
Perché si può affermare che Uno, nessuno e centomila rappresenti una riscrittura allegorica della Commedia dantesca?
Pirandello era un cultore dell’allegoria, come afferma nella Prefazione ai Sei personaggi in cerca d’autore e come dimostrano i suoi bellissimi saggi danteschi (colpevolmente trascurati dalla critica). Ed era un ossessivo cultore di Dante. Inoltre era un docente di Stilistica, laureato in Filologia Romanza, fissato con le etimologie. Cioè ogni parola, ai suoi occhi – proprio come per Dante – aveva un peso specifico peculiare, era soppesata mille volte, calibrata. Questo mi ha portato a pensare che nulla sia casuale in Pirandello. Dunque, mi sono detta: se l’eroe di un romanzo tanto difficile da essere etichettato come un “romanzo filosofico”, è il figlio di un viscido usuraio, e grazie a una nobile figura femminile intraprende un percorso di liberazione dalla zavorra dell’eros, della violenza suicida e della voracità del denaro, la chiave di lettura dell’Uno, nessuno e centomila non può che essere Dante, con la sua guerra contro la lonza seduttiva, il leone sanguinario e la lupa vorace. E il romanzo è una raffinata operazione stilistica che riscrive, dettaglio dopo dettaglio, la Commedia dantesca: con i suoi momenti nodali, i suoi scenari e suoi personaggi archetipici.
Quindi la Sua scoperta è legata allo studio della Divina Commedia?
Certamente. Negli ultimi anni mi sono occupata solo di Dante, dedicando anche molto tempo alle Letture dell’Inferno di Roberto Benigni, con il gruppo di dantisti coordinati dal professor Franco Musarra; e Dante era anche il fulcro del mio libro sul retaggio umanistico nella poesia di Pier Paolo Pasolini. Per cui quando ho ripreso in mano e riletto per i miei studenti l’Uno, nessuno e centomila, si è inaspettatamente accesa una luce dantesca che ha svelato finalmente il segreto profondo di un romanzo che per quasi cento anni è rimasto oscuro ai suoi tanti lettori e alla critica. Per la prima volta gli enigmi su cui tante volte mi ero interrogata, si scioglievano, comprendevo il messaggio segreto poiché si trasformavano naturalmente in indizi danteschi: indizi della biografia di Dante, della sua fisionomia, indizi dei personaggi che egli incontra nell’aldilà, indizi del suo percorso di liberazione dal buio della perdizione verso la luce.
Quali sono stati i primi indizi che ha riconosciuto, quelli che l’hanno insospettita?
Il fatto che il padre di Moscarda sia un usuraio, come probabilmente Alighiero Alighieri, e anche il fatto che Boccaccio, primo biografo di Dante, nel suo Trattatello in laude di Dante usi stranamente gli stessi aggettivi con cui Pirandello descrive Moscarda: «barbuto», con il naso «aquilino», il «mento» inferiore sopravanzato. Dopo poco sono inciampata anche nell’indizio più importante di tutti: il famoso «naso che pende verso destra». Infatti, scavando come quando ero giornalista, ho scoperto che anche Dante aveva una deviazione del setto nasale verso destra, e che il fatto fu appurato proprio nel 1921, grazie a una ricognizione dei resti mortali danteschi eseguita a Ravenna in occasione del sesto centenario dalla morte del Sommo Poeta. Pirandello a quel tempo stava appunto scrivendo il romanzo, e quando gli esiti della ricognizione ossea furono pubblicati nel 1923 nei «Rendiconti dell’Accademia dei Lincei», non devono essere sfuggiti proprio a lui che era un assiduo lettore di riviste culturali e accanito studioso di cose dantesche. Proprio lì, tra tabelle e misurazioni dello scheletro di Dante, si nasconde infatti una piccola frase: «le ossa nasali sono deviate verso il lato destro». A quel tempo l’architettura dell’Uno, nessuno e centomila è ampiamente definita (Pirandello ci lavorava almeno dal 1909); e il romanzo allegorico dantesco è ormai quasi ultimato. Ma forse la scoperta di questo naso deviato a destra ha molto a che fare con il famoso incipit, dedicato a questo «irreparabile guasto sopravvenuto al congegno dell’universo». La pubblicazione della prima puntata del romanzo risale al dicembre del 1925.
In quali modi il protagonista Vitangelo Moscarda incarna l’alter ego di Dante?
