“Poliziano” di Paolo Orvieto

Poliziano, Paolo OrvietoPoliziano e l’ambiente mediceo
di Paolo Orvieto
Salerno

«La vastità e qualità della cultura di Poliziano si sono rivelate impressionanti, man mano che si sono pubblicati i suoi eruditissimi commenti, individuati i molti manoscritti di autori classici da lui postillati e dopo la lettura delle due centurie dei suoi Miscellanea e del suo sterminato epistolario. Sapere raro se non irripetibile nella fenomenologia dell’intellettuale non solo italiano e rinascimentale ma europeo e di tutti i tempi: lascia in sbigottita ammirazione. Anche se, per altro verso, aveva certo ragione De Sanctis, che additava in lui l’emblema dell’Italia dei letterati, col suo centro di gravità nelle corti. È innegabile che in questa fase della cultura fiorentina si sarebbe perpetrata la lacerante frattura tra potere politico – e intellighenzia organica al potere – e popolo: l’intellettuale, con esempio massimo Poliziano, persegue una cultura sempre più elitaria e aristocratica, con l’unico scopo di dare lustro al signore, di assicurargli quel primato che con le armi risultava sempre più improbabile o impossibile. Poliziano è in tutta la sua vita “uomo mediceo”, precettore dei figli di Lorenzo, simbioticamente legato al suo signore e padrone Lorenzo, infine coinvolto con la sua tragica e misteriosa morte nel crollo della casa Medici dopo la morte di Lorenzo e la presa di potere del certo non amato Piero.

Per volere del Magnifico, la cultura fiorentina viene, per gradi successivi, nobilitata, in nome di una supremazia “medicea” che è insieme culturale e politica, sempre più ostile alla cultura degli umanisti-cancellieri della prima metà del Quattrocento (in particolare di Salutati e di Bruni), che avevano sostenuto uno stretto connubio tra studia humanitatis e impegno civile e politico del civis. Prima di tutto politico è lo spostamento “ideologico” del primato dalla vita attiva alla vita contemplativa, dalla vita civile all’estasi mistica (di Ficino).

La decisa svolta in senso elitario e antipopolare della cultura fiorentina avviene dopo il 1479, ed è ben comprensibile, visto il pericolo di una gestione oligarchica se non democratica del potere; dopo quell’evento traumatico che fu la ben nota congiura de’ Pazzi, con l’assassinio di Giuliano de’ Medici e con la successiva minaccia della stessa sussistenza non solo del potere mediceo ma di Firenze.

È indubbio che con Poliziano, per sue doti connaturate di intellettuale puro e tramite la regia dall’alto di Lorenzo, la cultura a Firenze cambi i suoi contenuti: si raffina in senso sempre più elitario e antipopolare, sacrificando il delectare […] per l’esclusivo docere. Poliziano, dall’adolescenza, mette subito le carte in tavola, già fin dalla sua traduzione in esametri latini del II libro dell’Iliade, cominciata addirittura nel 1469: insomma l’appellativo di «homerucus adulescens» datogli da Ficino definisce perfettamente un quasi fanciullo che può ben vantarsi di essere trilingue (volgare, latino e greco).

La prima fase culturale fiorentina è di pacifica coesistenza tra una letteratura in cui permangono ben riconoscibili le stigmate popolari, aperta ai più differenti, corali e pluriculturali contributi, anche se gli esiti espressivistici e vernacolari di Poliziano, già attore di prima fila, sono fenomeni “riflessi”, altra esibizione di un coltissimo e policromo repertorio linguistico. La successiva fase culturale, più specificamente polizianea, è più raffinata, latina e poi sempre più greca, possibile solo previa eruditissima collatio e interpretazione filologica di ogni autore e di ogni disciplina (l’ideale è assolutamente enciclopedico); certo non più corale e cittadina, man mano più estranea alla cultura e alle occasioni festive popolari della città (tornei, giostre, carnevali, ecc.), che era poi la cultura degli oligarchi, di una città che era ancora, anche se solo formalmente, a statuto repubblicano. Campione di quella stagione, poi sintomaticamente emarginato, fu senza dubbio Luigi Pulci, poeta che, tra i molti referenti poetici e culturali ricordati nell’importante Elegia al Fonzio, Poliziano non cita neppure di sfuggita.

