
Partiamo dalla prima di queste dicotomie: l’interesse di un qualunque attore risponde alla sua razionalità o alle sue percezioni? Come spesso accade nelle scienze sociali, non esistono risposte corrette e risposte sbagliate, in questo caso. Banalmente, propendere per l’una o per l’altra concettualizzazione porta a fare alcune scelte di ricerca e non altre.
La seconda dicotomia – tra interesse materiale e immateriale – è decisamente più importante. Non solo e non tanto perché inestricabilmente connessa alla precedente, ma perché aiuta a gettare nuova luce su opinioni e credenze tanto diffuse quanto erronee. È infatti piuttosto noto – qualunque lettore potrà confermarlo sulla base della propria esperienza personale – che la stragrande maggioranza dei cittadini, quando pensa ai gruppi di interesse, ha in mente un qualche tipo di organizzazione che difende o propugna un interesse di tipo materiale: una associazione imprenditoriale, un sindacato, un’impresa, una multinazionale, e così via. È invece assai difficile che il cosiddetto “uomo della strada”, se richiestogli di fare un qualche esempio concreto di gruppo di interesse, indichi un’associazione ambientalista o per i diritti civili. Questo perché, a monte, nell’opinione pubblica la concezione largamente dominante di interesse è di tipo materiale invece che immateriale. Ebbene, sul punto occorre il massimo della chiarezza possibile: tale concezione non è soltanto eccessivamente limitante; è proprio sbagliata. Un interesse può essere tanto di natura materiale, quanto immateriale. Può riguardare un qualche tipo di beneficio economico quanto una soddisfazione psicologica o anche sociale.
Anche sull’ultima dicotomia – quella tra interesse individuale e collettivo – occorre soffermarsi con attenzione. Per quanto l’interesse attorno al quale si costituisce un gruppo è per sua stessa natura di tipo collettivo invece che individuale, quello stesso interesse non viene (quasi) mai percepito come pubblico e, di conseguenza, non esisterebbero gruppi a difesa dell’interesse pubblico. Non è così: tanto quanto l’interesse rappresentato può essere materiale o immateriale, allo stesso modo può essere individuale, collettivo o pubblico.
Se tutto questo è vero, non stupirà quindi che la definizione che va per la maggiore in letteratura intenda l’interesse come la propensione (individuale o collettiva) a perseguire il proprio utile, materiale o immateriale, oggettivamente definito o soggettivamente inteso. Decisamente ampia, lo riconosco, ma non potrebbe essere altrimenti.
Cos’è e come viene misurata l’influenza?
Anche il concetto di “influenza”, come quello di “interesse”, ha una lunga storia alle spalle. Lo si può senz’altro considerare come il concetto più importante all’interno di tutta la letteratura sui gruppi di interesse e il lobbying: proprio tale aspetto è infatti centrale nella nostra comprensione del ruolo che i gruppi rivestono all’interno del complessivo sistema democratico. L’analisi dell’influenza, in altri termini, rappresenta un po’ il Santo Graal della disciplina: (quasi) tutti vi si dedicano, per quanto sia difficile. Le difficoltà sono sia di carattere teorico – ovvero attengono alla delimitazione analitica del concetto di influenza – sia maggiormente legate alle modalità di rilevazione empirica della stessa.
Dal punto di vista della delimitazione analitica, i contributi più recenti suggeriscono di concettualizzare l’influenza quale controllo sui risultati di policy, rilevabile sulla base della distanza tra gli esiti che si sono prodotti (o non si sono prodotti, in caso di conservazione dello status quo) in quel determinato settore di policy e i “punti ideali” espressi da tutti gli attori partecipanti. In questo senso, l’attore che mostra la minore distanza tra le proprie preferenze e le politiche prima entrate in agenda, quindi decise, ed infine implementate, sarà anche quello che, nel complessivo processo decisionale, avrà esercitato la maggiore influenza.
