“«Pigliare occhi, per aver la mente». Dante, la Commedia e le arti figurative” di Laura Pasquini

Prof.ssa Laura Pasquini, Lei è autrice del libro «Pigliare occhi, per aver la mente». Dante, la Commedia e le arti figurative edito da Carocci: quale ruolo hanno avuto le arti figurative nella costruzione dell’immaginario poetico dantesco?
«Pigliare occhi, per aver la mente». Dante, la Commedia e le arti figurative, Laura PasquiniDi sicuro un ruolo molto significativo, quello che mi ha indotto a pensare a un libro su Dante e le arti figurative, seguendo un percorso che già la critica precedente aveva segnalato e battuto, gettandone le basi solide e credibili. Il presupposto fondamentale risiede nel fatto che, al tempo in cui Dante visse, molto del messaggio politico e religioso era affidato al mondo delle immagini: il poeta, come gli uomini dell’epoca, era certamente abituato a recepire dalle rappresentazioni figurative suggestioni e suggerimenti non esclusivamente di carattere estetico, ma anche e soprattutto di ordine concettuale, relativi cioè ai contenuti, ai significati profondi di cui quelle stesse composizioni si caricavano, sollecitando la fantasia, suscitando stupore, ammirazione, timore, accompagnando e indirizzando la preghiera. Le rappresentazioni figurative non erano intese semplicemente come Biblia pauperum, ovvero come un ricco compendio di racconti figurati indirizzati a coloro che non avevano modo di leggere le Sacre Scritture o gli exempla riportati nei testi agiografici. La loro funzione andava ben oltre la mera e compiaciuta osservazione del soggetto o del racconto, ben oltre l’apprezzamento estetico transitorio e fuggevole. Vi era una funzione più profonda e sottile affidata alla contemplazione dell’immagine, sacra o profana che fosse, che non era cioè confinabile alla mera acquisizione di un contenuto superficiale e transitorio: a essere sollecitata dalle figure era la memoria di ciascuno, il ricordo introiettato e fatto proprio, che consente di rivivere intimamente i temi descritti, sollecitando le emozioni e favorendo un’empatia profonda e mistica. Le immagini venivano in sostanza percepite come enti attivatori della memoria, come imagines agentes, immagini attive e piene di senso, capaci di innescare la meditazione, costruite apposta per ricordare argomenti e concetti e dunque per attivare propriamente la pratica della mnemotecnica moralizzata per la quale rimangono fondamentali le pagine di Frances Yates sull’Arte della Memoria e quelle di Lucia Battaglia Ricci per i significativi risvolti interpretativi calati nella poetica dantesca. Le figure poetiche che Dante ci presenta lungo il tragitto di conoscenza e crescita interiore, esemplificato attraverso il viaggio nei i tre regni ultraterreni, hanno dunque la medesima funzione attribuita agli esempi figurativi proposti nel testo, noti e condivisi, cui crediamo che il poeta potesse ispirarsi e dinanzi ai quali lui stesso aveva forse potuto meditare: esse ci consentono di patire anzi tempo tutte le sofferenze dell’Inferno, di sentire il beneficio della penitenza accordato alle anime del Purgatorio e di figurare le beatitudini del Paradiso.

Quali opere d’arte ha visto Dante e quali di esse lo hanno colpito maggiormente?
Di opere d’arte Dante ne ha viste tante, anche quelle che noi conosciamo solo perché citate dalle fonti ma che il tempo e l’incuria ci hanno impedito di ammirare. Anche di queste dobbiamo tenere conto. Negli edifici pubblici, nei luoghi di culto ma anche nei manoscritti, cui tuttavia solo pochi potevano accedere, un ricco repertorio iconografico, sviluppatosi già a partire dai secoli XI e XII, rafforzava timori e rivendicazioni politiche, lasciava emergere le paure per la fine dei tempi, metteva in guardia sulle conseguenze del peccato, raccontava di guerre e distruzioni, di salvezza e dannazione, di inferno e paradiso. Pitture infamanti, semmai transitorie, temporanee, ma non per questo meno angoscianti, tappezzavano le mura esterne e le strutture interne dei palazzi pubblici denunciando ingiustizie e tradimenti. Immagini concitate di mostri, draghi, ibridi e serpenti, di cavalieri sconfitti, di anime dannate soccombenti ricoprivano portali, capitelli, cornicioni, pareti e pavimenti delle chiese; le gesta dei santi, gli exempla fortitudinis, le storie della Vergine e di Cristo, le loro figurazioni maiestatiche ne animavano le absidi, le cupole, le pareti alte delle navate, costringendo il fedele, anche nell’atto, a sollevare il capo verso il cielo, cercando fra i colori e le luci inebrianti di quei racconti, le risposte alle preghiere, le conferme, il conforto, ancora la meditazione intima e profonda. Queste immagini erano il pane quotidiano del cittadino medievale. La biografia del poeta, solo raramente confermata da documenti certi, ci impedisce tuttavia, salvo alcuni casi, di dare per scontato il fatto che Dante abbia visto davvero, che ne abbia avuto il tempo, semmai anche la voglia, quando da esule peregrinava di corte in corte. Abbiamo solo alcune certezze in merito alla sua presenza sicura in pochi luoghi rilevanti anche dal punto di vista storico-artistico. Certamente Firenze, Bologna, Verona, Ravenna. Per il resto ne seguiamo le “orme”, le tracce labili e insicure, difficilmente supportate da documenti di archivio che possano confermare anche le più che sensate ipotesi di una sua presenza in luoghi che vorremmo da lui frequentati, davanti a episodi decorativi che vorremmo da lui osservati con attenzione. Pur mantenendo sempre viva questa necessaria prudenza metodologica, cui nel volume spesso deroghiamo, supportati da quelli che riteniamo essere validi riscontri testuali, non possiamo non annoverare fra le fonti di ispirazione sicure e rilevanti alcuni episodi decorativi certamente visti: in primo luogo i mosaici del battistero fiorentino, il «bel San Giovanni» di Inf. XIX, 17 e quelli bizantini ammirati a Ravenna, “ultimo rifugio” del poeta esule, cui sono dedicati ampi spazi nel volume.

