
Cosa alimenta il populismo?
Due fattori. Il primo è la crisi dei partiti tradizionali: le destre moderate e le sinistre socialdemocratiche sembrano avere come unico messaggio quello che in inglese si chiama “more of the same”, cioè il mantenimento dello status quo con qualche piccola miglioria. Non è abbastanza per chi sente il proprio futuro in pericolo o soffre già nel presente. Cresce quindi la domanda di risposte radicali che i partiti tradizionali, intrappolati nella posizione di garanti dello status quo, non osano offrire. Il secondo fattore è il distacco delle élite: la parte più colta, sofisticata, competente delle nostre società occidentali si è allontanata sempre di più dal ceto medio-basso. Ha consumi diversi, stili di vita diversi, manda i figli in scuole diverse, mangia cibi differenti, guarda film in inglese e viaggia in Paesi lontani. Per questa élite la globalizzazione, l’Europa e la tecnologia sono opportunità da cogliere, per chi è in fondo alla scala sociale minacce di fronte alle quali si è indifesi. Per questo attecchisce il mito del popolo, della gente dimenticata dalla politica e raccoglie consenso chi si presenta come suo campione contro le oligarchie al potere.
Quali rischi comporta il miraggio della sovranità?
Il rischio principale, su cui mi concentro nel libro, è che per inseguire questi miraggi finiamo per distruggere i pochi strumenti che abbiamo per esercitare la nostra sovranità. Come popoli, ma anche come individui. Mettere in dubbio l’euro, significa immaginare un ritorno a uno scenario in cui le oscillazioni del cambio e l’inflazione penalizzano soprattutto i redditi bassi, che non possono adeguarsi ai cambiamenti di contesto. Opporsi in modo ideologico ai trattati commerciali di nuova generazione come il Ttip e il Ceta significa lasciare che le regole della globalizzazione siano dettate dalla Cina. Contestare l’importanza della competenza in politica significa lasciare spazio alle lobby di ogni genere che non chiedono altro che un Parlamento di persone manipolabili proprio perché inesperte.
Lei sostiene che sia venuto meno il patto sociale che ha retto l’Europa nel lungo Dopoguerra: con quali conseguenze?
Non si può più giustificare la cessione di sovranità – con tutti i sacrifici che comporta – alla base del progetto europeo con la motivazione che porta pace (ormai data per scontata) e prosperità (dopo dieci anni di crisi, la crescita di una volta parte non recuperabile). Servono altre basi su cui ricostruire la torre di Babele dell’integrazione. E secondo me queste basi possono essere soltanto la promessa di protezione ai più deboli di fronte ai grandi sconvolgimenti che stiamo attraversando, solo così possiamo garantire la coesione sociale delle nostre società.
Come si può combattere il populismo sovrano?
I partiti devono trovare il coraggio di avanzare proposte nuove, radicali, ardite, in grado di competere con le suggestioni dei populisti. Devono ammettere di aver ignorato alcuni problemi, a cominciare dalla disuguaglianza, e spiegare come intendono risolverli. Noi elettori dobbiamo resistere alla seduzione della semplificazione, ricordarci che la politica è l’arte del compromesso e della distribuzione di risorse scarse, che non ci sono soluzioni facili e indolori a problemi complessi. Soltanto così potremo esercitare in modo responsabile e consapevole quel poco di potere di cui siamo detentori, attraverso il voto ma anche la partecipazione attiva, in prima persona, alla vita democratica.