Tuttavia, tale impostazione è soggetta ad alcune importanti limitazioni. Prima di tutto, è plausibile ritenere che un qualsiasi gruppo di interesse, nel processo di contrattazione che lo riguarda, decida di esagerare le proprie richieste iniziali, così da raggiungere il miglior risultato possibile. Questa strategia, del tutto razionale, impedisce l’oggettivo riscontro dello scarto tra il punto ideale e l’output di policy, impossibilitando di conseguenza la misurazione dell’influenza effettiva che quel gruppo esercita all’interno del processo decisionale. Un altro ostacolo viene poi rappresentato dal fatto che l’influenza di un qualche gruppo non sia l’unica forza che spinge i decisori pubblici verso una determinata soluzione. Detto altrimenti: invece che influente, un determinato gruppo di interesse potrebbe soltanto essere stato fortunato.
Ovviamente, i suddetti problemi sono ben noti alla comunità scientifica. Ecco perché, all’interno di tale comunità, è possibile individuare un buon numero di analisti che – molto semplicemente – credono che la rilevazione e misurazione dell’influenza esercitata dai gruppi nel processo decisionale sia impossibile. Una chimera, insomma. Tali studiosi – li definirò “pessimisti” – ritengono infatti che le difficoltà metodologiche sopra ricordate siano sostanzialmente insormontabili. Tuttavia, non di soli pessimisti è popolata la comunità scientifica (per fortuna). Ci sono infatti anche i cosiddetti “ottimisti”, dei quali mi onoro di fare parte, che al contrario ritengono le criticità sinora discusse fortemente limitanti l’analisi dell’influenza, ma non al punto da impedirla. La posizione di questi ultimi può essere sommariamente riassunta come segue: per minimizzare e rendere quindi accettabile (eliminarlo del tutto è tuttavia impossibile) il rischio che le rilevazioni empiriche restituiscano l’immagine di un gruppo di interesse davvero influente, e non soltanto fortunato, è necessario ricostruire il processo decisionale nei suoi più importanti snodi, così da comprendere se e quanto uno specifico attore si è effettivamente mobilitato – e come lo ha fatto – per giungere ad un determinato risultato.
Quali approcci teorici allo studio dei gruppi di interesse sono stati sviluppati?
Storicamente, lo studio dei gruppi di interesse e del lobbying è stato condotto sulla base di due grandi prospettive analitiche: due modelli olistici e onnicomprensivi che ricostruivano il ruolo degli interessi organizzati nel complessivo sistema politico. Mi riferisco all’approccio pluralista, andatosi diffondendo nei paesi anglosassoni, e all’approccio neo-corporativo, sviluppatosi in riferimento ai principali paesi dell’Europa continentale.
Dal punto di vista cronologico, la prospettiva pluralista allo studio dei gruppi viene prima: per quanto le sue premesse filosofiche possano essere fatte risalire sino al XVIII secolo, è Toqueville il suo primo vero precursore ed è nell’opera di Arthur Bentley all’inizio del ‘900 il suo effettivo momento fondativo. In estrema sintesi, il pluralismo si poggia su quattro assunti fondamentali: innanzitutto, che la società debba essere intesa come un complesso agglomerato di differenti gruppi di interesse. In seconda battuta, che gli individui sono generalmente consci degli interessi che condividono tra di loro e altrettanto in grado di comprendere se e quando qualcuno o qualcosa li minaccia. In terzo luogo, che non esistono reali barriere alla mobilitazione dei cittadini che vogliono difendere i propri interessi. In ultimo, che non esista un unico centro di potere statale, ma una serie di punti di accesso istituzionale presso cui i vari gruppi di interesse possono far sentire la propria voce. Detto altrimenti, lo Stato – e, più precisamente, i decisori pubblici che occupano cariche apicali all’interno di questo – assolverebbe una funzione quasi “notarile” nel processo decisionale, limitandosi ad approvare politiche pubbliche che molto banalmente ricalcano gli esiti della competizione tra tutti gli interessi presenti all’interno della società. Da questa impostazione deriva logicamente l’impossibilità – per le autorità politiche – di perseguire un benessere collettivo declinato come fosse una “volontà generale” à la Rousseau. Al contrario, per i pluralisti il bene collettivo risulta dal punto di equilibrio tra le concomitanti pressioni esercitate da una pluralità di gruppi, che più sono, e più risultano efficienti dal punto di vista sistemico.
