“Populismo e Costituzione. Una prospettiva giuridica” di Giacomo Delledonne, Giuseppe Martinico, Matteo Monti e Fabio Pacini

Prof.ri Giacomo Delledonne, Giuseppe Martinico, Matteo Monti e Fabio Pacini, Voi siete autori del libro Populismo e Costituzione. Una prospettiva giuridica, edito da Mondadori Università: che valenza emblematica assume, per la tensione che corre fra populismo e costituzionalismo post totalitario, il caso italiano?
Populismo e Costituzione. Una prospettiva giuridica, Giacomo Delledonne, Giuseppe Martinico, Matteo Monti, Fabio PaciniIl nostro Paese ha un rapporto di lunga durata con populismi variamente declinati e il populismo italiano, inoltre, si colloca e si sviluppa in un ‘ambiente’ costituzionale peculiare. Una delle caratteristiche fondamentali della Costituzione repubblicana, elaborata nel segno della reazione ai totalitarismi e della difesa del pluralismo, è infatti la valorizzazione di garanzie contro maggioritarie che non si pongono in antitesi rispetto alla democrazia, ma ne costituiscono parte integrante.

Ma come descrivere l’atteggiamento del populismo rispetto alla democrazia costituzionale? Se l’approccio classico tende a concepire populismo e costituzionalismo come fenomeni antitetici, questa rappresentazione non ci pare cogliere la complessità del fenomeno. A ben vedere, i populismi adoperano continuamente categorie proprie del costituzionalismo: popolo, maggioranza, sovranità, democrazia, solo per citare alcuni esempi. Questo rivela l’insidia della sfida populista (specie nel caso dei populismi di governo): almeno in prima battuta, i populisti tendono a mostrarsi compatibili con la struttura delle democrazie costituzionali, salvo poi tentare di alterarne il nucleo essenziale.

Ciò premesso, ci sono varie ragioni che rendono il tema di sicuro interesse per i costituzionalisti, anche alla luce del caso italiano del primo governo Conte (2018-2019), esempio appunto di un populismo “di governo”, autodichiaratosi tale.

Sarebbe tuttavia un errore pensare che lo scenario italiano sia il prodotto di un’improvvisa ondata populista, perché il fenomeno ha radici lontane.

In primo luogo, il Paese ha una lunga tradizione di antiparlamentarismo nel corso della sua storia di stato unitario. Dopo la fine della Seconda guerra mondiale, il populismo ha caratterizzato molti dei nuovi partiti e movimenti che sono venuti alla ribalta nella politica italiana. Infatti, i membri del Fronte dell’Uomo Qualunque, il primo movimento populista in Italia, parteciparono ai lavori dell’Assemblea Costituente. In secondo luogo, dopo le elezioni politiche del 2018, l’Italia è diventata il primo paese europeo in cui due forze sedicenti populiste (MoVimento 5 Stelle e Lega), con agende e basi elettorali molto diverse, hanno formato un governo di coalizione che si è poi concluso nel settembre 2019. In terzo luogo, il caso italiano è di grande interesse perché il Paese è un membro fondatore delle Comunità europee (ora Unione europea). Pertanto, le implicazioni costituzionali della politica populista devono essere considerate non solo nel quadro nazionale, ma anche in un contesto più ampio.

Germi di populismo si trovano persino nel processo costituente italiano, in particolare con riferimento all’operato del Fronte dell’Uomo Qualunque, un movimento politico nato da un settimanale («L’Uomo Qualunque», lanciato nel 1944), che ottenne un successo notevole nelle elezioni del 1946 ed ebbe 30 membri nell’Assemblea Costituente. Guglielmo Giannini, il suo fondatore, fece della difesa della “gente comune” la caratteristica essenziale della sua macchina propagandistica. Ciò si tradusse in una costante polemica e mobilitazione contro l’assetto dei partiti politici del tempo. Si tratta di un pezzo di una più ampia atmosfera culturale, che ha caratterizzato l’Italia in quegli anni, un antipartitismo che ha finito per scorgere nei partiti elementi di frammentazione dell’unità politica del popolo.

Alcuni fattori, come la retorica della lotta contro delle presunte élite corrotte, torneranno con forza specie all’indomani di Tangentopoli, momento spartiacque che avrebbe reso la spaccatura fra garantismo e giustizialismo ancora più evidente. Il giustizialismo, del resto, è una delle caratteristiche del MoVimento 5 Stelle ed è alla base di quello che è stato definito “populismo penale”, conseguenza di un determinato approccio al diritto penale, visto come strumento di lotta politica. Allo stesso tempo, dopo Tangentopoli si è alimentato anche un altro filone populista, quello di matrice opposta basato in particolare su un partito personale (Forza Italia) che ha sempre fatto della lotta al giustizialismo una sua caratteristica essenziale.

