“Pocoinchiostro. Storia dell’italiano comune” di Pietro Trifone

Prof. Pietro Trifone, Lei è l’autore del libro Pocoinchiostro. Storia dell’italiano comune edito dal Mulino: perchè questo titolo?
Pocoinchiostro. Storia dell'italiano comune di Pietro TrifoneMi è piaciuto dare al mio libro un titolo ispirato al soprannome di un ventenne pugliese che negli anni dell’unificazione italiana scriveva lettere di ricatto per varie bande di briganti meridionali. Il giovane, che in realtà si chiamava Angelo Michele Ciavarella, svolgeva un servizio richiestissimo, dato che i briganti erano in gran parte analfabeti e avevano bisogno di qualcuno che provvedesse alla stesura delle loro minacciose richieste estorsive. Siccome la necessità di scrivere i messaggi criminali si ripresentava con grande frequenza, a Ciavarella capitava spesso di restare con il calamaio asciutto, e proprio per questo motivo gli fu rifilato scherzosamente il soprannome di «Pocoinchiostro». Attraverso questa formula bizzarra e insieme suggestiva ho voluto alludere al tema principale del mio discorso, ossia alla scarsa diffusione della cultura, evocata attraverso il simbolo dell’inchiostro, nell’Italia del passato. Al tempo stesso il titolo allude anche all’attuale affermazione dei nuovissimi mezzi di comunicazione digitale e sistemi di videoscrittura, che hanno ridotto l’inchiostro a simbolo obsoleto.

Cosa si intende per “italiano comune” e quali ne sono le principali vicende storiche?
Il tipo di italiano comune al quale mi riferisco nel libro ha avuto, dal Cinquecento all’Ottocento, queste caratteristiche principali: non coincideva con l’italiano normativo né con quello letterario o tecnico-scientifico, ma anzi ne restava spesso a sensibile distanza; veniva usato prevalentemente dagli alfabetizzati post-elementari nello scritto e, quando se ne presentava l’occasione, nel parlato formale; tendeva comunque a conservare tratti linguistici locali o regionali nell’uso orale, anche quando il parlante era una persona colta. Ricostruire le vicende di questa varietà linguistica non è affatto semplice, perché le testimonianze del passato consegnate alla scrittura e trasmesse ai posteri tendono per lo più a svalutare ciò che appare comune, in quanto ritenuto privo di importanza. Accade così che una parte notevole dei comportamenti umani, a cominciare dalla stessa pratica corrente della lingua nella quotidianità, venga di fatto trascurata e quindi sottratta alla memoria. Indubbiamente i testi in cui si riflette la lingua «diversa» dell’uso domestico e popolare sono soggetti alla clandestinità e alla dispersione in misura molto maggiore rispetto alle più prestigiose scritture di carattere pubblico ed elevato. Per quanto interessante e significativa, la documentazione dell’italiano comune appare spesso destinata a rimanere tagliata fuori dal campo visivo della storia. Anche per questa ragione mi è sembrato opportuno approfondire l’argomento.

In che modo la storia linguistica italiana è stata influenzata da quelli che Lei definisce “semi-italofoni”?
È bene distinguere diversi gradi di competenza linguistica. Mentre sia le persone colte sia altre dotate di una buona alfabetizzazione pervenivano all’italofonia propriamente detta, invece i cosiddetti semicolti, in grado di scrivere in qualche modo ma sprovvisti di un bagaglio adeguato, si fermavano al livello di un italiano locale o regionale, nel quale tendevano a riaffiorare alcune forme del dialetto di origine. In poche parole, la sostanziale italofonia dei colti si opponeva alla semi-italofonia dei semicolti, ed entrambe si opponevano alla dialettofonia di gran parte degli analfabeti, cioè della maggioranza degli italiani. Questa concezione più flessibile dell’italiano parlato, che include sia la lingua comune (italofonia) sia una varietà di italiano locale o di dialetto italianeggiante (semi-italofonia), permette di rivedere i bilanci statistici sull’uso di lingua e dialetto nell’Italia preunitaria: dal 2,5% di italofoni calcolato da Tullio De Mauro nella Storia linguistica dell’Italia unita si arriva così fino al 20-25% complessivo di italofoni e semi-italofoni, e forse anche qualcosa di più.

Si è soliti affermare che una vera e propria comunità linguistica nazionale si sia consolidata solo con l’avvento della TV: risponde a verità questa affermazione?
La televisione delle origini ha avuto intenzionalmente anche un ruolo educativo e lo ha esercitato con particolare efficacia nella diffusione nazionale dell’italiano parlato. Tuttavia sarebbe un errore sottovalutare la straordinaria influenza che l’istruzione ha avuto e continua ad avere sullo sviluppo della capacità di usare l’italiano nello scritto e nello stesso parlato, quale logica conseguenza delle attività formative, del contatto con autori e testi esemplari, dell’addestramento a comunicare con la penna o con la tastiera, e anche a sostituire opportunamente la penna o la tastiera con la voce, in tutti quei contesti orali che richiedono l’adozione della varietà di prestigio. Nel clima di accentuato rinnovamento linguistico l’insegnamento dell’italiano nella scuola conserva e per certi versi rafforza la sua centralità, perché raccorda e armonizza la tradizione letteraria con le tecnologie moderne, le identità culturali con la civiltà globale, costruendo il necessario ponte di collegamento tra passato, presente e futuro. Quando l’asticella delle competenze desiderabili tende a salire, come è opportuno che sia, emergono in particolare i problemi della scrittura «alta», che in vari casi non corrisponde ancora al livello di qualità atteso da chi svolge attività professionali complesse.

Come è cambiato l’italiano al tempo del web?
Anche se fa a meno dell’inchiostro, la scrittura conserva un ruolo fondamentale nell’universo della comunicazione telematica, e lo esercita in forme rinnovate ma non del tutto inedite. Nel mio libro ho preso in esame alcuni fulminei ma compiuti «nano-racconti» realizzati in forma di tweet, che rispettano il limite massimo di 140 caratteri, per mostrare che nell’inflazionata e disinibita lingua del web non mancano affatto gli esempi di un uso originale e piuttosto incisivo dell’italiano. Come lo studio della tradizione non deve suscitare sospetti di passatismo, così lo sguardo rivolto al futuro non va scambiato per un’ossessione modernista. Sarebbe del tutto ingiustificato criticare il ricorso a forme basiche, ellittiche o alternative di comunicazione verbale nelle chat o negli SMS, che non implicano i laboriosi meccanismi di strutturazione del pensiero propri di un testo complesso. Le preoccupazioni hanno invece motivo di nascere allorché gli scriventi estendono le modalità tipiche di questo genere di messaggi ad ambiti comunicativi diversi; o quando rivelano – per un limite culturale prima ancora che linguistico – la difficoltà di passare dagli usi immediati dell’italiano a elaborazioni testuali articolate e impegnative. Analizzare e sintetizzare, riflettere e argomentare, organizzare e sviluppare, immaginare e coinvolgere: la scrittura «alta» di cui si diceva è tutto questo e ancora di più.

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