Affinché tale impianto analitico dimostri una qualche capacità di descrivere accuratamente la realtà empirica, tuttavia, sono necessarie (almeno) tre condizioni di contesto che nel mondo reale – soprattutto al di fuori del sistema americano – non sempre appaiono effettivamente presenti: innanzitutto, che la competizione tra i differenti gruppi sia improntata al pragmatismo e che dunque tenda ad evolvere in soluzioni di compromesso invece che nella semplice prevalenza di un interesse su un altro; in secondo luogo, che ciascun gruppo di interesse sia egualmente capace di accedere all’arena politica; infine, che il decisore pubblico sia completamente neutrale rispetto agli interessi in competizione, e che dunque sia propenso ad ascoltare allo stesso modo tutte le istanze presentate da tutti i gruppi. Come è evidente sin da una prima occhiata, si tratta di condizioni spesso inattuate.
Ecco perché, soprattutto a partire dagli anni ’70 del secolo scorso, in contrapposizione all’approccio pluralista si è sviluppata un’opposta visione dei rapporti tra il centro del potere politico e quei gruppi organizzati che rappresentano i più importanti interessi all’interno delle società capitalistiche occidentali. Molti scienziati politici, proprio a partire da questo momento storico, hanno infatti notato sempre più evidenti segnali di collaborazione tra i governi e questi gruppi nella formazione ed implementazione delle politiche pubbliche, soprattutto – come dicevo poc’anzi – in Europa continentale. Si tratta di un vero e proprio capovolgimento delle dinamiche di rappresentanza degli interessi messe in luce dagli studiosi pluralisti: laddove l’approccio pluralista ipotizzava forte competizione tra un gran numero di gruppi di interesse, l’approccio neo-corporativo sostiene il monopolio della rappresentanza da parte di uno o pochi gruppi per settore. Se gli autori pluralisti vedevano nella mobilitazione dei gruppi di interesse una forma di contropotere rispetto all’azione statale, gli studiosi neo-corporativi teorizzano il coinvolgimento dei principali interessi organizzati nel processo decisionale e la relativa collaborazione tra questi stessi interessi e i decisori pubblici. Laddove il pluralismo dipingeva lo Stato quale garante degli accordi di compromesso raggiunti tra i molti gruppi di interesse in continuativa competizione tra loro, il neo-corporativismo riporta l’attore statale al centro, facendone non soltanto il cardine del sistema e l’iniziatore di tutte le politiche pubbliche, ma anche il vero e proprio promotore delle istituzioni corporative, che contribuisce a creare attraverso il rafforzamento dei principali gruppi: segnatamente, i sindacati dei lavoratori e le associazioni degli imprenditori.
Ciò che conta, ad ogni modo, è che anche l’approccio neo-corporativo ha presto mostrato la corda: soprattutto, la capacità non soltanto esplicativa, ma anche descrittiva, del neo-corporativismo appare inestricabilmente connessa ad una serie di fattori contingenti propri degli anni ’70, che una volta scomparsi (o, per lo meno, fortemente attenuati) ne hanno fatalmente minato alla base l’utilità. Tale approccio ha infatti mantenuto una certa centralità nella spiegazione della rappresentanza degli interessi nelle democrazie occidentali fintantoché l’economia ha mantenuto un elevato tasso di espansione e i sindacati dei lavoratori un forte potere contrattuale, conseguenza di un’estesa base di dipendenti sindacalizzati. Una volta che tali condizioni di contesto sono mutate, anche il potere di fascinazione dell’approccio neo-corporativo è venuto meno.