Insomma, il caso italiano ha vissuto la coesistenza di “molteplici populismi” (Anselmi-Blokker) e alcuni dei loro elementi costitutivi sono stati ripresi dalle forze populiste di più recente emersione.

Il MoVimento 5 Stelle presenta sia continuità che discontinuità con la tradizione del passato populista italiano: da un lato, il suo approccio alla realtà è dicotomico e maggioritario e, come Berlusconi, dall’altro si affida ai mass media per connettersi al popolo superando l’idea di democrazia del pubblico. Tuttavia, il popolo qui non è solo il pubblico che assiste passivamente allo spettacolo, perché può partecipare attivamente alla selezione dei candidati tramite votazioni online e decidere sulle scelte più importanti; da qui la valorizzazione di internet e della piattaforma Rousseau, gestita da Casaleggio e menzionata come piattaforma ufficiale del movimento nella vecchia versione dello statuto del MoVimento. Il MoVimento 5 Stelle ha anche recuperato alcuni aspetti del post-Tangentopoli, alcuni punti evidenziati da Di Pietro, per esempio, e ha fatto del diritto, soprattutto del diritto penale, parte del proprio arsenale per colpire il nemico (a differenza di Berlusconi e Renzi, che sono stati costantemente contro la giurisdizionalizzazione della politica).

Se il populismo della Lega ha più a che fare con la politica dell’identità, il MoVimento 5 Stelle è interessante dal punto di vista della politica dell’immediatezza, come dimostra l’ossessione per la trasparenza, e il coinvolgimento diretto ha poi portato all’introduzione di una serie di riforme sul referendum e sulla messa in discussione del libero mandato parlamentare.

Nella XVIII legislatura, forze che si richiamavano esplicitamente al populismo sono giunte al governo: che bilancio si può trarre di quell’esperienza?
Cercando di stilare un bilancio dell’esperienza del corporativismo negli anni Trenta del Novecento, tempo addietro Sabino Cassese ha ripreso criticamente un giudizio formulato da Lucien Febvre, chiedendosi se si sia trattato effettivamente di «uno sfogo febbrile di breve durata». Appare legittimo porsi un interrogativo analogo a proposito della non lunga stagione del primo governo Conte.

Come già si è detto, diversi istituti e argomenti tipicamente costituzionali ricorrono con frequenza nello strumentario populista, ma non sono riconducibili ad esso in via esclusiva. La vicenda del populismo di governo della XVIII legislatura non pare smentire questo dato fondamentale.

Questo risulta particolarmente evidente nella produzione normativa del Governo del cambiamento, in cui non si notano novità particolarmente significative rispetto agli esecutivi precedenti. Anzi, il primo governo Conte si è caratterizzato per aver fatto uso in modo più contenuto di strumenti, come la questione di fiducia posta su un disegno di legge, che sono normalmente percepiti come una mortificazione del Parlamento da parte dell’esecutivo.

Non marcano, del resto, una discontinuità troppo netta con l’esperienza precedente la nomina di un tecnico al Ministero dell’economia e delle finanze né la capacità del presidente Conte di trarre vantaggio dalle risorse, istituzionali e di immagine, di cui la Presidenza del Consiglio naturalmente dispone. La diarchia Di Maio-Salvini naturalmente ha rappresentato una marcata anomalia, con ripercussioni significative sul funzionamento del Governo. Essa, però, più che delle pulsioni populiste costituisce il portato del risultato ‘indeciso’ delle elezioni del 2018.

Un indubbio elemento di novità è piuttosto il declino o la vera e propria eclissi di alcune convenzioni costituzionali che plasmavano i rapporti fra gli attori istituzionali nel corso delle crisi di governo.

Con la formazione e la crisi del primo governo Conte, in particolare, hanno acquisito grande visibilità i margini d’intervento del Presidente della Repubblica, che nomina il Presidente del Consiglio e i ministri e nelle cui mani il Governo rassegna le dimissioni. Consapevole di muoversi su un terreno segnato da aspre polemiche e dall’erosione di alcuni dei gentlemen’s agreements su cui si basa il funzionamento di una forma di governo parlamentare debolmente razionalizzata, il presidente Mattarella si è preoccupato di enucleare alcuni degli assi portanti delle sue attribuzioni nei confronti del Governo. Richiamandosi insistentemente all’autorità dei suoi predecessori, il Capo dello Stato ha cercato di perimetrare pubblicamente le sue possibilità di intervento, allo scopo di rendere ragioni delle motivazioni di alcune sue scelte e, così facendo, di tutelare sé stesso e l’istituzione Presidenza della Repubblica.

