
Il “rapporto ancillare” di cui parlate, infatti, può esserci o non esserci; e quando c’è può essere “a vantaggio” dell’una o dell’altra componente linguistico-espressiva, o persino di entrambe. Dipende, ovviamente, da caso a caso: differenze in tal senso anche radicali possono emergere non solo – non tanto – dal confronto di interi repertori, ma anche entro l’opera di un singolo autore. Il chiasmo del titolo, in tal senso, non intende descrivere due “rapporti ancillari” diametralmente opposti, riferendosi – più semplicemente – ai due più diffusi orientamenti del processo creativo: ossia, l’intonazione musicale di un testo verbale preesistente, sia esso di poesia pura o di poesia sin dalle premesse destinata al canto (poesia per musica) > versus < la scrittura di un testo verbale su di una musica preesistente (musica per poesia). Nel libro parlo anche di una terza categoria, naturalmente, quella della poesia con musica; se l’ho escluso dal titolo non è solo per ovvie ragioni di spazio, ma anche per il suo carattere ambiguo, sfuggente, per certi versi più ‘mitologico’ che reale; forse proprio in virtù di questo suo cangiante mistero – mutevole da autore ad autore – confesso che oggi, ad oltre dieci anni dall’uscita del libro, è questa la fenomenologia che più mi affascina. Ma il punto è, in ogni caso, che la precedenza cronologica di una componente rispetto all’altra, nel corso del processo creativo poetico-musicale, non implica a priori la definizione di un rapporto gerarchico, del tipo: quel che viene prima è più importante / rilevante / espressivo / strutturante / percepibile di quel che viene dopo; o anche: quel che viene creato ‘simultaneamente’ è necessariamente paritario e ben equilibrato. Un paio di esempi, fra i tantissimi possibili, basteranno a rendere l’idea.
Claudio Monteverdi (di cui quest’anno ricorre il 450° dalla nascita), in ogni suo madrigale – polifonico, monodico accompagnato, “rappresentativo” – partiva sempre e comunque da un testo verbale preesistente, fosse esso ‘puro’ (di un Petrarca o di un Tasso) o ‘per musica’ (di un Rinuccini o du un Marino); di fronte all’accusa di trasgredire le buone regole del contrappunto (mossagli dall’Artusi della ben nota disputa fra Prima e Seconda Pratica), il compositore cremonese (aiutato anche dal fratello Giulio Cesare) rispose, in buona sostanza: “io non faccio le mie cose a caso”, perché considero sempre l’oratione padrona e non serva dell’armonia – slogan programmatico (di matrice platonica) della Seconda Pratica, questo, che non lascia dubbi sul tipo di “rapporto ancillare” privilegiato da Monteverdi. In molte sue composizioni, in effetti, “il divino Claudio” pone tutta la sua arte compositiva – raffinatissima e per certi versi rivoluzionaria – al servizio della poesia, sia rispettandone fedelmente la struttura formale, sia sforzandosi di renderne intelligibili parole e unità versali, sia ‘imitandone’ musicalmente i contenuti così da renderli ancor più chiari, penetranti, potentemente espressivi. In molti altri casi, tuttavia, l’urgenza espressiva è talmente forte da stravolgere, inevitabilmente, la forma originaria dell’oratione, al punto che essa non è quasi più riconoscibile: come, ad esempio, nel madrigale a cinque voci Sì ch’io vorrei morire, o nel “rappresentativo” Lamento della Ninfa. Nella prima lettura polifonica, Monteverdi, a forza di ripetizioni ossessive o d’intonazioni simultanee di versi differenti, affidate per di più a opposte compagini vocali ‘femminili’ e ‘maschili’, in un certo senso ‘riscrive’ la