“Poetry, Bible and Theology from Late Antiquity to the Middle Ages” di Michele Cutino

Prof. Michele Cutino, Lei è autore del libro Poetry, Bible and Theology from Late Antiquity to the Middle Ages edito da De Gruyter: quale rapporto esiste fra teologia politica e poesia nella latinità tardoantica?
Poetry, Bible and Theology from Late Antiquity to the Middle Ages, Michele CutinoÈ evidente che nella formazione stessa di una poesia cristiana ha giocato un ruolo fondamentale, almeno in Occidente, determinando altresì il suo grande sviluppo rispetto alla produzione greca, il tornante ‘costantiniano’. Basta citare a tal riguardo l’epilogo degli Evangeliorum libri di Giovenco (IV, 802-812), poema con cui si inaugura questa nuova, originale stagione della poesia latina. In questo epilogo, infatti, che J. Fontaine aveva efficacemente definito ‘un panegirico in miniatura, coronato da une dossologia cristica’, il poeta spagnolo non si limita ad affermare di aver ricevuto la forza della fede e il dono gratuito di una luce che gli permette di avvolgere il Vangelo negli ornamenti del linguaggio poetico, ponendosi così nel solco del riconoscimento alla divinità di ogni origine di ispirazione del discorso poetico. C’è di più. Egli riconosce che non avrebbe mai potuto dedicarsi all’attività poetica senza il doppio dono della pace spirituale di Cristo e della pace materiale assicurata dall’imperatore, il riconoscimento del vero unico Dio da parte del quale permetteva appunto di cantare finalmente le verità biblico-cristiane. Tale parallelismo istituito dall’autore fra pax Christi e pax saeculi non può non essere accostato all’analoga associazione nella poesia di Virgilio fra la sua attività poetica e la celebrazione della Pax Augusti che sembrò inaugurare una nuova età di felicità per gli uomini. Nel proemio del primo libro delle Georgiche, il Mantovano inserisce un elogio solenne di Cesare Ottaviano, protettore delle città e dei campi, sovrano di ogni stagione, destinato ad ascendere all’Olimpo (vv. 24-42). Ma soprattutto nel nome di Cesare Ottaviano si chiude il quarto e ultimo libro delle Georgiche (vv. 559-62): il poeta afferma di aver potuto cantare la cultura dei campi, dei greggi e degli alberi, mentre il grande Cesare (Caesar magnus) scagliava fulmini in guerra presso l’Eufrate e, vincitore, dettava le leggi alle genti pronte a obbedire e si apriva la via all’Olimpo. L’instaurazione di una pax forte e giusta a fondamento di un nuovo ordine sociale grazie alla vittoria di Augusto fa il paio con la corrispondenza postulata alla fine degli Evangeliorum libri fra la sovranità di Costantino sulla “terra aperta” (terrae regnator apertae), -non solo perché l’ecumene romano si era riaperto grazie alla nuova età di pace e di sicurezza promossa da Costantino, ma anche in virtù della liberazione in tutto l’ Impero dal dominio della falsa religione- e il regno eterno del Dominus lucis. I poeti cristiani, dunque, continuano in modo speculare le prospettive di teologia politica della poesia classica.