Ciò che si vuole dire, insomma, è che le indubbie anomalie verificatesi nella stagione del primo governo Conte, benché non sempre idonee a incidere in maniera duratura sulla fisionomia dell’ordinamento costituzionale, hanno però suscitato alcune importanti reazioni, in primis quella del Capo dello Stato. In questo senso, il contenimento del populismo di governo non è avvenuto grazie a una contrapposizione frontale, ma piuttosto in seguito a un’attenta delimitazione delle attribuzioni e delle possibilità di azione di ciascun organo costituzionale.

L’immagine dell’accesso febbrile è corretta, almeno in parte, ma è probabilmente ancora presto per sciogliere gli interrogativi sulla sua durata.

Sarà interessante vedere, in questa XIX legislatura che si è da poco aperta, quanto il Governo Meloni intenderà attingere dalla stagione populista della legislatura precedente e quanto, invece, vorrà e sarà in grado di recepire da altre fasi del recente passato.

Quali sfide pone al sistema mediale il populismo digitale?
Iniziamo con una premessa, il populismo digitale è, nella nostra lettura, un tipo di populismo mediale che vive e si struttura intorno a uno specifico canale mediatico: in questo determinato caso le piattaforme digitali, i social network soprattutto. Dapprima Internet – con il M5S – e poi i social sono risultati un vero e proprio contraltare rispetto alle istituzioni e anche al sistema mediale. Da questa prospettiva non bisogna sottovalutare come la volontà di creare un “canale alternativo” a quello dei media tradizionali, dominati dai giornalisti, sia in qualche modo connessa con le politiche identitarie dei populisti, che tendono a descrivere giornalisti e divulgatori scientifici come parte delle élite corrotte.

Per quanto concerne le sfide che il populismo digitale pone al sistema mediale se ne possono individuare di tre tipi.

Quelle politiche, riguardanti la critica alla legittimazione di determinate comunità epistemiche (giornalisti, esperti); quelle democratiche, inerenti il modo in cui la democrazia italiana era funzionava nel mondo pre piattaforme; quelle costituzionali, che afferiscono alle regole pensate per il sistema mediale e che sono connesse alle due precedenti.

La prima sfida non riguarda che tangenzialmente il costituzionalista, nel senso che può essere oggetto di studio (si pensi alla crisi di fiducia nelle comunità epistemiche) ma senza impattare direttamente sulle regole del gioco democratico.

La seconda sfida può invece avere maggiori implicazioni direttamente giuridiche. Il clima di propaganda permanente della narrazione populista sui nuovi media, i cambi di posizioni in base ai sondaggi, etc. pongono difatti interessanti quesiti sull’evoluzione della democrazia e su come funzioni l’ecosistema mediale attuale: ne parla in un bel libro il Prof. Barberis (Come internet sta uccidendo la democrazia. Populismo digitale).

La terza serie di sfide è invece quella più impattante sulla costituzione e sulle regole costituzionali che regola(va)no il discorso pubblico. Nell’epoca della diffusione della televisione, la Corte costituzionale aveva infatti più volte indicato come i mezzi di comunicazione andassero regolati per garantire, ad esempio, il rispetto del pluralismo, la par condicio, un’informazione corretta, le regole per la propaganda elettorale, etc. Tutto ciò è invece assente online: attori populisti hanno violato par condicio, silenzio elettorale, hanno fatto uso di disinformazione come arma di propaganda politica, in altri ordinamenti hanno anche targhettizzato utenti e svolto operazioni di profilazione dell’elettorato. Questo genere di sfide esula da quelle politiche e democratiche, producendo “rischi” e problemi costituzionali. Naturalmente queste sfide esisterebbero a prescindere dal populismo digitale, che risulta essere una sorta di canarino del minatore: i populisti digitali sono stati i primi attori politici a sfruttare le enormi lacune legislative riguardanti i social network. Ciò non significa che le soluzioni applicabili siano le stesse del mondo analogico, ma è ormai evidente che qualcosa vada fatto. La Corte costituzionale, infatti, aveva imposto forme di regolazione pubblica (regole) soprattutto per quei media pervasivi che avessero un impatto sulla formazione dell’opinione pubblica: se la televisione entrava nei salotti degli italiani, cosa si dovrebbe dire dei social che ci seguono ovunque, grazie ai nostri smartphone? La parola d’ordine potrebbe quindi essere “regolare (la Rete) per salvaguardare (la democrazia costituzionale)”. Da questo punto di vista, tuttavia, devono essere fatte due ultime e ulteriori considerazioni: i populisti non sono il nemico, ma gli abusi che avvengono vanno corretti; le soluzioni non devono, quindi, essere pensate con il fine di tagliare le radici al populismo digitale ma pensate per rispondere alle sfide poste dalla sfera pubblica piattaformizzata, aggiornando le regole per il mondo digitale e considerandolo nella sua complessità (ad esempio evitando di affidare troppi poteri para costituzionali alle piattaforme digitali): al contrario si incorrerebbe nel rischio di  generare nuovi e ulteriori problemi.

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