ballata mezzana (attribuita a Maurizio Moro) non solo e non tanto per ‘imitarne’ fedelmente i contenuti, ma per oltrepassarli fino a realizzare, quasi fisicamente, il desiderio sessuale e orgasmico espresso dall’io lirico. Nel secondo caso, una musica ben più teatralmente espressiva, prevalentemente monodico-accompagnata (canto femminile) e in parte polifonica (trio maschile), permette a Monteverdi non solo di trasfigurare radicalmente la struttura originaria della canzonetta di Rinuccini, ma anche di mutarne la lieve ‘piacevolezza’ in ben più drammatica ‘gravità’, così da trasformarla nel primo vero ‘Lamento di abbandonata’ della storia, archetipo – forse mai più eguagliato – di centinaia di altri lamenti (su tetracordo minore discendente in funzione di basso ostinato) susseguitisi dal Seicento ad oggi. In entrambi i casi – non c’è forse bisogno di ribadirlo – la musica nasce, sì, dalla poesia, ma per andare oltre di essa, imponendosi su entrambi i piani della forma e dei contenuti. Un paradosso, solo apparente, che non riguarda certo solo Monteverdi; al suo nome si potrebbe aggiungere quelli di molti altri autori non solo di madrigali, ma anche di cantate, Lieder, Mélodie francesi (da Händel a Schubert a Debussy). Per tacere, naturalmente, dello sconfinato universo operistico, cui ho deciso di accennare saltuariamente solo nella parte teorica del mio libro, non in quella analitica (per ragioni, ivi ampiamente chiarite, che son sembrate ovvie più a me che a qualche recensore appassionato di opera).
Sul fronte opposto, quello cioè della musica per poesia, gli esempi più interessanti si trovano nel repertorio – a tutt’oggi gravemente trascurato dalla musicologia – della moderna canzone d’autore. Fra i tanti ‘cantautori’, basti qui citare il nostro Fabrizio De André e il brasiliano Chico Buarque (ai quali ho dedicato vari saggi dopo l’uscita del libro). De André tende ad essere considerato, anzitutto, come un grande ‘poeta della canzone’, interessato più che altro all’alta qualità letteraria e realistica potenza evocativa dei propri versi, che la musica avrebbe appena la funzione – secondaria – di veicolare in modo chiaro, magari anche piacevole e orecchiabile, ma discreto, non intrusivo. Eppure, come emerso da alcuni pur isolati studi, sin dall’inizio De André – eccellente chitarrista e cantante dall’inimitabile voce – ha dato un’enorme importanza anche all’elemento musicale, che non ha mai realmente considerato “ancillare” rispetto ai propri versi; e rifiutando l’etichetta di ‘cantautore’ come anche quella di ‘poeta’, ha sempre preferito considerarsi qualcosa di più simile a un ‘trovatore’, o a un ‘cantastorie’, non di rado impegnato anche nella difficile arte della ‘traduzione’, fino a riconoscersi ancor più pienamente nel ruolo di ‘regista’ poetico-musicale. Nella prima fase, così fortemente influenzata dal modello francese di Geroges Brassens, era senz’altro la parola a guidare scelte compositive – anche di altri musicisti coautori – fortemente ‘mimetiche’ anche in senso monteverdiano: persino in traduzioni apparentemente ‘fedeli’, come ad esempio quella della brassensiana Dans l’eau de la claire fontaine (Nell’acqua della chiara fontana), l’omaggio al modello venerato si trasforma impercettibilmente in una ricomposizione, altamente personale, nella quale musica e poesia si fondono pienamente in una ‘terza dimensione’ linguistico-espressiva dal suono – anche inteso come sound – inconfondibilmente deandreiano. Nei periodi successivi De André si svincola più decisamente dal modello