
La dimensione delle sofferenze è quindi tale da richiedere sforzi straordinari per cui lo schema secondo il quale tutto si risolverebbe con un serio piano di riforme è vero solo in astratto. L’ipotesi sottostante è che con le riforme vi sarebbe un recupero di efficienza che porterebbe il sistema ad essere più competitivo e quindi in grado di catturare quote importanti della domanda mondiale. Tale ipotesi, però, non tiene conto del tempo necessario affinché le riforme producano quegli effetti, tempo tutt’altro che breve e all’interno del quale le sofferenze potrebbero essere tali da impedire la stessa attuazione delle riforme.
Quindi le riforme, sebbene indispensabili, rischiano di non essere fatte se non sono accompagnate da una spinta alla spesa pubblica in grado di alimentare la domanda operando su tre fronti: rilancio degli investimenti pubblici, creazione di posti di lavoro soprattutto per i giovani; lotta alla povertà. Queste esigenze richiedono uno sforzo finanziario di circa 30 miliardi l’anno che potrebbero essere trovati riducendo altri tipi di spese o ricorrendo a maggiore indebitamento. L’idea che i mercati non siano in grado di sopportare neanche un nuovo contenuto indebitamento è smentito dal fatto che in questi anni ciò è avvenuto regolarmente senza incidere sul costo del debito (ovviamente anche per merito anche del QE di Draghi).
Più che un ritorno allo stato dirigista si richiama, quindi, il fatto che, a fronte di una crisi straordinaria, anche gli strumenti di intervento debbono essere straordinari e molteplici: tra questi anche un ritorno alle politiche keynesiane nella consapevolezza che le riforme da sole non bastano e che il mercato da solo non è in grado di dare risposte sufficienti. In tal senso è necessario che lo Stato torni ad essere protagonista attivo e non solo per fare riforme in grado di rendere il mercato più efficiente.
Quali sono le tappe fondamentali della storia dell’economia italiana dagli inizi degli anni Settanta ad oggi?
Gli anni settanta hanno rappresentato un periodo fondamentale della nostra storia economica. Sino ad allora il paese aveva avuto uno sviluppo straordinario in cui il basso costo del lavoro associato ad abilità produttive non indifferenti (almeno in alcune parti del sistema) copriva le tante inefficienze esistenti in altre parti dello stesso sistema. Si trattava di inefficienze volutamente sopportate perché servivano a creare e mantenere posti di lavoro.
Con la piena occupazione raggiunta nelle aree più sviluppate il costo del lavoro aumentò; allo stesso tempo aumentò il prezzo del petrolio per cui venne meno la possibilità di continuare a basare la propria competitività solo sul basso costo dei nostri prodotti.
La reazione virtuosa sarebbe stata quella di una politica economica ed industriale che puntasse su di un piano di riforme che favorisse la ristrutturazione della nostra economia in senso moderno. Per motivi diversi –non ultimo il pericolo del terrorismo- le scelte non andarono in tale direzione cercando invece di proseguire sul terreno della concorrenza low cost, perseguita attraverso la costante svalutazione della moneta (la cosiddetta svalutazione competitiva). Ma svalutare voleva anche dire pagare di più le materie prime -da noi largamente importate- e quindi perdere potere d’acquisto. Per recuperare il potere di acquisto che così si perdeva si pensò bene di ricorrere a costanti deficit spending orientati in larga misura a sostenere la spesa corrente: così nel giro due decenni il rapporto debito/Pil è addirittura triplicato.
La politica economica del paese sino al Trattato di Maastricht si è basata su tale binomio (svalutazione e debito) fino ad arrivare ad un punto di non ritorno. La scelta di aderire sin da subito al Trattato è da interpretare come l’acquisita consapevolezza della fine della precedente fase per la sua evidente insostenibilità.
Fu avviato in quegli anni un piano di riforme volte a:
- la dismissione delle partecipazioni Pubbliche;
- garantire una maggiore flessibilità al mercato del lavoro (Treu, 1997 e Biagi, 2003);
- intervenire sui trattamenti pensionistici (Dini, 1995);
- favorire una maggiore semplificazione nella Pubblica Amministrazione (Bassanini, 1997);
- riforma del titolo V (2001);
- introdurre una maggiore concorrenza nei mercati (Bersani, 2006).
Si mise, inoltre, sotto controllo la spesa pubblica tanto che il rapporto debito/PIL nel 2007 era tornato sotto il 100%.
