“Popolazione mondiale e sviluppo sostenibile. Crescita, stagnazione e declino” di Aurora Angeli e Silvana Salvini

Prof.sse Aurora Angeli e Silvana Salvini, Voi siete autrici del libro Popolazione mondiale e sviluppo sostenibile. Crescita, stagnazione e declino pubblicato dal Mulino: quale ruolo svolgono i comportamenti demografici nelle disuguaglianze socio-economiche e nello sviluppo sostenibile?
Popolazione mondiale e sviluppo sostenibile. Crescita, stagnazione e declino, Aurora Angeli, Silvana SalviniIn primo luogo soffermiamoci sulla relazione fra evoluzione della popolazione e sostenibilità. Il tasso di crescita della popolazione mondiale è un fattore cruciale per il futuro benessere dell’umanità e la possibilità delle prossime generazioni di sfruttare le risorse naturali in modo sostenibile. Il tema della crescita demografica è inestricabilmente legato a quello dello sviluppo economico e sociale del pianeta, affrontato dalle Nazioni Unite con la definizione degli Obiettivi di sviluppo sostenibile, sottoscritti nel 2015 dai leader di 193 nazioni del mondo. A differenza degli obiettivi di sviluppo del millennio, definiti nel 2000 per il 2015, gli obiettivi di sviluppo sostenibile non si riferiscono solo ai paesi in via di sviluppo, ma a tutte le nazioni del mondo, e riguardano i problemi ambientali tanto quanto quelli sociali ed economici. Si tratta di 17 obiettivi e 169 target specifici, molti dei quali sono formulati con una precisa forma numerica e associati a indicatori da raggiungere nel 2030 per consentire una loro verifica puntuale. Se gli Obiettivi di sviluppo sostenibile delle Nazioni Unite, in particolare nell’ambito della salute riproduttiva e dell’istruzione femminile, fossero raggiunti entro il 2030, è stimato che si avrebbe una diminuzione dell’attuale tasso di crescita della popolazione mondiale. Il picco demografico verrebbe raggiunto nel 2060, e gli abitanti della Terra arriverebbero a un numero compreso tra 8,2 e 8,7 miliardi nel 2100. Una ridotta crescita demografica avvierebbe l’apertura della cosiddetta “finestra demografica”, periodo durante il quale la quota di popolazione in età dipendente è minima e massima invece quelle degli individui in età produttiva. Se in questo periodo si avviano politiche di valorizzazione di capitale umano (attraverso la diffusione dell’istruzione e la ristrutturazione del mercato del lavoro), il volano dello sviluppo economico decolla e porta con sé ricchezza e benessere.

Che nesso esiste tra conflitti interni e internazionali e demografia?
Accanto alla mobilità forzata dai cambiamenti climatici, la maggiore criticità irrisolta risiede nei flussi incontrollati di popolazione causati in larga parte dai conflitti, che non solo mietono molte vittime ma causano movimenti migratori che, specie in Africa, sono spesso dimenticati, poiché anche i media trascurano luoghi lontani e poco importanti nello scacchiere internazionale. La conseguenza più evidente dei conflitti è rappresentata dalle migrazioni dei rifugiati in fuga dalle zone di guerra. Oggi i conflitti nel mondo sono soprattutto in Africa, ma non vanno esenti l’Asia e, in minor misura, Europa e America. Prima di cercare di dare le dimensioni del fenomeno dei rifugiati, occorre precisare come li possiamo definire. I rifugiati sono una particolare categoria di immigrati, che hanno uno speciale statuto giuridico concesso, in base all’art. 1 della Convenzione di Ginevra del 1951, a chiunque dimostri un giustificato timore di essere perseguitato per la sua razza, la sua religione, la sua cittadinanza, la sua appartenenza a un determinato gruppo sociale o le sue opinioni politiche, e si trovi fuori dello Stato di cui possiede la cittadinanza e non può o, per tale timore, non vuole, domandare la protezione di detto Stato. Per ottenere questo status occorre fare domanda di asilo, e attendere una risposta in merito. Un’apposita Commissione Asilo effettua un colloquio approfondito con il candidato e valuta se il soggetto è meritevole di tutela internazionale, decidendo quindi se concedergli lo status di rifugiato o meno. I rifugiati sono quindi una parte, generalmente molto piccola, della quota di stranieri residenti su un territorio, anche se il fatto di godere di diritti estesi rispetto a quelli normalmente concessi ai migranti economici ne fa una componente piuttosto stabile della popolazione. Quanti sono i rifugiati nel mondo? La prima riflessione riguarda il fatto che il maggior numero di rifugiati è accolto da paesi extraeuropei.