francese (che pure non abbandonerà mai del tutto): da un lato coinvolgendo una comunità sempre più ampia di coautori (musicisti e poeti), e divenendo, dunque, sempre più ‘regista’ di un canzoniere comunque inconfondibilmente proprio; dall’altro lato, come inevitabile conseguenza, impegnandosi per lo più a scrivere testi poetici sulla musica già composta da altri autori ancor più che da se stesso: ed ecco allora che tutto l’aspetto metrico-versificatorio e rimico, cruciale in tutta la fase brassensiana, diviene secondario rispetto a quello – anzitutto – ritmico-musicale, a sua volta generativo di in un’assai maggiore irregolarità, flessibilità, libertà nel trattamento della parola prima ancora che del verso. Ma il punto è che passando dalle prime alle ultime fasi, pur orientandosi via via da una poesia per musica trobadorico-brassensiana ad una più registica e coautoriale musica per poesia, De André non ha mai smesso di dare uguale importanza a entrambe le componenti linguistico-espressive, che è sempre riuscito – in modo ogni volta diverso – a fondere in quella che io chiamo, appunto, ‘terza dimensione’ poetico-musicale. Qualcosa di molto simile si può dire di Chico Buarque, da molti – me compreso – considerato il più grande rappresentante della moderna canção brasiliana; anche se nel suo caso il principio della musica per poesia si è ancor più nettamente e lungamente imposto su quello, iniziale, della musica con poesia, nella quasi totale assenza di poesia per musica. Come Faber, anche Chico ha attirato su di sé l’attenzione degli studiosi di letteratura, molto più che dei musicologi; e neanche lui, puntualmente, si è mai considerato un puro ‘poeta’, ben consapevole di svolgere un altro mestiere: quello, appunto di compositore e interprete di canzoni. Diversamente da De André, Buarque, pur non disdegnando affatto la collaborazione con altri musicisti (basti solo fare i nomi di Tom Jobim e Edu Lobo), ha composto le parole e la musica di gran parte delle proprie canzoni, non smettendo mai di sperimentare, su entrambi i versanti linguistico-espressivi, e dunque di mutare continuamente tecniche compositive e stili poetico-musicali. Per questo la varietà delle sue soluzioni complessive è ancora più ampia: si vedano, da un lato, Construção o Soneto, in cui la versificazione (alessandrini sdruccioli, decasillabi portoghesi) struttura la composizione musicale e al contempo ne fornisce la chiave espressiva di fondo (caduta del lavoratore dall’impalcatura, lamento femminile di disillusione e solitudine, le cui insistenti domande senza risposta vengono musicalmente accentuate tramite intonie interrogative); dall’altro lato, Olhos nos Olhos (analizzato nella seconda parte del libro), più tipico esempio di musica per poesia, in cui le parole recriminatorie e vendicativamente ‘felici’ della donna abbandonata vengono contraddette e drammatizzate dalla più classicamente ‘infelice’ delle figure musicali, il tetracordo cromatico discendente che scorre ossessivamente nell’accompagnamento strumentale (come già in tanti lamenti dell’opera seicentesca). Quest’ultimo esempio, apparentemente estremo, bene illustra come la ‘terza dimensione’ di cui sopra – ben lungi dal creare rapporti “ancillari” – può essere raggiunta non solo tramite l’equilibrata e mimetica armonizzazione delle due componenti, ma anche attraverso la loro antitetica e contrastiva interazione.
Il sottotitolo del testo suddetto recita: Dai trovatori a Paolo Conte. Perchè il Suo excursus storico si conclude proprio con il cantante astigiano?