Ecco perché, negli ultimi anni, tanto l’approccio pluralista quanto quello neo-corporativo non appaiono più idonei non soltanto a spiegare, ma nemmeno a descrivere in maniera analiticamente corretta le dinamiche di rappresentanza degli interessi andatesi recentemente sviluppando. Di conseguenza, soprattutto a partire dagli anni ’90 del secolo scorso, gli studiosi dei gruppi di interesse e del lobbying hanno preferito abbandonare la pretesa di proporre grandi approcci teorici onnicomprensivi della interest group politics, per invece limitare la propria attenzione analitica al solo processo di policy. Detto altrimenti, si è andata sempre più diffondendo la convinzione che gli strumenti più utili per lo studio dei gruppi di interesse e del lobbying fossero quelli dell’analisi delle politiche pubbliche, e che dunque fosse necessario comprendere il comportamento di tali attori in relazione a ben specifici processi di policy, a loro volta connotati da una ben determinata configurazione di attori e relazioni. Le analisi si sono dunque fatte meno ambiziose, ma più empiricamente orientate e, dunque, utili all’interpretazione dei più complessi fenomeni politici e sociali.
Quale ruolo svolgono i gruppi di interesse nelle democrazie contemporanee?
Bella domanda… Sta forse proprio in questo aspetto il grande fascino che accompagna lo studio di tali attori: i gruppi di interesse appaiono infatti quali organizzazioni politiche il cui ruolo – tanto nel processo decisionale quanto, per estensione, all’interno del complessivo sistema democratico – è per definizione contraddittorio. Tale ambiguità è del resto oggetto di ampio dibattito all’interno della letteratura politologica, non soltanto contemporanea. Da un lato, i gruppi di interesse fungerebbero da contropotere all’azione dei governanti, impedendo così che la loro azione politica risulti del tutto irresponsabile rispetto a parti importanti della società civile; dall’altro, allorquando tale potere diventasse tuttavia eccessivo, inserirebbero un elemento di distorsione all’interno del circuito democratico-rappresentativo.
Che i gruppi di interesse e il lobbying non siano affatto deleteri per la democrazia è in ogni modo dimostrato da un fatto incontrovertibile: è infatti nei sistemi non democratici, e certo non in quelli pienamente democratici, che l’attività di lobbying è espressamente vietata. Questo perché è pacificamente accettato che uno qualsiasi della miriade di interessi che innervano le società contemporanee abbia il diritto di perseguire una qualche propria istanza. Vietare che una parte della cittadinanza – per quanto infinitesima – possa cercare di portare avanti le proprie rivendicazioni, quello sì, sarebbe una distorsione inaccettabile del processo democratico. È però ovvio che la responsabilità di scegliere a quale interesse prestare ascolto, in ultima istanza, resta alla politica.
Quali sono le principali tattiche e strategie di lobbying?
Il lobbying è un’attività multiforme e contestuale: i corsi d’azione che un lobbista può intraprendere sono molteplici, così come i fini che può porsi. Se tuttavia si vuole presentare un po’ più nel dettaglio la “cassetta degli attrezzi del lobbista”, fornendo un elenco sistematico delle opzioni strategiche che gli si parano innanzi al momento dell’attivazione politica, il primo elemento di chiarezza da fornire è che l’attività di lobbying viene svolta sia attraverso un’azione di back-office, sia di front-office. Si tratta di due momenti di eguale importanza. Nello specifico, il cosiddetto “back-office lobbying” si sostanzia in quattro fasi consecutive: il monitoraggio dell’attività politica e legislativa; la definizione degli obiettivi da perseguire; la mappatura degli attori decisionali, in termini di interessi affini, interessi contrapposti, decisori pubblici coinvolti; l’elaborazione del piano strategico. Il “front-office lobbying”, invece, consiste nella concreta messa in opera del piano strategico predisposto, e può ovviamente mutare al mutare delle condizioni di contesto.
Prima di tutto, il lobbista deve tenere costantemente monitorato il cosiddetto “momento politico”: quali temi monopolizzano il dibattito pubblico nazionale; quali proposte di legge sono in quel momento in discussione in commissione; quali invece sono già al vaglio dell’aula; su quali argomenti sta focalizzando la propria attenzione la Commissione o il Parlamento Europeo; e così via. Tale attività – per quanto preliminare alla vera e propria azione lobbistica – risulta fondamentale: muoversi per tempo è infatti decisivo, stante la crescente difficoltà – per qualsiasi lobbista – di esercitare influenza a mano a mano che il processo decisionale si avvicina alla conclusione. Gran parte del successo finale dipende dunque dal tempismo del lobbista.