È legittima l’attribuzione della qualifica di ‘teologi’ ad autori che esprimono contenuti di fede in generi poetici in gran parte ereditati dalla classicità pagana?
Bisogna innanzitutto aver chiaro che l’uso dei generi poetici da parte dei cristiani di lingua greca e latina inizia molto più tardi (soprattutto dalla fine del III secolo / inizio del IV secolo) rispetto alla nascita della produzione letteraria cristiana in prosa, che accompagna la nascita stessa di questa religione. Questo “ritardo” rivela una vera e propria difficoltà per la cultura cristiana: la creazione di un codice adattato all’espressione dei contenuti biblici, centrale in questa religione, attraverso gli strumenti culturali della produzione letteraria greca e latina in versi. Questa difficoltà si riflette spesso in dichiarazioni di radicale incompatibilità tra i due ambiti di riflessione della Sacra Scrittura e della poesia, che è lo strumento di espressione privilegiato della cultura profana (basti pensare a certe affermazioni ostili alla poesia di autori importanti, come Girolamo o Agostino). La soluzione data a questa difficoltà culturale è all’origine di quello che R. Herzog ha definito con felice espressione il terzo ciclo di poesie della letteratura occidentale, che affianca i cicli omerico e carolingio-arturiano: il ciclo della poesia biblica in metri classici. Si tratta di un campo letterario di vitale importanza, che, dopo aver incontrato pregiudizi da una certa prospettiva classicizzante, soprattutto a partire dalla metà del XX secolo, è stato inserito nel panorama degli studi critici per la sua trasversalità cronologica. Infatti, i “canoni” della poesia biblica sviluppatisi nella tarda antichità domineranno le scuole medievali e anche quelle dell’età umanistica, trovando anche un terreno favorevole nella cultura della Riforma e della Controriforma, per entrare definitivamente in crisi con il rinnovamento culturale dell’Illuminismo. Ora, la funzione storica della poesia cristiana consiste innanzitutto nella ‘volgarizzazione’, secondo modalità e finalità diverse, e in relazione a diversi destinatari e ambienti di riferimento, dell’interpretazione biblica e della speculazione teologica a favore dei rudes, cioè di persone estranee alle scuole catechetiche o alle carriere ecclesiastiche, ma appartenenti alle élite scultuali e colte del loro tempo, attraverso lo strumento espressivo da loro privilegiato, cioè la produzione in versi. Per questo motivo la letteratura cristiana in versi è di grande interesse nella valutazione approfondita anche del fenomeno della cristianizzazione delle classi dirigenti, soprattutto a partire dal IV/VI secolo. Un genere letterario come l'”epica” o la “parafrasi biblica” mostra chiaramente il valore di questa operazione culturale: la trasposizione principalmente in esametri dei libri dell’Antico Testamento (si citano le parafrasi della Genesi di Cipriano il Gallo, di Claudio Mario Vittorio e Avito) o del Nuovo Testamento (come gli Evangeliorum libri di Giovenco, la Carmen Paschale di Sedulo, la Parafrasi del Vangelo di Giovanni di Nonno di Panopoli e la Historia apostolorum di Aratore) non si riduce a un semplice esercizio retorico o a una lettura letteraria. Tali trasposizioni in versi offrono infatti ai lettori una rilettura dell’ipotetico testo biblico, un “aggiornamento” della Scrittura in relazione alle esigenze loro e dell’ambiente di riferimento. Questa produzione associa quindi alle interpretazioni scritturali e ai commenti dottrinali la parafrasi in versi, così che per questo genere si può parlare anche di una vera e propria esegesi biblica in versi, spesso accompagnata da obiettivi teologici molto precisi. Da qui la necessità di interrogarsi sulla legittimità stessa di qualificare i poeti cristiani “veri teologi”. Si tratta di una questione che mette in discussione anche la nostra nozione di teologia. Infatti, dal saggio Gloria. Pour une esthétique théologique (ed. 1962) del teologo Hans Urs von Balthasar, è stato fatto un nuovo tentativo di recuperare, all’interno della teologia, la dimensione estetica, sottolineando come il linguaggio simbolico e metaforico possa essere uno strumento molto efficace del linguaggio teologico. Si tratta di un aspetto che i teologi medievali conoscevano molto bene e non si sarebbero mai immaginati di metter in dubbio: così, fin dai tempi carolingi, Scoto Eriugena (PL 122, 146 B-C) ha accostato appunto la teologia della poesia (theologia veluti quaedam poetria) in virtù di questo particolare uso del linguaggio a fini didattici. Quale che sia la risposta che si dà a tale questione, è certo comunque che lo studio della poesia cristiana, essendo fondata, oltre che sul bagaglio letterario classico, anche su intertesti biblico-teologici, richiede un approccio scientifico globale e organico, cioè un approccio non limitato all’esame degli aspetti formali relativi alla trasposizione in versi dei contenuti scritturali, ma anche alla dimostrazione di come forma poetica e contenuto esegetico- teologico si sostengano a vicenda.