Per tante ragioni, che tenterò qui di riassumere. Premetto che il sottotitolo in origine era un altro, risultato forse troppo serio e noioso agli editori, che dunque lo sostituirono con quello attuale. Probabilmente avevano in mente la seconda parte del libro, quella che in effetti a me sta più a cuore, e che pochi lettori si avventurano a leggere (escludendo naturalmente i miei studenti e quelli di qualche collega): a scopo esemplificativo e al contempo metodologico, essa propone l’analisi dettagliata di 10 composizioni poetico-musicali diversissime, ma tutte storicamente importanti e tipologicamente rappresentative, seguendo un percorso trasversale che conduce, per l’appunto, da una canso trobadorica (Can vei la lauzeta mover di Bernart de Ventadorn) a Madeleine di Paolo Conte, uno dei sommi capolavori della canzone d’autore, non solo italiana. Fra questi due monumenti dell’arte poetico-musicale occidentale, vengono analizzate composizioni non meno importanti di autori quali Petrarca-Dufay (Vergene bella), Della Casa-Cipriano de Rore (O sonno), Rinuccini-Monteverdi (Lamento della Ninfa), Händel (Armida abbandonata), Goethe-Schubert (Erlkönig), i fratelli Gershwin (The Man I Love), Paul McCartney (Yesterday), Chico Buarque (Olhos nos Olhos). La scelta di concludere l’excursus con una canzone di Paolo Conte, ovviamente, non è dettata soltanto da una mera necessità cronologica. Essendo concepito e pubblicato in Italia, il libro doveva concludersi con l’esempio di un nostro autore contemporaneo che eccellesse, in particolare, nella difficile arte della musica per poesia; ho scelto Conte perché lo ritengo in assoluto, nell’ambito della canzone d’autore, il nostro più grande artista poetico-musicale. A quei tempi, per di più, le sue canzoni erano state studiate ed apprezzate, almeno in ambito accademico, quasi esclusivamente dal punto di vista letterario; e dunque mi si presentava finalmente l’occasione di illustrare la bellezza e originalità, ricchezza espressiva, forza comunicativa e complessità formale della musica di Conte, prima ancora della sua rara capacità di tradurla in parola – quella bellezza puramente musicale – per poi cantarla con la sua inconfondibile voce sull’accompagnamento, raffinatissimo, del proprio pianoforte, circondato e coadiuvato da alcuni dei più grandi strumentisti della nostra scena jazz e cantautoriale. In questo caso, per di più, la mia analisi poteva anche guardare a un ben preciso punto di riferimento teorico-estetico: il breve ma lucido ed eloquente scritto contiano intitolato Poesia e non poesia, vero e proprio manifesto programmatico di musica per poesia, storicamente rilevante, ma anche tecnicamente utile, un po’ come le dichiarazioni difensive dei fratelli Monteverdi più sopra citate; ad esso si aggiungevano anche le ricorrenti considerazioni autoriali, sullo stesso tema, emergenti da più d’un’intervista. Mi piace qui citarne una in particolare; proprio quella che, non a caso, dopo aver chiuso la prima parte del libro, nella seconda rimane alla base non solo dell’analisi di Madeleine ma anche di tutte le precedenti: «Il pubblico ha diritto alla sua immaginazione. La libertà del mio pubblico voglio salvaguardarla a tutti i costi, perché non voglio lanciare dei messaggi o imprimere delle opinioni precise, ma voglio lasciar sognare ciascuno con i suoi colori, i suoi suoni, le sue esperienze e la sua sensibilità». Quante risate mi son poi fatto, leggendo la recensione in gran parte lusinghiera del critico musicale Quirino Principe («Il Sole-24 Ore», 17 dicembre 2006), in particolare di fronte a queste parole: «Non nego che Paolo Conte sia un sommo […], ma, se si accetta la mia sincerità, trovo alquanto monotono, quasi quanto è monotono il perpetuo rimbombo delle percussioni africane afro-americane, il perenne mugolìo del Maestro». Evviva la sincerità! Ma da allora, per fortuna, se ne è fatta di strada: il persistere, sul fronte musicologico ufficiale, di posizioni anche più scettiche e conservatrici di quella allora rappresentata da Principe (sul fronte della critica musicale), non ha affatto impedito la nascita e persino il pieno sviluppo di studi, finalmente musicologici, dedicati anche alla nostra canzone d’autore – a partire, naturalmente da grandi maestri quale anche Paolo Conte, indubbiamente, può essere e anzi va’ considerato, a prescindere da personali considerazioni di gusto.