Prima del 1479 abbiamo una cultura e quindi una poesia che possiamo definire à double face, segnata da un eccezionale sperimentalismo linguistico, composita miscela di poesia degli umanisti (il latino è lingua soprattutto medicea) e di affermazione del primato del volgare, quindi a destinazione pluriclassista o, se si vuole, multilivellare, che è poi espressione di un regime oligarchico, con una famiglia, i Medici, che svolge il ruolo importante ma non esclusivo di prima inter pares. La tipologia “da brigata” dei protagonisti indica una partecipazione corale, senza sbarramenti o preclusioni, con protagonisti e deuteragonisti delle più potenti e ricche famiglie, ma con inclusi nel coro anche gli eroi popolari di Firenze.

Poliziano ha già fin dagli esordi una funzione parallela a quella svolta nel settore filosofico da Ficino e da Landino: di elevare il tono popolare della cultura fiorentina. Il risultato è una poesia in cui, nonostante la miscelazione di tradizione volgare con i grandi classici soprattutto latini, si riconoscono pur sempre le radici volgari e addirittura popolari; poesia “democratica”, polifonica e municipale, per molti aspetti ancora provinciale. Oppure, si ripropongono tipologie poetiche (la laus della bella puella o il vituperium contro l’avversario o la vecchia laida) largamente sperimentate, sia in latino che in volgare. Data la miscelazione che possiamo definire ancora paritetica di classico e volgare, la poesia, in questa stagione letteraria, è a libero accesso: per poeti di differente cultura ed estrazione. […]

Sul discrimine tra prima e seconda stagione poetica polizianea (o fiorentina) ho posto l’eccezionale Sylva in scabiem, altissimo esempio di virtuosistico collage delle più disparate citazioni – dalla poesia dei classici, ma anche dalla letteratura medica – chiamate a raccolta per trattare il tema ancora una volta – dopo il prelibato epicedio per Albiera degli Albizi – di una ributtante malattia i cui effetti sono spietatamente osservati sul corpo e sulla psiche del poeta: forse è anche metafora di una devastante sindrome collerica per essere stato tradito dall’amato signore Lorenzo. […]

Se Lorenzo si professa poeta filosofo-teologo, Poliziano sa di essere grammaticus et non philosophus. Non ha nessuna fede o tesi da dimostrare: difficile rintracciare un’idea portante e coacervante nelle sue opere, costruite come sono a ondate successive, perché, ripetiamo, “filosofo” non lo è stato e non è voluto esserlo; anche se poi, alla fine della sua carriera di intellettuale e di professore, un’accorata conversione alla filosofia (ad Aristotele in particolare) c’è, e grazie all’amato sodale Giovanni Pico della Mirandola. I due grandi intellettuali, gli unici fedeli che Lorenzo ha voluto al suo letto di morte, gestiscono l’ultima stagione della Firenze medicea, in un rapporto di solidarietà che va ben oltre la stima reciproca. […]

Tutta la grandezza di Poliziano sta solo nella sua professione di fede nella filologia, nei suoi dottissimi corsi tenuti all’università fiorentina dal 1480 al 1494, nell’aver perciò elevato la cultura fiorentina (e quindi medicea) al prestigio nazionale e internazionale, previa lotta senza esclusione di colpi con gli altri intellettuali, organici ad altri signori di città concorrenti. Sta poi anche nel suo ideale di una cultura assolutamente enciclopedica – senza esclusione dei testi giuridici, medici, astronomici, filosofici, ecc. –, di un sapere concepito come interminabile work in progress, sempre passibile, fino al giorno della morte, di ulteriori aggiornamenti e correzioni. Naturalmente si tratta di un “grammatico” che è stato anche grande poeta, in parallela competizione coi poeti volgari fiorentini e addirittura coi grandi classici. E, infine, anche esempio di intellettuale organico al potere, di un poeta assolutamente laico, ma pronto anche a sterzate teologiche o ortodossamente cristiane (tali sono le sue ultime opere) quando politicamente imposte dall’alto.»

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