In seconda battuta, il monitoraggio del momento politico rende possibile la definizione degli obiettivi da perseguire. Tale attività può essere sia di natura reattiva che pro-attiva. Un lobbista reagisce al momento politico che costantemente monitora se e quando una determinata proposta di legge – che ha un impatto diretto o indiretto sugli interessi che è chiamato a rappresentare – viene calendarizzata. Ma l’azione del lobbista può anche essere pro-attiva: nello specifico, egli può provare ad imporre in prima persona un tema all’attenzione del legislatore, magari sfruttando il clima di opinione che è andato creandosi nel sistema politico di riferimento.
Una volta che si è concluso il monitoraggio e si sono definiti gli obiettivi da perseguire, il terzo compito da assolvere nella fase di back-office lobbying è quello della cosiddetta mappatura: degli interessi affini, al fine di comprendere se vale la pena (provare a) costruire una coalizione di interessi; degli interessi contrapposti, così da avere più chiare le possibilità di successo della propria azione; dei decisori pubblici, non tanto dal punto di vista formale, quanto da quello sostanziale. Si tratta, nel complesso, di un’analisi di scenario che consente al lobbista di pianificare le proprie azioni successive in un contesto – se non di assoluta razionalità – per lo meno di limitata incertezza. L’ultimo step di questa prima parte dell’attività di lobbying consiste nell’elaborazione del piano strategico: sulla base del monitoraggio dell’attività politico-legislativa, della definizione dell’obiettivo e della mappatura degli interessi affini e contrapposti, nonché degli attori pubblici dotati di potere decisionale, il lobbista sarà dunque in grado di predisporre una serie di azioni specifiche, alle quali darà piena attuazione nel passaggio da back-office lobbying a front-office lobbying.
Questa seconda parte rappresenta certamente quella maggiormente analizzata dagli studiosi, principalmente perché documentabile dal punto di vista empirico. Sul punto, la principale linea di demarcazione attiene alla contrapposizione tra lobbying diretto e lobbying indiretto. Nel primo caso, il lobbista cerca un contatto non mediato col decisore pubblico, sia esso politico o burocratico: nello specifico, significa organizzare un incontro (formale o informale) con un qualche attore istituzionale, nel quale sottoporgli il cosiddetto “position paper”, e cioè un documento estremamente sintetico (non più di due-tre pagine) in cui viene espressa una specifica preferenza di policy e le sue specifiche motivazioni. Nel secondo, il lobbista punta invece sulla mobilitazione di altri tipi di attori – il sistema dei media, gli aderenti al gruppo che rappresenta, il sistema giudiziario – per premere sul decisore pubblico in maniera indiretta. Più nel dettaglio, scegliere questa seconda opzione comporta il ricorso al cosiddetto lobbying mediatico – attraverso la pubblicazione di comunicati stampa o il costante aggiornamento delle proprie pagine sui social media – al lobbying mobilitativo – tramite l’organizzazione di manifestazioni, scioperi, petizioni, ecc. – e al lobbying giudiziario – fondato principalmente sull’opportunità di fare ricorso contro una specifica decisione considerata lesiva degli interessi rappresentati.
Che relazioni si instaurano tra gruppi di interesse e partiti politici negli Stati Uniti d’America e in Europa occidentale?
Anche qui, un paio di note introduttive sono necessarie. La prima riguarda il fatto che, per quanto possa apparire a prima vista bizzarro, la letteratura che ha studiato le forme di interazione tra gruppi e partiti non è particolarmente copiosa. Al netto di un limitato numero di eccezioni – tra le quali, soprattutto, lo studio del caso italiano di Prima Repubblica e della relazione tra sindacati e partito laburista in Gran Bretagna – gli studiosi dei gruppi e quelli dei partiti hanno dialogato con scarsa frequenza nel passato. Ciononostante, e proprio in questo si sostanzia la seconda nota introduttiva, l’interazione tra gruppi e partiti è stata studiata – dal punto di vista empirico – sulla base di molte differenti dimensioni d’analisi: ad esempio, in riferimento alla costruzione di contatti formali ed informali, o sulla base dell’affinità ideologica tra le due organizzazioni; ancora, a proposito di scambi di tipo materiale (si pensi ai finanziamenti, ma non solo), così come relativamente ad una dimensione, per così dire, strategica e contingente e, infine, in ragione del rapporto di potere strutturalmente instauratosi tra le due organizzazioni, principalmente in termini di indipendenza, interdipendenza o dipendenza di un attore dall’altro.