Che rapporto c’è fra ritmo musicale e versificazione?
La prima parte del libro, quella più teorica, dedica un ampio spazio a ciascuno dei quattro parametri fondamentali del suono vocale, inteso come dimensione comune del ‘parlare’ e del ‘cantare’: timbro, intensità, altezza, tempo. Di quest’ultimo parametro tento di definire ed esemplificare, su entrambi i fronti verbale e musicale, i molteplici livelli di misurazione, organizzazione, scansione metrica, caratterizzazione ritmica, e via dicendo. Nonostante i miei sforzi di semplificazione – a fini divulgativi oltre che didattici –, ne è venuta fuori la sezione che risulta forse più ostica agli occhi e alle orecchie del lettore non solo ‘analfamusico’ (come diceva il grande etnomusicologo Diego Carpitella), ma anche ‘analfametrico’ (aggiungo io), o più in generale, parzialmente o completamente privo di senso del ritmo (mancanza per me anche più grave delle precedenti). Se però ho insistito e continuo a insistere molto su questo aspetto, soffermandomi su dettagli tecnici e terminologie non sempre gradevoli o facilmente memorizzabili, non è certo per un gratuito sfoggio di erudizione, quanto semmai per il ruolo cruciale che l’organizzazione, misurazione e articolazione del tempo poetico-musicale svolge – sempre e comunque – non solo sul piano formale ma anche su quello espressivo. In generale, si può intendere per ‘tempo’ l’organizzazione più o meno lenta/veloce (agogica) e più o meno precisamente misurabile (metro) delle durate (ritmo). Sul piano primario dell’agogica, un testo poetico – in assenza d’indicazioni specifiche – può essere letto più o meno velocemente a seconda del suo genere, carattere, insieme di contenuti anzitutto emotivi (nonostante l’ampia libertà lasciata al lettore, di fronte a un lamento di dolore o a una più incitata poesia di protesta egli sarà naturalmente portato a scegliere tempi agogici completamente diversi); viceversa un’intonazione musicale, procedendo dal medioevo ad oggi, risulta sempre più precisamente definita anzitutto su questo piano, che dunque acquista una specifica funzionalità espressiva, di cui è responsabile il compositore prima ancora dell’interprete (rendere o anche accentuare la malinconia del Lamento o l’incitazione della protesta con un tempo tendenzialmente più lento o più veloce). Anche gli aspetti ritmico e metrico, inscindibili da quello agogico, svolgono un ruolo cruciale un po’ su tutti i piani: ritmo è anzitutto ‘movimento’, in questo caso di durate sonore vocali, che a loro volta solo grazie al metro possono essere misurate, organizzate, diversificate in senso quantitativo o qualitativo, acquistando una struttura ben precisa e anche un senso, pur variamente interpretabile. Il che vale sia per un testo poetico, in sé, sia per la sua intonazione musicale. In poesia, la misura del ritmo è data dalla suddivisione e scansione delle parole in unità, appunto, misurabili: ecco dunque i piedi del sistema quantitativo classico, più flessibilmente ripresi da quello sillabotonico del tedesco e dell’inglese moderni; ed ecco le sillabe, toniche o atone, del sistema qualitativo, sillabico-accentuativo, delle lingue romanze. In musica, ancora una volta, lo stesso principio è via via applicato in modo sempre più (matematicamente) preciso, attraverso l’elaborazione di sistemi notazionali a sempre più alta definizione (cui non ho qui lo spazio neanche di accennare); due sono le più importanti ragioni, entrambe extra-verbali, di questa crescente esigenza di precisione metrico-temporale, e dunque anche ritmica: in ambito polifonico, quella prevalentemente mentale, razionale, di garantire l’esatto coordinamento verticale, contrappuntistico e/o armonico, di più linee melodiche che fluiscono simultaneamente; in ambito coreutico, o in generale in tutti i generi musicali funzionali o ispirati a forme di danza, quella tendenzialmente più fisiologica, cinetico ma anche emozionale, di scandire e articolare in modo coerente ben precisi pattern ritmico-musicali.
