
Per quali ragioni in Italia, nel Medioevo, la poesia è entrata nel diritto e, perché, inversamente, il diritto è entrato in poesia?
Per rispondere a questa domanda è necessario definire i confini e le forme della poesia e del diritto nel Duecento e nel Trecento. Le due discipline non erano ermeticamente distinte, ma seguivano una storia comune, poiché la nascita delle cancellerie e lo studio del Corpus iuris si svilupparono negli stessi anni e negli stessi luoghi in cui circolavano le prime poesie in volgare. L’evoluzione della poesia (come mostra Montefusco, p. 31-52), è influenzata dalla storia del diritto, ed inversamente la storia del diritto è descritta implicitamente nella finzione novellistica (come mostra Meier, p. 89-104). I capitoli del libro cercano di definire con quali modalità poesia e diritto entrino in contatto (vedi i contributi di Doering, Ferrara, Marcozzi, Meier), e di capire come la poesia possa diventare diritto (vedi i testi di Di Fonzo, Righi, Quaglioni, Iurlaro).
I punti di contatto tra poesia e diritto sono quindi molteplici: la forma della glossa e del commento, essenziale nella pratica intellettuale del tempo, si applica sia alle poesie (che ricevono glosse giuridiche), che al diritto (che viene spiegato citando poeti antichi). La retorica, le oscurità e le figure proprie al discorso poetico si ritrovano nella retorica giudiziaria e nell’ars dictaminis (che definisce la forma degli scritti cancellereschi). Lo studio dei “casi”, che incombe al diritto, si ritrova in testi di finzione, che si tratti dei casi giudiziari convocati da Dante nella Commedia, o dei “casi” raccontati nelle novelle del Novellino e del Decameron.
In che modo, alla corte di Federico II, si coniugarono con genio poesia e diritto?
La poesia della corte siciliana è la prima in cui l’alleanza tra poesia e diritto diventa sistematica e programmatica. La grande maggioranza dei poeti siciliani sono notai e l’influenza del diritto traspare nelle loro scelte lessicali e nello stile adottato dai giuristi-poeti. Giuseppina Brunetti (p. 13-30) mostra come, alla corte siciliana, la poesia non sia solo considerata come uno strumento di diletto e di esercizio, ma come la manifestazione più esplicita della regalità e della potenza curiale. La poesia realizza l’eccellenza della parola e contribuisce in questo al programma ideologico della corte federiciana. Antonio Montefusco (p. 31-52) approfondisce l’analisi del progetto poetico e giuridico di Pier della Vigna e della sua cancelleria che si realizza pienamente nell’ars dictaminis. I testi del dictamen latino sono improntati ad una retorica fondata sull’oscurità che porta a sacralizzare la lingua intesa come lingua artificiale. Tale retorica si manifesta coerentemente negli scritti latini della cancelleria, siano essi giuridici o poetici. Ma tale progetto non pare realizzarsi pienamente nella lirica volgare, forse perché i poeti non appartenevano alla cancelleria, o forse perché il progetto culturale di Piero non coincideva con quello dell’imperatore, almeno per quanto riguarda il ruolo della lirica in volgare. Queste discrepanze influenzano, secondo Montefusco, la storia della poesia in volgare: se poesia e diritto sono intimamente (e retoricamente) uniti nel progetto di Piero, nella poesia toscana più tarda l’etica prende il posto del diritto ed il progetto di Piero viene accantonato ed implicitamente criticato da Dante nel celebre passo del canto XIII dell’Inferno.
Come si espresse, nel contesto giuridico bolognese, il legame tra poesia e diritto?
