“Poeti della corte di Federico II” a cura di Donato Pirovano

Prof. Donato Pirovano, Lei ha curato l’edizione del libro Poeti della corte di Federico II pubblicato da Salerno: quale importanza ebbe la corte di Federico II per la nascita della lirica laica in volgare italiano?
Poeti della corte di Federico II, Donato PirovanoLa Magna Curia – l’organo centrale dell’amministrazione del Regno di Sicilia, già attiva sotto i Normanni e riformata da Federico II, re di Sicilia dal 1198 e imperatore dal 1220 – fu davvero un polo magnetico per i più eccellenti ingegni del tempo, che gravitarono attorno ai due sovrani svevi (in primis Federico e poi suo figlio Manfredi), i quali furono ammirati come promotori intelligenti di una poliedrica politica culturale, in cui anche la poesia in volgare ebbe la sua genesi e la sua valorizzazione.

Federico II non fu certamente l’iniziatore né, vista la sua esigua e modesta produzione poetica, gli si potrebbe riconoscere l’autorevolezza di un caposcuola – titolo che si addice piuttosto a Giacomo da Lentini –, ma ebbe senz’altro una parte fondamentale nell’incentivare la produzione lirica in volgare, riconoscendo anche alla poesia, espressa in un nuovo strumento linguistico, un valore considerevole nell’ambito del suo chiaro e innovativo progetto politico, teso a creare un regno unitario e accentrato – secondo alcuni il primo Stato moderno d’Europa –, controllato direttamente dal sovrano attraverso un apparato di funzionari di formazione laica. 

Quali temi e quali strumenti linguistici caratterizzano la lirica dei siciliani?
Nella Magna Curia siciliana “si dice in rima” esclusivamente d’amore. Si deve registrare qualche testo di carattere gnomico, ma queste minime tracce non intaccano la sostanza monotematica, che caratterizza la Scuola e la distingue da altre esperienze liriche, in primis il grande canto trobadorico: per i Siciliani, insomma, la politica, l’altro fertile tema della lirica laica medievale, non è un tema poetabile in volgare.

L’amore cantato è l’amore cortese della tradizione trobadorica con la sua codificata fenomenologia, i suoi ideali di purezza (fin’amor) e di misura, e i suoi valori di cortesia e di raffinatezza spirituale, che rendono possibile la tensione del desiderio e in alcuni casi il suo compimento – il raggiungimento del joi, cioè della gioia, che non è priva di connotazioni erotiche – tra due amanti impari, perché la donna amata («madonna», traduzione dell’occitano midons) è socialmente se non addirittura ontologicamente superiore al poeta.

Il desiderio di distinzione rispetto ai modelli si esprime soprattutto nella scelta di uno strumento linguistico nuovo. A differenza dei poeti di nascita italiana che nelle corti e nelle città settentrionali della Penisola scrivono in occitano, il quale era senza dubbio la lingua internazionale e più prestigiosa della lirica, i Siciliani si servono di un volgare sostanzialmente inedito in poesia. Questa lingua poetica si fonda su una base riconoscibilmente siciliana, ma è un siciliano depurato dai tratti più marcatamente regionali e tenuto su un registro aulico e raffinato grazie da un lato all’influenza del latino – che non va mai dimenticato era la lingua professionale di questi poeti –, e dall’altro alla presenza, visibile soprattutto sul piano lessicale, del provenzale, come dimostra la pesante immissione occitanismi: si pensi tanto per fare un solo esempio ai sostantivi con suffisso –ansa/-anza. Questo nuovo strumento linguistico è fondamentale tratto distintivo dei poeti della Magna Curia, e infatti è impiegato anche da chi non è nato in Sicilia.