Nel momento, dunque, in cui un compositore si accinge a mettere in musica un testo verbale, dovrà fare i conti con la sostanziale diversità di questi due sistemi di misurazione del ritmo; e in tal senso ogni sua scelta avrà un impatto decisivo non solo sulla forma ma anche sul senso e sul grado di espressività della propria lettura musicale: egli potrà scegliere o meno di rendere fedelmente la scansione accentuativa di un settenario tronco o di un endecasillabo sdrucciolo, ma sempre con l’inevitabile conseguenza di definirne precisamente le durate, così da trasferirlo dall’originaria dimensione qualitativa a quella quantitativa che caratterizza qualsiasi musica misurata; potrà anche accentuare ritmicamente, via via, il carattere piacevolmente coreutico di un ottonario o di un quinario, quello più grave di un endecasillabo o di un alessandrino, quello più mesto e lamentoso di un piede anapesto o peonio, quello più assertivo e incisivo di un piede trocaico o dattilico. Il libro esemplifica ampiamente non solo questa ricchissima fenomenologia mimetico-espressiva, ma anche quella ad essa contraria: non meno frequenti, infatti, sono i casi in cui la sfera psico-fisica, emotiva, erotica, legata anche al corpo, s’impone su quella concettuale, razionale, scavalcando la parola proprio a partire dalla sua struttura ritmica e metrica, scompaginandone durate, misure, accenti. I metricologi potranno pure indignarsi, ma il più delle volte non si tratta affatto di errori tecnici, dovuti magari a incompetenza o semplice trascuratezza del musicista nei confronti dell’oratione e delle sue ferree regole; come direbbe Monteverdi, e non certo lui solo, anche su questo piano si tratta di “cose non fatte a caso”. E il prodotto non cambia neanche nel processo creativo inverso (musica per poesia): quel che muta è solo il soggetto responsabile della ‘trasgressione’, che è ora l’autore del testo verbale, sia esso identificabile con una persona distinta dal musicista oppure con lui stesso (come accade anche più spesso).
Vi è una relazione fra la canso trobadorica medioevale e la moderna canzone d’autore?
Anche questa è una domanda alla quale non è possibile dare risposte assolute; basta spostare il punto di vista, la prospettiva disciplinare, e si approda facilmente a conclusioni opposte. Se io stesso mi metto nei panni di un filologo esperto di letteratura e/o musica medioevale (magari rispolverando gli appunti presi ai memorabili corsi di Aurelio Roncaglia o di Kenneth Levy), mi sarà impossibile confondere un Bernart De Ventadorn con un Fabrizio De André, né tanto meno i contesti storico-culturali, gli stili e idiomi linguistici, i mezzi tecnico-compositivi e performativi, le modalità di fissazione e trasmissione testuale, dei rispettivi canzonieri. Assumendo invece la prospettiva ben più ampia, transculturale, dello studioso dei rapporti fra poesia e musica, mi sarà facile comprendere le ragioni che hanno portato lo stesso De André a definirsi un moderno “trovatore” – titolo che egli prediligeva nettamente anche rispetto a quelli di “cantautore” o di “poeta”. Premesso che le fonti documentarie sopravvissute, sul piano testuale come su quello iconografico, non ci consentono di tracciare un profilo ben preciso, sufficientemente unitario, della figura del trovatore provenzale e del suo modo di approcciarsi alla materia poetico-musicale, è la realtà oggettiva dell’opera trobadorica complessiva, ossia i canzonieri e i modelli formali sopravvissuti a quella stagione non poi così lontana, a contenere, in sé, elementi e princìpi strutturali – per certi versi archetipici – che non si sono in realtà mai esauriti, rifluendo continuamente fra tradizione orale e tradizione scritta, contribuendo ad abbattere le barriere fra ‘colto’ e ‘popolare’, fino a riemergere nel modo più evidente proprio nell’ambito della moderna canzone d’autore. Anzitutto in quella francese, naturalmente, laddove la canso, poi chanson, nel corso dei secoli ha prodotto qualcosa di più di un oscillante filo rosso, cristallizzandosi in un’autentica tradizione storica, sempre viva, ben visibile, in continua evoluzione; non a caso è soprattutto a questa tradizione che si è ricollegata, inizialmente, la nostra canzone d’autore (non certo solo quella di De André), priva di un background storico e culturale altrettanto solido (Gramsci docet), anche perché sin dagli esordi lacerato da plurimi ‘divorzi’ fra poesia e musica (a partire da quello che, stando a taluni filologi, avrebbe caratterizzato la lirica siciliana del duecento).