Le poesie composte nella seconda metà del Duecento da poeti-notai, come Monte Andrea, e le poesie trecentesche rinvenute da Roberto Siniscalchi tra le carte dei notai bolognesi, come Jacopo Bianchetti e Niccolò Malpigli, rendono conto dell’evolvere delle preoccupazioni dei notai e della storia della loro professione. Michele Piciocco (p. 53-70) mostra come le poesie di Monte Andrea propongano una visione della nobiltà difesa in campo giuridico da Rolandino dei Passeggeri, notaio della società dei cambiatori. Rolandino valorizza il ruolo delle classi lavorative ed in particolar modo dei notai nel governo della città. Le poesie di Monte e le tesi di Rolandino rendono conto degli avvenimenti politici recenti: se le magistrature popolari sono abolite a Firenze, a Bologna l’istanza popolare domina la scena politica per tutta la seconda metà del Duecento. I versi dei notai trecenteschi (vedi Siniscalchi p. 195-208), invece, denunciano la perdita di potere della società dei notai dopo la caduta definitiva del secondo governo del popolo e rivelano la nostalgia per un’epoca in cui la corporazione dei notai, guidata dalla figura mitica di Rolandino de’ Passeggeri, partecipava attivamente alla gestione del potere cittadino.
Come si esprime il legame tra poesia, politica e cultura giuridica nell’astrologia giudiziaria di Cino da Pistoia e Francesco da Barberino?
Cino da Pistoia e Francesco da Barberino sono entrambi poeti e notai, e prendono posizioni simmetriche circa la pratica dell’astrologia giudiziaria, cioè dell’arte di prevedere il futuro grazie allo studio delle posizioni dei corpi celesti. Sara Ferrilli (p. 105-124) mostra che se Cino compone ed invia dei sonetti a Cecco d’Ascoli per ottenere da lui pareri astrologici, Francesco da Barberino condanna fermamente l’astrologia giudiziaria nei Documenti d’amore e partecipa al processo contro l’autore dell’Acerba. L’analisi dei documenti relativi al processo e alla condanna di Cecco mostra come la discussione in poesia di questioni di astrologia giudiziaria fosse un tentativo di diffondere idee astrologiche che avrebbero potuto risultare pericolose in contesti più strettamente giuridici.
In che modo la retorica giudiziaria compare nel Decameron?
Boccaccio non si limita a citare ed a satirizzare il linguaggio dei giusdicenti, ma propone, in alcune novelle, una critica della retorica giudiziaria. Pia Doering (p. 139-160) mostra come, nella novella di Tedaldo (III,7), il protagonista usi le strategie di simulazione e di dissimulazione del linguaggio giudiziario per difendere una causa giusta. Boccaccio non solo denuncia il potere di falsificazione della retorica giudiziaria, ma trasforma un caso d’amore in un caso giuridico, assimilando pratiche cortesi a pratiche curiali e criticando implicitamente le pretese di verità e di rigore proprie al diritto. Franziska Meier (p. 89-104) mostra come non solo il Decameron, ma anche il Novellino proponga una critica implicita del diritto e del suo linguaggio, manifestando una certa nostalgia per il sistema giudiziario feudale, in cui il sovrano amministrava in modo salomonico la giustizia, conciliando una pluralità di voci.
Quale funzione ebbe il rifiuto del diritto di Giovanni Boccaccio e Francesco Petrarca?
Petrarca e Boccaccio in più luoghi esprimono tedio e disprezzo per gli studi di diritto svolti in giovinezza e paiono opporre diritto e poesia. Tuttavia, analizzando le epistole di Boccaccio, Sabrina Ferrara (p. 125-138) mette in luce quanto e come il pensiero giuridico abbia plasmato il lessico, lo stile, la struttura dello scrivere dell’autore, che si serve della retorica giudiziaria per creare uno spazio autoriale forte, in cui esporre i problemi che lo travagliano e difendere le tesi che persegue. Luca Marcozzi (p. 175-194) mostra invece come Petrarca rifletta sui rapporti tra poesia e diritto. In una lettera indirizzata a Francesco Nelli, Petrarca descrive la venuta di Cola di Rienzo ad Avignone nel 1352 e l’attesa del suo processo. Egli domanda: può la poesia concedere la grazia? La poesia diventa qui un argomento della difesa, in grado di influenzare la sentenza dei giudici. L’ipotesi di Petrarca si rivela tuttavia ambigua poiché Cola non è un poeta, in quanto, come dimostra Marcozzi, non gli si può attribuire alcun componimento poetico. La lettera di Petrarca non intende descrivere una procedura giuridica, ma definire, attraverso il diritto, quale sia la vera poesia. Se il popolo considera Cola un poeta è solo perché accetta una definizione medievale di poesia, in cui poesia e profezia coincidono. Negando a Cola il nome di poeta, Petrarca lo nega a tutti coloro che hanno confuso la poesia con la profezia, e difende una concezione di poesia nuova e diversa da quella di Dante: una poesia non più volta a svelare gli arcani del futuro, ma rivolta alla storia e agli esempi dell’antichità.