Da questo punto di vista, le suddette dimensioni d’analisi hanno ricevuto variabile attenzione al di qua e al di là dell’Oceano Atlantico: la letteratura americana ha preferito soffermarsi sulla dimensione materiale (relativamente alle donazioni finanziarie) e su quella strategica; al contrario, gli studiosi europei si sono soprattutto focalizzati sui contatti formali ed informali, sulla dimensione ideologica e sul rapporto di potere tra le due organizzazioni. Non si tratta di un caso. Nello specifico, la dimensione materiale è infatti fondamentale nel contesto nord-americano, con costi legati alla competizione politica molto alti e nessuna forma di finanziamento pubblico a partiti e candidati: dati tali vincoli, i gruppi di interesse rappresentano spesso i principali finanziatori della campagna elettorale; sia quella per il Congresso, sia e soprattutto quella per la Casa Bianca. La dimensione strategica è invece particolarmente studiata in quanto le relazioni tra gruppi e partiti, negli Stati Uniti, sono assai mutevoli e contingenti; soprattutto, a causa dell’assetto maggioritario, della frequente alternanza di governo e della scarsa istituzionalizzazione e coesione dei partiti americani, poco funzionale all’instaurazione di relazioni strutturali. Al contrario, la spiccata – per quanto in diminuzione – coesione interna dei partiti europei, insieme ad una cifra ideologica decisamente superiore che non nel caso dei partiti democratico e repubblicano negli USA, hanno fatto sì che proprio la dimensione ideologica, nonché lo studio di relazioni di più lungo periodo rappresentassero il naturale terreno di analisi per gli studiosi del Vecchio Continente.
In riferimento al sistema politico americano, tuttavia, più che di relazioni tra gruppi e partiti sarebbe il caso di parlare di relazioni tra gruppi e parlamentari: gli studiosi, infatti, si sono principalmente soffermati sulla costituzione e sugli esiti dei cosiddetti PACs (Political Action Committees). A tal proposito, si è evidenziata la rilevanza del fattore ideologico e di quello legato all’incumbency nello spiegare quale gruppo finanzia quale candidato, e al contempo si è variamente dimostrata l’infondatezza del pregiudizio secondo il quale i finanziamenti privati siano in grado di comprare il legislatore, portandolo a votare esclusivamente in favore degli interessi di chi ne ha sostenuto la campagna elettorale. In buona misura, si tratta di un mito che non ha riscontro nella realtà dei fatti. Ad ogni modo, in termini molto generali, non è sbagliato sostenere che le relazioni tra gruppi e partiti, nel corso del tempo, sono andate decisamente indebolendosi, tanto che la pratica – un tempo piuttosto diffusa – di stringere particolari e speciali alleanze sulla base di comuni visioni politico-ideologiche ha ormai lasciato inesorabilmente il passo al cosiddetto appello multipartitico. La ricerca empirica, soprattutto in riferimento all’Europa Occidentale, ha largamente confermato tale tendenza, in particolare rispetto al rapporto – un tempo assai stretto – tra partiti di sinistra e sindacati dei lavoratori. I risultati sono invece più contraddittori a proposito del caso americano: a Capitol Hill l’interazione tra partiti politici e gruppi di interesse non sembra oggi meno intensa che nel passato.
Come avviene l’accesso alle sedi istituzionali negli Stati Uniti d’America e nei paesi dell’Europa occidentale?
Si tratta di dinamiche complesse, che tuttavia possono in ultima istanza essere ricondotte all’esplicitazione di uno scambio politico tra decisori pubblici, da un lato, e gruppi di interesse e propri lobbisti, dall’altro. Questi ultimi, infatti, dispongono di informazione dettagliata e conoscenza profonda del proprio settore di policy. In una parola: expertise. In più, le grandi organizzazioni di interesse sono anche formidabili strumenti per veicolare il consenso.