Il numero totale dei rifugiati nel mondo è 17,2 milioni, un milione in più rispetto a fine 2015. L’unico paese europeo nell’elenco dei paesi interessati è la Germania. Al 2016 l’Europa ospita in totale 5,2 milioni di rifugiati, un numero in grande crescita negli ultimi anni (+18% rispetto a fine 2015, +68% rispetto al 2014). In questo conteggio sono però inclusi i rifugiati presenti in Turchia. Se li escludiamo, il numero si riduce a 2,3 milioni, una cifra inferiore a quella registrata in Africa (più di 5 milioni di rifugiati), Asia (3,5 milioni) e Medio Oriente-Nord Africa (2,7 milioni). La Svezia rimane in Europa il paese con il rapporto più alto tra rifugiati presenti e popolazione (il 2,3%). Valori alti (tra lo 0,5 e l’1% della popolazione) in generale si trovano nei paesi nordici e nell’Europa centrale, più bassi invece nell’Europa mediterranea, con l’eccezione delle due piccole isole di Malta e Cipro.

Quali ripercussioni demografiche ha avuto la crisi economica mondiale?
Negli ultimi anni un importante settore di analisi è rappresentato dagli effetti della crisi economica e finanziaria iniziata nel 2007-08 sui comportamenti demografici. Uno degli aspetti maggiormente analizzati è la relazione tra crisi economica e comportamenti legati alla famiglia.

Le numerose analisi demografiche condotte in Europa e in generale nei paesi ricchi hanno mostrato una correlazione negativa tra indicatori economici di crisi da un lato e formazione della famiglia e/o fecondità dall’altro. L’effetto generalmente passa attraverso il deterioramento del mercato del lavoro, con l’aumento sia della disoccupazione sia di altre tipologie di contratti: contratti a termine, lavoro part-time. Questi andamenti possono indurre la percezione e l’aspettativa di instabilità lavorativa e di insicurezza economica, che a loro volta possono incidere sulle decisioni relative alla famiglia e alla fecondità.

Una recente indagine che ha analizzato gli effetti dell’attuale crisi che ha colpito l’Europa, ha confermato il legame tra tassi di disoccupazione e andamento della fecondità: sembra che la recessione abbia invertito la tendenza della fecondità in alcuni Stati membri, in particolare in Grecia (in cui fino al 2009 la fecondità stava aumentando), Bulgaria, Estonia, Ungheria, Repubblica Ceca e Croazia. Un calo della fecondità, soprattutto dal 2011, ha interessato anche paesi nordici europei sia pure caratterizzati da una recessione economica più lieve. La correlazione tra andamenti del mercato del lavoro e fecondità è apparsa più forte nei paesi colpiti più duramente dalla crisi e con sistemi deboli di welfare. Le politiche sociali potrebbero quindi smussare gli effetti della crisi e creare un contesto più favorevole alla realizzazione dei progetti fecondi.

Gli stessi legami sono emersi anche in altre aree, ad esempio in molti paesi latino-americani: l’avvento della crisi ha portato a ridurre o a posporre la maternità, soprattutto tra le donne urbane e appartenenti alle generazioni più recenti, più sensibili alle variazioni nella disoccupazione.