In che modo nella Commedia è possibile rinvenire gli spunti figurativi ispiratori delle visioni dantesche?
Per cogliere i riferimenti testuali a eventuali specifici episodi decorativi dobbiamo leggere tra le righe, avvicinarci alla Commedia avendo sempre a mente la rilevanza che le immagini avevano nella cultura medievale. Si tratta di operare una lettura trasversale che tenga anche conto dell’approccio complesso che il poeta aveva nei confronti degli ipotesti tutti, quelli testuali come quelli figurati, mai semplicemente assimilati, ma sempre, invece, sottilmente rielaborati e amplificati da inventiva e poesia sublimi. Dante non copia immagini, non riporta in bello stile ciò che vede, non descrive opere d’arte, per quanto meritevoli ed eccelse possano apparire ai suoi occhi; talvolta, anzi, pare addirittura dissimularle. Il poeta le elabora, la fa sue, la plasma a suo piacimento, e le riporta nel testo opportunamente trasformate, sovente trasfigurate. A noi il compito di ricostruire filologicamente la fisionomia di quel mosaico, di quell’affresco, di quella scultura come di quel testo letterario da cui crediamo sia potuta scaturire la suggestione poetica.

Quale importanza riveste il soggiorno romano di Dante in occasione del Giubileo del 1300?
Che tra i fiorentini recatisi in pellegrinaggio a Roma nel 1300 vi fosse anche Dante è opinione generalmente accolta dagli studiosi, anche se, in realtà, non ci sono documenti certi su questo. L’unica visita di Dante a Roma sicuramente attestata avvenne in realtà l’anno successivo, nel settembre 1301, quando il poeta prese parte all’ambasceria inviata da Firenze al Papa, che già dall’anno precedente preparava l’impresa di Carlo di Valois, apparentemente finalizzata alla pacificazione della Toscana. A risarcire il silenzio delle fonti contribuisce un noto passo della Commedia, per la precisione i versi 22-33 nel canto XVIII dell’Inferno, dove Dante paragona il procedere in senso opposto delle due schiere di ruffiani e seduttori puniti nella prima bolgia dell’VIII cerchio ai pellegrini che sul ponte Sant’Angelo, durante il Giubileo, si incrociavano in due file contrarie, gli uni diretti a San Pietro, gli altri, di ritorno, diretti a Monte Giordano:

A la man destra vidi nova pieta,
novo tormento e novi frustatori,
di che la prima bolgia era repleta.

Nel fondo erano ignudi i peccatori;
dal mezzo in qua ci venien verso ’l volto,
di là con noi, ma con passi maggiori,

come i Roman per l’essercito molto,
l’anno del giubileo, su per lo ponte
hanno a passar la gente modo colto,

che da l’un lato tutti hanno la fronte
verso ’l castello e vanno a Santo Pietro;
da l’altra sponda vanno verso ’l monte.

La notizia del “doppio senso di marcia” sul ponte, allestito per organizzare la grande ressa («l’essercito molto») di quelli che andavano e venivano dalla Basilica, che Dante potrebbe certamente aver appreso da altri pellegrini o dagli stessi romani nella sua visita dell’anno seguente, testimonierebbe secondo gran parte della critica la potenza di un’immagine introiettata e riemersa dalla memoria, avrebbe cioè il chiaro sapore di un ricordo personale, di una situazione effettivamente vista e vissuta. Collocare Dante a Roma durante il Giubileo e non soltanto in occasione della concitata ambasceria del 1301, ci consente di immaginarlo stupito pellegrino presso i tanti e meravigliosi luoghi di culto della città, attento osservatore di mosaici e affreschi, tardoantichi, romanici e gotici ma anche estasiato spettatore dinanzi alle vestigia della Roma antica con i suoi preziosi, classici rilievi.

Laura Pasquini, storica dell’arte, è professoressa a contratto presso il Dipartimento di Storia Culture Civiltà dell’Università di Bologna. Tra le sue pubblicazioni: Iconografie dantesche (Ravenna 2008); Bologna delle torri. Uomini, pietre, artisti dal Medioevo a Giorgio Morandi (Firenze 2013) e Diavoli e inferni nel Medioevo (Padova 2015).

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