Come risulta evidente, sia la conoscenza tecnica, sia la capacità di reperire e veicolare consenso, sono risorse assolutamente cruciali per i decisori pubblici, chiamati a produrre legislazione “di qualità” e, soprattutto, a venire continuativamente rieletti. Si viene dunque a sostanziare, tra gruppi di interesse e loro lobbisti, da un lato, e policymakers, dall’altro, uno scambio vicendevolmente vantaggioso: i primi forniscono ai secondi risorse che questi ultimi valutano per loro cruciali, ricevendone in cambio accesso istituzionale. Ne deriva dunque che non tutti i gruppi di interesse godranno del medesimo livello di accesso, in quanto tale accesso dipenderà dal quantitativo e dalla varietà di beni di interesse per i decisori pubblici che ciascun gruppo è in grado di offrire. Più precisamente, tali “beni funzionali all’accesso” sono molti e variegati: tra questi, la letteratura ha enfatizzato ad esempio l’ampiezza della membership, il grado di rappresentatività, le risorse economico-finanziarie, le risorse conoscitive, sia tecniche che politico-elettorali, la reputazione. In termini generali, maggiore la quantità e qualità di risorse a disposizione, maggiore l’accesso istituzionale.
Dal punto di vista empirico, la ricerca più recente – sia al di qua, sia al di là dell’Oceano Atlantico – ha sostanzialmente confermato le aspettative teoriche, verificando come nell’accesso alle principali sedi istituzionali sia ravvisabile un forte squilibrio tra pochi gruppi continuativamente coinvolti e una grande maggioranza di interessi, al contrario, ripetutamente esclusi. Più nel dettaglio, negli Stati Uniti si è dato particolare risalto al ruolo delle risorse conoscitive e si è dimostrato un forte vantaggio competitivo di cui godono gli interessi imprenditoriali, più in riferimento all’arena burocratica che non a quella legislativa. In aggiunta, una speciale rilevanza è stata attribuita alla vicinanza ideologica, soprattutto in relazione alla Presidenza: nel caso americano, infatti, è molto più probabile che gruppi di interesse e lobbisti tendano ad interfacciarsi con policymakers che già, a grandi linee, ne condividono il punto di vista, piuttosto che con decisori pubblici tendenzialmente ostili alle proprie posizioni. Anche per ciò che concerne i paesi europei, il predominio dei gruppi imprenditoriali è stato variamente confermato. Tuttavia, nel corso del tempo tale forma di squilibrio sembrerebbe in riduzione, pur con qualche significativa eccezione.
Che effetti ha il coinvolgimento dei gruppi di interesse sul funzionamento della democrazia nel suo complesso?
A questa domanda ho in parte già risposto in precedenza: il lobbying è un fenomeno ineludibile di qualsiasi sistema democratico. Per determinarne un impatto positivo o negativo sul funzionamento della democrazia nel suo complesso è necessario analizzarlo dal punto di vista empirico e verificare se e quanto tra interessi contrapposti è possibile evidenziare un qualche equilibrio. Maggiore il numero dei gruppi influenti e, soprattutto, più varia la loro natura (dal punto di vista degli interessi rappresentati), maggiore la qualità della democrazia; al contrario, sistemi politici connotati da un ristretto numero di grandi organizzazioni d’interesse continuativamente vincenti e da un molto più alto numero di gruppi continuativamente perdenti – nel processo decisionale – sono anche quelli in cui il funzionamento democratico è qualitativamente peggiore. In aggiunta, studiare il contributo dei gruppi di interesse nel policymaking significa anche e soprattutto verificare se e quanto il loro coinvolgimento ha un impatto sulla qualità del policy design, l’efficacia delle misure approvate e la possibilità che tali misure vedano un’implementazione accurata, partecipata e condivisa. Oggi più che mai, non si tratta di questioni di poco conto.
Andrea Pritoni è professore associato di Scienza politica presso il Dipartimento di Culture, Politica e Società dell’Università di Torino. È anche autore di Poteri forti? Banche e assicurazioni nel sistema politico italiano (2015)