In che modo i siciliani si differenziano rispetto ai loro predecessori occitanici?
Del grande canto cortese i poeti della Magna Curia non operano solo una selezione tematica, ma anche una scelta di modelli: pur non disconoscendo completamente i grandi autori della prime generazioni, i Siciliani privilegiano la cosiddetta quarta generazione trobadorica, che, tra la fine del XII secolo e l’inizio del XIII, contribuisce a fissare definitivamente, favorendo­ne la più ampia divulgazione, la poetica cortese in forme e modi che reste­ranno a lungo canonici: è la generazione di Folquet de Marselha, Arnaut Daniel, Arnaut de Maruelh, Gaucelm Faidit, Rigaut de Berbezilh, Perdigon, Cadenet, Peire Raimon, Elias Cairel, Peirol, Aimeric de Belenoi e dei primi grandi rappresentanti della diaspora trobadorica, Raimbaut de Vaqueiras e Aimeric de Peguilhan.

Lo dimostrano i rapporti intertestuali, ma anche e soprattutto le riconoscibili traduzioni, o meglio rifacimenti, di precedenti trobadorici, che ho deciso di inserire – ed è una assoluta novità – in questa antologia.

Nella lirica siciliana il potente modello occitanico è dominante, ma non assoluto. A un attento esame i loro testi rivelano contatti anche con la lirica dei trovieri, con i filoni romanzeschi in lingua d’oïl e con la poesia dei Minnesänger.

Rispetto ai loro modelli trobadorici un filtro piuttosto stretto è applicato alle strutture metriche: nel corpus della Scuola sono assenti generi occitanici fortunati come per esempio il sirventese – il più legato alla politica e più in generale a temi contingenti ma schema già in crisi in Provenza nella prima metà del ’200, e di fatto rarissimo nella poesia oitanica e nullo tra i Minnesänger –, la dansa e l’alba; manca, inoltre, un genere che avrà poi una certa fortuna nella poesia italiana duecentesca, la ballata, mentre la pastorella viene trasformata e rifunzionalizzata nei contrasti amorosi, il più celebre dei quali è Rosa fresca aulentissima.

Se il lavoro di rinnovamento e di rielaborazione metrica si misura soprattutto sulla forma regina della canzone, il contributo più rilevante dei Siciliani al genere lirico consiste, però, nell’invenzione del sonetto, la prima forma fissa della lirica d’arte europea. Da alcuni studiosi l’ideazione è stata attribuita a Giacomo da Lentini. Manca la prova decisiva, ma è indubbio che Giacomo risulta autore del più vasto corpus di sonetti fra i Siciliani – 22 su circa 35 complessivi, anonimi esclusi – e che è coinvolto nelle prime tenzoni, cioè quegli scambi poetici in cui chi risponde tende a riprendere la struttura rimica e a volte le medesime parole-rima del proponente, in una sequenza che può ricordare grosso modo l’occitanico partimen.

Quali furono le figure più rappresentative di tale Scuola?
I poeti siciliani furono per lo più funzionari, giuristi, notai e diplomatici: sono effettivamente legati alla corte federiciana per la professione che esercitano, e coltivano la poesia nell’ambito di un condiviso progetto culturale.

Se un nucleo non piccolo di questi poeti proviene dalla Sicilia orientale, tanto che Messina può essere idealmente considerata la culla più fertile della Scuola – Giacomo da Lentini, Guido e Odo delle Colonne, Mazzeo di Ricco, Iacopo Mostacci, Tommaso di Sasso, Filippo da Messina, Stefano Protonotaro e, forse, Ruggeri d’Amici e Arrigo Testa –, altri poeti, come Ruggerone da Palermo e Cielo d’Alcamo, provengono da città nord-occidentali dell’isola, e altri sono nati nel continente, come l’Abate di Tivoli, Piero della Vigna, Folco Ruffo di Calabria, Rinaldo e Iacopo d’Aquino, Percivalle Doria, Paganino da Sarzana, Giacomino Pugliese e il discusso Ruggeri Apugliese di Siena.

La figura più rappresentativa – anche per la qualità e la consistenza del corpus poetico – è certamente Giacomo da Lentini. Tra gli altri spicca Guido delle Colonne, tra l’altro molto considerato da Dante Alighieri, e – a mio parere – Giacomino Pugliese.