In che modo la poesia, nel discorso giuridico del Trecento, si trasforma in fonte d’autorità?
La poesia ha un ruolo essenziale nel diritto, perché i testi letterari sono considerati dai giuristi come fonti di autorità morale, perché entrambe le discipline si fondano sulla pratica della glossa, e perché la forma mentis dei giuristi pare adottare, per parlare di alcuni temi come la fama o il legame nunziale, le forme della poesia. Diego Quaglioni (p. 209-220) ha mostrato che se Azzone nel 1220 condanna la pratica di ricorrere ai poeti come ad autorità in materia giuridica, un secolo dopo la sua affermazione è contraddetta con inequivocabile chiarezza: i poeti possono essere allegati come autorità. Questo è quanto fa Alberto Gandino, nel suo De Maleficiis, dove allega Ovidio e Virgilio, questo è quanto si riscontra ancora nei testi giuridici del Cinquecento. Roberto Righi (p. 71-88) corrobora le osservazioni di Quaglioni proponendo un esempio narrativo e pittorico. L’analisi delle teorie trecentesche della visione di Francesco d’Assisi rivela l’emergere di una nuova concezione della poesia nel diritto: la verità di un evento, non è (solo) fondata su quanto si vede, ma su quanto se ne può raccontare. La narrazione (mistica, poetica) diventa un elemento essenziale del diritto. Claudia di Fonzo (p. 161-174) mostra che se la poesia diventa autorità giuridica, il diritto può diventare ornamento narrativo o poetico: la canzone “Le dolci rime d’amor ch’io solia” (Convivio), in cui Dante discute quale sia la vera nobiltà, è commentata nei termini del diritto da Bartolo da Sassoferrato nella Repetitio del 1355, ed in seguito le tesi giuridiche di Bartolo sono riprese da Torquato Tasso nel dialogo che tratta della nobiltà, Il Forno (1583). Nell’analisi di temi come la nobiltà o la fama, il diritto allega la poesia e la poesia discute tesi di diritto. Francesca Iurlaro (p. 221-237) afferma che non solo i poeti sono citati dai giuristi come autorità giuridiche fino al Cinquecento, ma che le questioni centrali del dibattito poetico (cosa sia la poesia, quale sia il rapporto tra poesia e retorica, l’importanza delle regole poetiche, che cosa sia la verosimiglianza) influenzano ed animano il dibattito giuridico. Analizzando i rapporti tra poesia e diritto delle genti, da Gentili (che scrive alla fine del Cinquecento) a Grozio (che scrive nel primo Seicento), Iurlaro mostra come teoria poetica e teoria giuridica siano intimamente connesse. Dal Trecento al Seicento, dunque, la poesia può farsi diritto, perché il diritto diventa lo spazio in cui si integra la poesia. La poesia può quindi pretendere ad una forza normativa.
Enrica Zanin è professoressa associata di letterature comparate all’università di Strasburgo e membro dell’Institut Universitaire de France. Le sue ricerche trattano dei rapporti tra etica e poetica nella letteratura europea della prima età moderna. Ha pubblicato due monografie sulla poetica teatrale e lavora attualmente ad un volume su verosimile, etica e narrative nella novella dal Trecento al Cinquencento.