Al contrario, nei paesi arabi dell’area Medio Oriente e Nord Africa la relazione appare inversa. Alcuni paesi, tra cui Egitto, Tunisia e Algeria hanno mostrato una recente ripresa della fecondità: la stagnazione economica e le difficoltà di accesso delle donne al mercato del lavoro sono incluse tra le cause fondamentali di questo trend.

Qual è il quadro demografico europeo?
Negli ultimi decenni l’Europa ha vissuto cambiamenti fondamentali nelle dinamiche e nella struttura demografica della sua popolazione. Un tratto comune a quasi tutti i paesi europei è stato la diminuzione della fecondità sotto il livello di rimpiazzo generazionale, sia pure in un contesto in cui i comportamenti fecondi e la formazione della famiglia si sono diversificati. Le maggiori difformità si possono riscontrare tra i paesi del nord Europa più la Francia (con livelli di fecondità attorno ai livelli di rimpiazzo generazionale) e gli altri paesi. Dal punto di vista della salute e della sopravvivenza, la speranza di vita è aumentata in Europa occidentale sia per le donne sia per gli uomini, mentre in alcuni paesi dell’Europa dell’Est è in declino per gli uomini.

All’inizio di questo secolo l’Europa era già il continente del mondo con la quota più elevata di anziani sulla popolazione totale: nel 2015 quasi una persona su sei aveva 65 anni o più; nel 2050 il rapporto sarà di oltre una persona su quattro. Sempre al 2050, circa un Europeo su dieci avrà un’età dagli 80 anni in poi, molto più di quanto previsto per gli altri continenti. Molteplici settori sono e saranno interessati dai cambiamenti nella struttura per età della popolazione: dai rapporti intergenerazionali alla predisposizione di servizi pubblici, alla produzione e consumo di beni.

Instabilità politica, conflitti etnici e crisi economiche che hanno colpito molte aree del continente hanno favorito gli spostamenti interni di popolazione. Per periodi vicini si può fare riferimento alle vicende politiche ed economiche che hanno interessato l’area dei Balcani, l’Europa orientale e la vasta area dell’ex Unione Sovietica. Alle migrazioni interne si è affiancata anche la migrazione da paesi extraeuropei, che ora rappresenta un motivo di discussione e talvolta di scontro all’interno delle istituzioni europee.

Ulteriori problemi sono rappresentati dalla diffusione della povertà ed esclusione sociale. La recente crisi economica ha reso più difficile il raggiungimento degli obiettivi di Europa 2020: l’occupazione ha sofferto nella maggior parte degli Stati membri e le disparità nelle condizioni occupazionali e sociali degli Stati membri sono aumentate.

Si può concludere dicendo che l’Europa è diventata un’area di profonda crisi demografica, con la necessità di affrontare nuovi urgenti problemi anche nell’ambito della coesione sociale.