I risultati di tali interventi sono stati però contraddittori; in particolare non servirono a modificare la base della nostra competitività dal momento che, nonostante la crescita degli investimenti, la produttività del lavoro (e la conseguente remunerazione) non aumentò: ancora una volta il sistema non riuscì a rinnovarsi. La riduzione del rapporto debito/PIL inoltre è quasi integralmente motivata dalla riduzione degli interessi favorita dall’adesione al Tratta di Maastricht e dalla successiva adozione dell’euro.
Quindi non si è risolto il problema della ristrutturazione in senso moderno del sistema; la competitività resta ancorata al modello di piccola impresa che anche in quegli anni -anche se con sempre maggiore sofferenza- è riuscito ad adattarsi ai nuovi scenari: la crescita rallenta e resta al di sotto di quella della maggior parte degli altri paesi europei.
Quali le cause e quali le conseguenze della crisi attuale?
Le cause della situazione attuale vanno quindi ricercate nelle mancate scelte del passato, aggravate in modo pesante dalla crisi del 2008. Quella che inizia alla fine del 2008 determinata dal fallimento di Lehman Brothers è stata la più grave crisi della storia repubblicana del paese determinando una caduta di PIL, occupazione e, soprattutto, investimenti che non ha precedenti.
Questa lunga fase recessiva (superata solo parzialmente in questi ultimi due anni) ha generato significativi squilibri all’interno del sistema nel senso che ha colpito in modo differenziato persone, imprese, territori e lo ha fatto in modo particolarmente preoccupante perché a soffrirne sono stati soprattutto i giovani, l’industria manifatturiera e quella delle costruzioni, le aree meno sviluppate.
In un sistema come il nostro, orientato all’export –e quindi con una crescente esigenza di innovazione- se ad essere colpiti sono soprattutto i settori manifatturieri e i giovani, è evidente che la velocità di marcia si ridimensiona fatalmente: non è un caso che i modelli previsivi indichino una crescita potenziale che si discosta poco dall’1% annuo.
E qui si apre il principale dilemma della leggera ripresa in atto. La questione non è solo se è sufficiente, ma è a quali condizioni essa si sta verificando. Infatti a questa bassa ripresa è associata anche una sostanziale stagnazione della produttività. Siccome la bassa produttività era considerata da tempo il problema primo del nostro paese, la questione è come si faccia a mantenersi competitivi sui mercati internazionali se questa non torna a crescere. La risposta più probabile è: riducendo i costi e tra questi soprattutto quello del lavoro. Sono molti i segnali che vanno in questa direzione.
Non che manchino nel paese imprese e settori di eccellenza, ma è evidente che, visto nel suo insieme, il nostro sistema ha difficoltà ad uscire dal modello originario di economia low cost.
Di quali riforme ha bisogno il nostro Paese?
Vi sono alcune riforme sulle quali tutti sembrerebbero concordare e che riguardano la semplificazione e la riforma della giustizia. Siccome però se ne parla da tempo occorre chiedersi perché non si siano fatte o perché i vari tentativi non abbiano raggiunto i risultati sperati: colpa di una intrinseca difficoltà a mettere mano ad un corpo esageratamente esteso e barocco di leggi e regolamenti? oppure resistenza di tutti coloro che dalla semplificazione ricaverebbero svantaggi? Credo che questo secondo aspetto non sia da trascurare.
Ma vi sono anche altre riforme su cui occorrerebbe insistere a partire dalla considerazione che il problema della disoccupazione giovanile va affrontato con una certa urgenza. È un problema strutturale del paese che si è notevolmente aggravato in questi anni. È evidente che vi è, di fondo, una difficoltà a legare la formazione alle esigenze del mondo produttivo, per cui i giovani che escono dai percorsi di studio non sono appetibili per le nostre imprese.
Su questo fronte è frequente il ricorso alle best practice di altri paesi. Tra questi in particolare la Germania che in effetti sul fronte della disoccupazione giovanile ha da sempre conseguito risultati eccezionalmente positivi per essere riuscita a garantire l’integrazione tra formazione e lavoro (il famoso modello duale di alternanza scuola-lavoro).
Di qui l’idea –corretta- di prendere spunto da quel modello. Tuttavia nel farlo non si può non tenere conto della diversità tra i modelli di industrializzazione dei due paesi, per cui ciò che è perfetto per un paese in cui la presenza di piccole imprese è limitata (la Germania) non è detto che valga per un paese fatto di piccole imprese (l’Italia).
Il ruolo di intermediazione tra formazione e lavoro richiede un impegno ben maggiore di quello di un paese in cui le imprese sono in grado di esprimere le esigenze lavorative future e di impegnarsi direttamente nella formazione delle giovani generazioni.