Tornando alla canso trobadorica, e alla domanda di partenza, la sua persistente modernità – e dunque anche parentela con la canzone d’autore – risiede secondo me in almeno tre fattori macroscopici:
(1) In primis, il paradosso in realtà solo apparente, in realtà altamente indicativo, di una ‘poesia per musica’ – destinata al canto – di altissima qualità letteraria, tale da produrre alcuni dei fondamentali modelli formali, stilistici e persino tematici proprii della ‘poesia pura’ occidentale (a partire almeno da Dante) prima ancora che della canzone d’autore. Quest’ultima, inoltre, riprende – anche più fedelmente – non solo quei modelli ma anche la vocazione – transculturale – a proporsi come punto di convergenza e interazione fra tradizione ‘colta’ e tradizione ‘popolare’.
(2) Trattandosi, pur sempre, di poesia destinata al canto, ciascuno di questi modelli può essere sempre ricondotto allo stesso principio formale di fondo: quello cioè ‘strofico integrale’, in base al quale ad ogni strofa poetica corrisponde la ripetizione – per quanto lievemente variata – della stessa melodia; inutile forse aggiungere che quello appena descritto è uno dei princìpi più frequentemente seguiti dai cosiddetti ‘cantautori’ moderni: da Brassens a De André, da Bob Dylan a Francesco Guccini (per citare solo alcuni nomi fra i tanti); non a caso nelle strofe poetico-musicali delle loro canzoni, esattamente come in quelle dei trovatori, così tanta cura viene riservata al trattamento della versificazione e della rima – reso necessario proprio dal ricorrere, di strofa in strofa, della stessa musica.
(3) Quella del ‘cantautore’ è naturalmente una sottocategoria della più ampia galassia denominata ‘canzone d’autore’ (nella quale rientra anche un insieme assai articolato di forme collaborative, fra più autori oltre che esecutori). Ebbene, sotto molti aspetti, anche se non tutti, il ruolo del cantautore rimane quello già proprio del trovatore, sufficiente a differenziarlo nettamente da un compositore, come anche da un poeta (puro o per musica), della tradizione ‘colta’: il trovatore / cantautore tende ad essere, per l’appunto, ‘autore’ sia del testo verbale sia della sua intonazione musicale, laddove in ambito classico-colto le due funzioni tendono ad essere svolte (con le dovute eccezioni) da due autori specializzati nelle rispettive discipline artistiche. Trovatore e cantautore, possono forse iniziare a distanziarsi passando dalla dimensione creativa a quella performativa; le testimonianze letterarie e iconografiche sin qui pervenuteci sembrano infatti documentare una divisione di compiti, persino di status sociali, abbastanza netta fra l’autore (trovatore) e l’esecutore delle sue canzoni (giullare cantore e/o strumentista accompagnatore). E qui però il filologo, quale io stesso almeno in parte continuo ad essere, dovrebbe non solo considerare la scarsezza e frammentarietà di tali testimonianze, ma forse anche armarsi di buon senso e porsi un paio di semplicissime domande: poteva un trovatore mettere in musica la propria canso senza almeno cantarne la melodia, durante e – perché no – anche dopo l’atto creativo? E cosa ci impedisce di immaginare, realisticamente, che oltre ad avere una voce sufficientemente intonata, lo stesso trovatore fosse anche in grado di accompagnarsi a uno strumento non certo complesso come la viella, magari limitandosi a sostenere il canto con una nota di bordone, oppure raddoppiando a tratti la melodia vocale, anche solo per garantirne la giusta intonazione?