In tutti i modi. Tutto combacia. Un trauma che arriva a metà della sua vita, a ventotto anni (Dante visse cinquantasei anni). La fisionomia, la statura di un metro e sessantotto, oltre al naso e al mento. Perfino il mignolo torto è quello della statua di Firenze. Poi la storia familiare (il padre usuraio, la madre morta giovanissima, il matrimonio combinato dal padre, la profonda difformità elettiva tra padre e figlio, il sentimento profondo dell’esilio, la banca come luogo di perdizione e di violenza). Ma soprattutto il percorso narrativo che negli scenari e nei personaggi, ricalca il cammino dantesco attraverso l’Inferno, il Purgatorio e il Paradiso: Virgilio si muove nelle vesti del garbato vicino di casa; Cerbero latra con le sue tre fauci nelle parole del socio Quantorzo (che infatti ripete tutte le sue parole tre volte); Plutone ringhia nei panni del furbo socio Firbo; la lussuriosa regina cartaginese Dido si muove sinuosa e seducente sulle anche della moglie Dida; l’insegnante di eloquenza Ser Brunetto Latini rivive nel sodomita Marco di Dio e in quel Tesoro di moglie che infatti si chiama Diamante; il Conte Ugolino prende in prestito il silenzio allucinato del Notaro Stampa e l’ugola del suo canarino in gabbia che non canta più; San Francesco e San Pier Damiani confluiscono invece nel Vescovo Partanna, e il Canonico Sclepis incarna invece l’Angelo Guardiano del Purgatorio; anche l’odiatissimo Papa Bonifacio VIII recita una piccola parte nei panni del commesso bancario Turolla. E poi c’è lei, Anna Rosa, che raccoglie in sé l’identità letteraria di Beatrice, della dantesca Piccarda Donati, con un pizzico di malizia proveniente dalla Monaca di Monza manzoniana. Anche i nomi dei personaggi hanno una radice dantesca. Come pure gli scenari che prima sono asfittici e claustrofobici, poi a mano a mano più respirabili e infine ariosi e pieni di luce, affrancati dal peso della materia.
Com’è possibile che in cento anni nessuno studioso abbia colto il sottotesto dantesco dell’Uno, nessuno e centomila?
Niente di più facile. Pirandello è ideologicamente un aristocratico. Non era di fede fascista, come qualcuno ancora suggerisce, ma è senz’altro elitario, per lui la nobiltà d’animo è una rarità, non è cibo per il gregge (proprio come scrive Dante). Dunque, per selezionare i lettori del suo romanzo, io credo che egli li abbia sfidati, abbia reso la loro vita difficile, costruendo ogni frase, ogni soluzione narrativa, come il frutto coltissimo di un’operazione stilistica raffinata, come un intarsio di doppi sensi, di sinonimie, di false etimologie, di parole deformate attraverso assonanze, consonanze, rime. Insomma Pirandello blinda Dante in un testo che funziona come un’erma bifronte, come una matrice criptata che solo un dantista può decifrare, poiché la chiave di lettura si annida appunto nella vita e nell’opera di Dante: la Vita nuova, il Convivio, e naturalmente la Commedia.
Pirandello non era solo maestro assoluto di deformazione umoristica, ma anche di manipolazione stilistica; il suo armamentario lessicale e morfologico era sterminato, e la sua memoria del testo di Dante era poderosa. In cento anni nessuno si è mai accorto di questo sottotesto dantesco forse per la lamentabile abitudine accademica di separare i campi di indagine: chi studia Dante spesso non studia il Novecento, e viceversa. Tra i banchi dei Licei, invece, tutte le conoscenze si tengono insieme, perché giochiamo ogni giorno su più tavoli, attraverso secoli lontani tra loro. E poiché i nostri più grandi letterati si sono formati proprio su Dante, assimilando il suo discorso poetico e i suoi contenuti, solo studiando Dante possiamo comprendere fino in fondo la loro arte. E non soltanto nel settimo centenario dalla morte.
Michela Mastrodonato è dottorata in Letteratura Italiana a Sorbonne Université (ELCI) di Parigi. Saggista e giornalista, dopo anni come corrispondente da Parigi e Gerusalemme (per Reuters, Rai, Euronews, “Lettera Internazionale”), è oggi Docente di Italiano e Latino al Liceo «Augusto Righi» di Roma. È studiosa di Dante e dedita alla didattica dantesca. Tra i suoi studi danteschi, quelli offerti al gruppo di dantisti coordinati da Franco Musarra a sostegno di Roberto Benigni. Nel 2017 ha pubblicato «Pietà per la creatura!». La durata umanistica e sacrale della poesia di Pier Paolo Pasolini (Cesati Editore, 2017, pp.330). È stata finalista del «Premio Calvino» («L’Indice dei Libri», edizione 2000), con il romanzo inedito dal titolo Delle nostre parole.