I nostri centri per l’impiego non hanno la dotazione di personale, per qualità e quantità, adeguata a svolgere questa funzione di intermediazione (peraltro rafforzata negli intenti del jobs act). Occorrerebbe quindi dotare tali centri di personale adeguatamente preparato ed in numero sufficiente ad accogliere i giovani che escono dal percorso di studio, profilarli sulla base delle loro caratteristiche, indirizzarsi verso corsi formativi qualora ve ne fosse bisogno, individuare le imprese in grado di assumerli. Compiti estremamente complessi in un mondo dominati da piccole e piccolissime imprese.
Di nuovo la constatazione che una riforma, in astratto buona nei propositi, nei fatti rischia di fallire se non accompagnata da risorse atte a sostenerla; ma assumere nuove persone nel pubblico impiego è però oggi una proposta del tutto impopolare nonostante il fatto che la nostra dotazione di lavoratori occupati nelle funzioni pubbliche è tutt’altro che ridondante.
La stessa spesa pubblica del paese, al contrario delle opinioni correnti non è elevata, anzi se escludiamo gli oneri per interessi, essa risulta più bassa di quella degli altri paesi con cui siamo usi compararci. Molto vi è naturalmente da discutere sulla sua efficienza ed efficacia.
A questo proposito un altro aspetto su cui varrebbe la pena di riflettere è il nostro assetto istituzionale, in particolare il fatto che 20 regioni, 110 province e gli oltre 8 mila comuni siano oggi adeguati a rapportarsi in modo adeguato con i cittadini, le imprese, le parti sociali o se sia invece il caso di ripensare a un loro riassetto. Ad esempio se si accorpassero le regioni a poco più di dieci (come peraltro risulta anche da alcune recenti proposte), si abolissero davvero le province e si accorpassero i comuni avremmo probabilmente non solo un notevole risparmio di spesa ma anche una maggiore capacità di far fronte alle esigenze dei cittadini. Anche questa una riforma necessaria, ma sicuramente impopolare.
Quale ricetta per avviare finalmente una crescita stabile?
La crescita a cui aspiriamo dovrebbe essere non solo stabile, ma anche in grado di creare lavoro e buone condizioni di vita. Ciò che osserviamo in questi giorni è che sulla stabilità della crescita forse qualche buon risultato è stato conseguito (ben sapendo, però, che molto dipende dallo scenario internazionale): una crescita stabile attorno all’1% sembrerebbe infatti essere nelle nostre corde; la questione è se tale crescita sia anche sufficiente a coprire in tempi ragionevoli tutti i problemi generati dalla crisi.
A questo proposito occorre non dimenticare che l’Italia continua ad essere un paese export-led, ma non vi è dubbio che l’effetto sulla crescita sarà tanto maggiore quanto più la crescita delle esportazioni (e del turismo) sarà accompagnata anche da quella delle altre componenti autonome della domanda (spesa pubblica ed investimenti), tra cui non possiamo, però, includere i consumi dal momento che questi sono trainati -e non trainanti- della crescita (a meno che non aumenti la propensione a consumare).
Nella percezione di una certa resistenza ed incertezza sulla ripresa degli investimenti privati, la questione torna ad essere cosa fare della spesa pubblica in modo da farne una forza propulsiva del sistema. Due sono le possibilità. La prima è una redistribuzione verso voci che hanno un effetto moltiplicativo più elevato: a favore cioè delle categorie a maggiore propensione al consumo (giovani disoccupati, poveri) e degli investimenti. Questi ultimi avrebbero il vantaggio di produrre stimoli all’economia quando vengono realizzati e soprattutto (se ben fatti) quando entrano in funzione: il problema è che nel nostro paese i tempi di avvio degli investimenti sono spesso biblici, per cui occorrerebbero riforme atte a semplificare le procedure.
In sintesi pensare di risolvere i problemi solo con le riforme è illusorio, così come sarebbe fuorviante pensare di ritornare al precedente modello in cui molti dei nostri problemi si risolvevano col deficit spending.
Va quindi ritrovata quella sincronia tra spesa pubblica (anche con indebitamento, quando si tratta di finanziare investimenti) e riforme che è sempre mancata al nostro paese. Negli anni settanta ed ottanta è infatti aumentata la spesa in deficit senza fare riforme; successivamente si è provato a fare riforme senza il sostegno della spesa pubblica ed ora stiamo nuovamente forzando in tale direzione.
Se non si trova il giusto equilibrio tra le due visioni il rischio è di non riuscire né a fare riforme efficaci né a ridurre il debito pubblico percorrendo una strada che potrebbe condurci verso la scelta peggiore: uscire dall’euro.