Cina e India rappresentano due giganti demografici: quale evoluzione demografica caratterizzerà il loro futuro?
In un modello che mette insieme la tempistica della transizione demografica in Cina e in India e le implicazioni degli scenari alternativi di fecondità con lo sviluppo economico, utilizzando le misure di dipendenza, si mostra che, mentre l’indice di dipendenza totale in Cina sarà relativamente costante, il contributo positivo del calo della dipendenza dei giovani sul reddito pro capite reale sarà più importante dell’aumento della dipendenza degli anziani al 2030. Il rapporto di dipendenza dell’India diminuisce più drasticamente. La sua maggiore fecondità contribuisce positivamente alla crescita del Pil, indebolendo al contempo il suo reddito pro capite reale. Tuttavia, fintanto che la fecondità continua a diminuire, quest’ultimo effetto sarà parzialmente compensato da un dividendo demografico crescente. Sebbene gran parte del dividendo demografico della Cina appartenga al passato, le ipotesi alternative sulle tendenze future della fecondità e dei tassi di partecipazione alla forza lavoro dimostrano che la Cina non entrerà necessariamente in un periodo di «tassazione demografica» per almeno un altro decennio, se non di più. In contrasto con la Cina, gran parte del potenziale dividendo demografico dell’India sta aspettando i decenni a venire, con l’estensione e la durata che dipendono in modo critico da una serie di fattori, fra cui le scelte politiche nei confronti dell’istruzione. L’evoluzione dell’istruzione superiore in entrambi i paesi si accompagna allo sviluppo economico e descrive la situazione altrettanto bene di quanto lo faccia il quadro economico generale. I confronti tra India e Cina rivelano chiaramente che le riforme in Cina e in India sono drasticamente diverse in termini di carattere e di impatto. Quando la Cina ha scelto la strada delle riforme e della liberalizzazione controllate dal governo, anche l’India ha optato per la liberalizzazione ma con una minore vigilanza del governo. La Cina continua a vivere un periodo di espansione economica senza precedenti mentre l’India presenta svariate criticità e livelli di povertà ancora molto alti. Alcuni studiosi ritengono che lo sviluppo economico in Cina e in India nell’ultimo ventennio del secolo scorso sia dovuto principalmente alla crescente produttività, in gran parte a causa dello spostamento della manodopera dall’agricoltura all’industria e ai servizi, ma che altrettanto importante sia stato l’aumento della popolazione in età lavorativa e il tasso di partecipazione alla forza lavoro.

Quale andamento demografico presenta l’America Latina?
La popolazione del continente latino-americano ha espresso una quota crescente della popolazione mondiale, soprattutto dalla seconda metà del XX secolo: se la popolazione mondiale al 2000 era 3,7 volte quella del 1900, per la popolazione latino-americana e caraibica il rapporto è stato di 7 volte. Questo andamento è l’effetto combinato di un livello di fecondità che si è mantenuto relativamente elevato e di importanti guadagni nella sopravvivenza. Attualmente la fecondità si attesta a 2,3 figli per donna, di poco inferiore alla media mondiale (2,6), mentre la durata media della vita è 74,7 anni: supera la media mondiale di quasi 5 anni ed è superiore in misura considerevole a quella di Africa e Asia. I paesi dell’area presentano grande diversità e variabilità dal punto di vista economico-sociale, culturale e anche demografico, ma tutti stanno vivendo modificazioni considerevoli nella struttura per età delle loro popolazioni a seguito del calo dei livelli di mortalità e fecondità. C’è una significativa diminuzione della quota di bambini (di età compresa tra 0 e 14 anni) nella popolazione totale e un aumento della quota di anziani (con età dai 65 anni in avanti). I comportamenti demografici, soprattutto gli andamenti della fecondità, presentano una forte variabilità tra zone urbane e zone rurali e secondo il livello di reddito e di istruzione, ma anche a seconda del gruppo etnico di appartenenza. Caratteristica tradizionale dei paesi del continente è la bassa età all’unione e alla maternità, fenomeno particolarmente accentuato tra le donne indigene, specie nelle zone rurali.

La disuguaglianza economica è una delle caratteristiche salienti delle società latino-americane e gli indicatori di disparità nella distribuzione del reddito hanno valori tra i più alti nel mondo. Un problema preoccupante è la sovrarappresentazione dei bambini nell’aggregato formato dai poveri, in particolare tra le persone che vivono situazioni di estrema povertà. Un altro tema che dovrebbe essere all’attenzione della politica è rappresentato dalle condizioni socio-economiche degli indigeni, che sono circa l’8% della popolazione totale nella regione, il 14% dei poveri e il 17% dei poveri estremi.

