interno sufficiente per realizzare una sana solitudine, cioè non una solitudine non voluta, di per sé problematica. Anzi, spesso l’iperconnessione, mentre ci impedisce di staccarci dagli altri, accresce il senso di solitudine effettiva dell’umanità. Probabilmente, la giusta via di mezzo sta nel riuscire a ridimensionare la presenza online in modo tale da non rimanerne succubi. Di fatto, è curioso constatare che sempre più persone decidono di essere spettatori passivi sui social o addirittura di abbandonare i social. A dimostrazione dell’impegno “spinoso” che comporta il contatto online costante. A mio modo di vedere, un equilibrio tra il contatto reciproco e la solitudine lo si raggiunge prendendo coscienza del significato delle nostre identità multiple online e del ruolo che le carni digitali ricoprono nella vita di tutti i giorni.

Quali prospettive, a Suo avviso, per il legame tra reale e virtuale e tra l’io e le sue molteplici identità virtuali?
Credo che il futuro prossimo sarà segnato da un incremento significativo dell’uso della realtà virtuale e della realtà aumentata. Non so bene cosa sarà il tanto menzionato Metaverso, ma certamente la possibilità di disgiungere già oggi la presenza online dalla localizzazione del nostro corpo diventerà un punto di partenza fondamentale per mettere alla prova i prolungamenti digitali della nostra identità psicofisica. Immagino che questo avrà numerose conseguenze in settori molto diversi tra loro. Già oggi vi sono sperimentazioni importanti delle riproduzioni olografiche in campo sanitario per stabilire le cure più consone nei confronti dei pazienti. Inoltre, si sta sperimentando la realtà virtuale per affrontare le malattie destabilizzanti dell’età anziana. La realtà virtuale e la realtà aumentata, poi, porteranno alle estreme conseguenze l’inedito rapporto tra memoria e oblio che sta segnando questi anni. Saremo sempre più circondati dagli spettri digitali dei morti e sarà sempre più difficile raggiungere un oblio totale. Le sfide tecnologiche sono molteplici in più campi e settori all’interno di città digitalmente integrate (penso al modello futuristico di Songdo in Corea del Sud). Mi limito a sostenere che dovremo avere la mente aperta, non farci frenare dai pregiudizi e riuscire a mettere in campo tutti gli strumenti di cui dispongono le discipline scientifiche e umanistiche per far sì che le nostre multiple presenze online diventino un’opportunità per una continua e avvincente metamorfosi biotecnologica dell’umanità. In fondo, la pandemia da Covid-19 ha portato alla luce la capacità di integrare la vita cittadina all’interno di una città digitale globale, che sarà sempre più potenziata e sempre più determinante per i cambiamenti antropologici del futuro.

Davide Sisto è assegnista di ricerca presso l’Università di Trieste. Insegna presso il Master «Death Studies & the End of Life» dell’Università di Padova e tiene laboratori di cultura cyborg e realtà aumentata presso l’Università di Torino. È autore di La morte si fa social. Immortalità, memoria e lutto nell’epoca della cultura digitale (2018) e Ricordati di me. La rivoluzione digitale tra memoria e oblio (2020), entrambi editi da Bollati Boringhieri.

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