Con quali modi e varietà si esprime la riflessione dottrinale nella produzione in versi della latinità cristiana?
La riflessione dottrinale è trasversale rispetto a tutti i generi frequentati dai poeti cristiani- come ho appena spiegato, l’epos biblico è tutto ad un tempo esegetico-dottrinale-, ma è evidente che essa è al centro del genere poetico della poesia polemico-apologetica rientrante nel genere didascalico (genere peraltro percepito nella riflessione grammaticale come autonomo rispetto all’epos con cui condivide il metro soltanto in epoca tarda) .Tale genere ha un antesignano nel Carmen Apologeticum di Commodiano, ma i suoi prodotti più limpidi sono costituiti senz’altro dai poemi prudenziani Apotheosis, Psychomachia e Hamartigenia. Sulla scia di questi modelli, grande interesse presentano i poemi, di cui mi sono recentemente occupato, prodotti fra 416/417 e 427/428 in Gallia nell’ambito delle polemiche postpelagiane, perché in Gallia tali polemiche furono condotte in primo luogo attraverso lo strumento poetico, ciò che ci orienta verso una interpretazione conseguente del contesto culturale in cui esse si verificarono: dopo la condanna del pelagianesimo nel 418 da parte della Tractoria di papa Zosimo, l’uso dei versi costituiva una forme di ‘distanziamento’ prudenziale, capace di evitare una esposizione troppo diretta ed esplicita, essendo destinato a interlocutori privilegiati, spesso distanti dagli ambienti ecclesiastici direttamente impegnati nelle questioni teologiche.

Come evolve e si esprime la reviviscenza tardoantica del messianismo virgiliano?
Fontaine, punto di riferimento ancora oggi degli studi sulla letteratura tardoantica, ha mostrato molto bene nel suo contributo La figure du prince dans la poésie latine chrétienne de Lactance à Prudence del 1984, la conversione al cristianesimo del messianismo virgiliano. Si tratta, in effetti, di una volgarizzazione dell’eusebianismo politico- com’è noto Eusebio di Cesarea è il fondatore della teologia politica cristiana con la sua Vita di Costantino– che ha anche qui un punto di riferimento imprescindibile nel Contra Symmachum (II, 583 ss.) di Prudenzio, dove l’esistenza stessa dell’Impero Romano è vista come vero agente della missione cristiana, con conseguente rappresentazione del principe come pacificatore piuttosto che conquistatore militare, secondo il tema della ‘vittoria incruenta’ che tanta importanza avrà nei testi cristiani in prosa rientranti nella prospettiva della teologia politica, come il Panegirico di Teodosio di Paolino di Nola, o l’orazione funebre tenuta da Ambrogio di Milano in occasione dei funerali del medesimo imperatore.

Quale ruolo assume la teologia politica nei panegirici imperiali di Sidonio Apollinare?
In effetti Sidonio Apollinare non è proprio un esponente esemplare delle direttrici della teologia politica in versi percorse dagli autori cristiani a partire da Prudenzio. Sidonio infatti adotta piuttosto nei suoi panegirici politici imperiali un apparato mitologico di cui la portata politica non appare che attraverso un velo metaforico: per fare un esempio, egli utilizza il motivo della Gigantomachia come simbolo della lotta antibarbarica . Direi che ciò che interessa in ogni caso Sidonio più che le figure degli imperatori, è l’idea di Roma e del suo ruolo essenziale nella storia dell’ecumene, ciò che si spiega bene nei tempi politicamente assai fragili in cui egli si trovò a vivere.

Michele Cutino è professore di Storia della Chiesa antica presso la facoltà di Teologia cattolica dell’Università di Strasburgo

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