Quale futuro per la popolazione mondiale?
La «questione della popolazione», centrale per il dibattito sul futuro dell’umanità dal XVIII secolo, è quasi uscita di scena negli ultimi anni. La comunità internazionale si è impegnata negli Obiettivi di sviluppo sostenibile, e sembra convinta che la popolazione abbia cessato di rappresentare una minaccia per lo sviluppo equilibrato. C’è una sorta di consenso tra i demografi che la popolazione mondiale convergerà a uno stato quasi stazionario all’inizio del prossimo secolo e questa convinzione ha dissipato la grave ansia per il futuro che ha colpito la maggior parte degli esperti di popolazione nella seconda parte del secolo scorso, anche se non tutti sono d’accordo. Queste posizioni fanno nascere molti quesiti – cui sembra difficile dare risposta – in larga parte discussi nel dibattito che ha appassionato gli studiosi negli anni più recenti. La demografia non crea per il futuro più o meno vicino problemi per lo sviluppo delle popolazioni? E ci sarà prima o poi convergenza verso un equilibrio pressoché comune fra la stagnazione demografica della stragrande maggioranza dei paesi ricchi e l’attuale esplosione demografica dei paesi più poveri, come suggeriscono le proiezioni demografiche più accreditate? Questi due opposti poli consentiranno in ogni caso la sostenibilità ambientale anche per le generazioni future, oppure il declino demografico caratterizzerà la popolazione europea, occidentale e orientale, e si assisterà all’esplosione demografica di gran parte dei paesi africani, asiatici o latino-americani che ne impedirà lo sviluppo? E come reagirà l’ambiente di fronte alla crescita smodata di alcune regioni? Nel contempo, l’aumento della popolazione ha riguardato quasi dovunque le città, sempre più sovraccariche di abitanti, spesso sottodimensionate in termini di strutture. Quali conseguenze porterà l’urbanizzazione sfrenata dei paesi in via di sviluppo, in Africa, Asia meridionale e America Latina? Infine: le disuguaglianze nord-sud ma anche sud-sud portano, assieme ai conflitti persistenti in svariate parti del globo, a flussi di migranti e richiedenti asilo che in certi periodi mettono a dura prova molte popolazioni. Che accadrà in termini di impatto sui paesi di origine e di destinazione, se non impariamo a regolarizzare questi flussi? Sono domande importanti cui non è facile dare una risposta semplice. Sostenibilità e sviluppo: due parole chiave per concludere il quadro che si è dipinto per le grandi regioni del mondo, che costituiscono lo scenario internazionale da cui parte il futuro delle giovani generazioni. Le tessere del caleidoscopio che portano a carestie, disagi e mortalità soprattutto infantile sono le popolazioni, con i flussi che continuamente si rinnovano, in un accavallarsi di generazioni che entrano, vivono, escono. Questi movimenti sono frutto dei modelli di mortalità, ancora purtroppo elevati in svariati paesi dell’Africa sub- Sahariana, dell’Asia meridionale, dell’America Latina più povera; della fecondità, troppo bassa nei paesi avanzati per garantire una popolazione in equilibrio e troppo alta nelle aree meno sviluppate, per garantire uno sviluppo armonico; delle migrazioni, causate spesso da conflitti interminabili, poco conosciuti, e da disastri naturali e climatici che contribuiscono all’aggravarsi delle condizioni di salute, soprattutto materno-infantile. Quali interventi da parte delle politiche sociali? Cosa possono fare i singoli Stati e gli organismi internazionali? Le grandi conferenze sulla popolazione, culminate nel 1994 al Cairo, hanno messo un punto ai summit demografici, durante i quali avevano stilato rapporti e dato raccomandazioni che con il tempo si sono tradotti negli Obiettivi del Millennio e dello sviluppo sostenibile, perdendo tuttavia il focus demografico. Oggi sembra che il monitoraggio degli obiettivi dia frutti in alcuni campi, ma rimangono ancora criticità in tema di mortalità infantile, discriminazione di genere e migrazione non regolata. Il monitoraggio sarà fondamentale per tenere sotto controllo le situazioni di violazione dei diritti umani, in particolare delle frange più fragili della popolazione in tema di povertà e vulnerabilità ambientale.

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