I cantautori moderni possono essere considerati poeti?
Dopo le risposte già date in precedenza, credo che non vi sia più molto da aggiungere. Su questo punto esiste un’intera tradizione polemica, nella quale è spesso il cantautore a rifiutare il titolo di ‘poeta’ assegnatogli dal critico letterario, studioso o giornalista di turno. Si tratta di una discussione per certi versi interessante, sul piano antropologico-culturale, ma in sostanza inutile. Col tempo, soprattutto dopo avere ascoltato direttamente la testimonianza di una grande varietà di artisti, sono arrivato a concludere che tutto questo trambusto nasce da un equivoco di fondo, dipendente anche – ma non solo – dalle diverse accezioni via via assegnate a termini come ‘poesia’ o ’poeta’. Il cantautore, assai realisticamente, tende a distinguere due mestieri che in effetti non possono essere confusi l’un con l’altro: il ‘poeta’ si serve esclusivamente della parola, sceglie liberamente e orchestra i propri suoni verbali, senza bisogno di tutti quegli altri mezzi linguistico-espressivi – musica, canto, accompagnamento strumentale – che invece sono il pane quotidiano del cantautore; quest’ultimo è interessato a sottolineare questa differenza non solo per una sorta di umiltà, e profondo rispetto, nei confronti del ‘poeta’ vero (che conosce benissimo, spesso eleggendolo anche a punto di riferimento della propria poetica, non di rado imbastendo con la sua opera un fitto dialogo intertestuale), ma anche per un altrettanto comprensibile sentimento di orgoglio artistico. Il critico letterario, e non lui solo, tende invece ad estrapolare il testo verbale di una canzone dal suo contesto globale, che è in realtà ‘tridimensionale’, ossia non solo verbale, né solo musicale, ma poetico-musicale; destando, anche per questo, il pur controllato risentimento dei più musicali fra i cantautori (fra i tanti che mi vengono in mente, ci sono senz’altro Chico Buarque e Paolo Conte). Rimane il fatto che, un po’ come già nel caso dei trovatori, l’alta qualità anche letteraria dei loro canzonieri, da cui pure dipende la loro potenza evocativa, rappresentativa e comunicativa, legittima – a mio parere – l’impiego degli stessi termini in un’altra e più ampia accezione: quella cioè della ‘poesia’/poiesis, intesa come capacità di trovare una ‘voce’ – in questo caso non solo verbale ma anche musicale – personale e autentica, che permetta via via all’artista – in questo caso un cantautore – di creare, rivelare, rappresentare a se stesso e agli altri la propria visione del mondo. In altri scritti sono anche arrivato a sostenere che, nonostante il pur comprensibile diniego dei cantautori (e proprio di quelli più eccelsi), l’impatto complessivo dei loro canzonieri poetico-musicali su intere generazioni di ascoltatori, critici, esegeti, della più varia provenienza ed estrazione sociale, sia pari – se non superiore – a quello dei ‘poeti’ veri e propri. Fermo restando che quel che distingue le due categorie non è affatto la più o meno alta qualità della rispettiva ‘arte’, quanto semmai i mezzi tecnici, i concreti strumenti linguistico-espressivi propri dei rispettivi mestieri.
Stefano La Via è Professore associato di Storia della poesia per musica presso la Facoltà di Musicologia di Cremona dell’Università degli Studi di Pavia