Quale nuova poetica inaugura Giacomo da Lentini?
Come ho detto poco fa, la figura più rappresentativa è certamente Giacomo da Lentini. Il canzoniere di Giacomo è, infatti, decisamente il più ricco tra quelli dei poeti della Magna Curia, per numero di pezzi superiore più di quattro volte a quello del secondo autore più fecondo, Rinaldo d’Aquino. Il Notaro è però riconosciuto dai contemporanei e dai successori indiscutibile punto di riferimento, come dimostrano sia le diffuse citazioni esplicite e implicite dei suoi testi, sia le tenzoni poetiche in cui è coinvolto, sia il suo primato nei canzonieri delle Origini, in particolare nel manoscritto Vaticano Latino 3793, che si apre e nella sezione delle canzoni e in quella dei sonetti con le sue poesie. Se non abbiamo elementi sufficienti per considerarlo l’iniziatore o il più antico lirico della Scuola, non possiamo non riconoscerne l’ideale ruolo fondativo: Giacomo è il primo grande poeta della letteratura italiana.

Se è indiscutibile il suo legame con la poesia occitanica, tuttavia il Notaro la interpreta e la trasforma con la perizia e la maestria che sono solo dei grandi poeti.

L’amore che canta nelle sue poesie è certamente l’amore cortese, ma Giacomo privilegia l’analisi dell’interiorità del soggetto lirico più che lo scambio interpersonale: motivi canonici come il guiderdone (la ricompensa amorosa che spetta all’amante leale), l’alternanza euforico-disforica dello stato d’animo dell’innamorato, il legame tra sentimento e canto, l’incomunicabilità tra amante e amata, il rispetto del celar ecc. sono, infatti, riplasmati come esclusiva ricerca interiore. Da qui la preferenza per il tema, già trobadorico, della figura della donna dipinta nel cuore del poeta, il motivo del distacco del cuore dall’io, la vivacizzazione del discorso interiore con immagini tolte dai bestiari e dai lapidari, e l’insistenza sul tema della lontananza, intesa non come amor de lonh di rudelliana memoria, ma come separazione e assenza. L’origine fisica – non sostanzialistica come vorrebbe l’Abate di Tivoli e Piero della Vigna nelle due diverse tenzoni sulla natura di Amore – e insieme mentalmente ossessiva dell’amore comportano rari momenti di esaltazione, ma più spesso determinano una concezione negativa e drammatica, secondo una linea che sarà valorizzata successivamente, in particolare dal “lentiniano” Guinizzelli e dal “guinizzelliano” Cavalcanti.

Giacomo crea un nuovo modello poetico, il cui DNA lessicale è sicuramente di matrice occitanica e in misura minore latina, ma sapientemente arricchito del poliedrico soffio vitale della cultura federiciana aperta a istanze scientifiche: basti pensare a un termine chiave – anche in prospettiva futura – come spirito, o a testi come il sonetto Or come pote sì gran donna entrare (xxii), in cui il problema psicofisiologico delle modalità della visione, e della conoscenza, è applicato dal Notaro alle modalità dell’innamoramento, corroborando la concezione erotica fantasmatica che caratterizza la lirica romanza: non la persona reale della donna ma l’immagine interiore (figura) di lei – quella che attraverso gli occhi passa al cuore – determina il sentimento.

Insomma, il ruolo di Giacomo è decisivo nella creazione di una nuova poetica d’amore, e poi anche delle strutture metriche e prosodiche della nuova poesia: il Notaro riprende schemi rimici e prosodici dei trovatori – e in misura minore di trovieri come Thibaut de Champagne –, ma li rielabora in modo del tutto autonomo, fondando l’alfabeto della lirica italiana.

Donato Pirovano è Professore ordinario di Filologia e critica dantesca presso il Dipartimento di Studi Umanistici dell’Università degli studi di Torino

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