
Qual è lo stato dell’archeologia contemporanea?
Non c’è una sola archeologia ma molte archeologie, che ciascuno coltiva seguendo interessi e tradizioni consolidate, attraverso le proprie inclinazioni e competenze. Ci sono studiosi solitari quasi degli umanisti del Rinascimento e quelli più scienziati che lavorano in gruppo usando nuove tecniche per avere maggiori informazioni e ricorrendo ad altre discipline meno umanistiche, come la geofisica o la chimica organica. Esiste una pluralità molto diversificata e interessante, ognuna valida in sé se porta risultati nuovi e non si limita alle chiacchiere o a spararla più grossa (i dati correttamente ricostruiti restano mentre spesso le interpretazioni passano alla svelta e qualche volta bisognerebbe avere il coraggio di tacere su quello che non si può dire). Forse la stagione dei grandi scavi è tramontata. Oggi si è affermata un’etica archeologica che impedisce di sterrare ettari di città antiche che devono essere indagate in tutte le loro fasi e con metodi appropriati che richiedono molto tempo, molte persone e molto denaro. Le tecnologie consentono di conoscere a grandi linee le città sepolte ma poi gli scavi si devono limitare a parti ridotte. A me interessano soprattutto i contesti per tutta la loro storia e nella loro complessità: per esempio una città dalle sue origini fino all’abbandono con tutte le trasformazioni. E mi interessano tutte le categorie di fonti, dalle iscrizioni ai semi carbonizzati perché ciascuna accende un faro su aspetti specifici che devono alla fine essere ricomposti in una narrazione (anche per questo servono le équipe con specialisti di diverse discipline, non potendo essere tutte dominate da un’unica persona). Sono interessanti anche le relazioni nello spazio e nel tempo. Un libro di letteratura greca contiene tutti gli autori antichi, da Omero a Procopio di Cesarea, che hanno usato la lingua greca per scrivere a prescindere dalla loro origine (dalla Sicilia o all’Egitto, dal Mar Nero o alle Cicladi). Lo stesso non accade per l’archeologia dove la grecità è considerata secondo le frontiere nazionali e solo per determinati secoli (la Magna Graecia è italiana, l’Ellenismo alessandrino egiziano). In questi ultimi tempi la parola più ricorrente nella bibliografia archeologica e storica è “identità”, una questione molto complessa, spesso banalizzata (qualcuno e a ragione ha proposto una moratoria del termine). Manzoni aveva detto bene dell’identità italiana: una d’arme, di lingua, d’altare, di memorie, di sangue e di cor. Non è molto utile frantumare nello spazio e nel tempo l’identità greca (o le identità greche) ma è più interessante considerarla nel suo insieme e nelle sue interconnessioni con “gli altri”, dalla preistoria all’impero di Bisanzio.
Partiamo da Pompei, probabilmente le rovine più note al mondo: quali vicende hanno attraversato?
Nell’estate del 1943 Pompei fu colpita da più di 150 bombe alleate, la più grande calamità dopo l’eruzione del Vesuvio del 79 d.C. Molti quartieri oggi visitati dalle inconsapevoli masse dei turisti furono distrutti e molti edifici sono integralmente ricostruiti. È una vicenda dimenticata o poco conosciuta: la prima mappa con la localizzazione delle bombe fu pubblicata da una rivista specialista tedesca trenta anni dopo la fine della guerra e solo dieci anni fa la vicenda è stata ricostruita da un archeologo spagnolo. Il caso di Pompei mostra che le rovine antiche non sono cristalli intangibili ma organismi viventi. È ancora un mistero della storia se le bombe anglo-americane avessero obiettivi militari (per colpire i tedeschi) o se si sia trattato di bombe “intelligenti”, in una guerra ai civili per convincerli a passare dalla parte giusta, colpendo i monumenti più cari e significativi. A Milano le bombe non distrussero solo stazioni e caserme ma soprattutto chiese, palazzi, teatri e musei che non avevano una funzione esattamente strategica.
Nella vicenda di Herbert Fletcher DeCou archeologia e thriller si intrecciano.
Da almeno mezzo millennio l’archeologia è occasione di sfide appassionanti. Gli archeologi sono irritabili, dedicano tempo alle polemiche e a lavare le offese (come diceva un famoso archeologo inglese: l’archeologia non è una scienza è una faida). Alla metà del ‘500 Bartolomeo Marliani battagliava con Pirro Ligorio sulla topografia del Foro Romano (che era allora un campo di rovine) e pensava che solo lui avesse trovato la verità verissima e che neanche Romolo redivivo lo avrebbe potuto convincere del contrario. Agli inizi dell’800 Leopardi osservava gli antichisti di Roma, una città che non gli piaceva per niente (la trovava oziosa, dissipata e senza metodo, fonte di noie e di noie costanti). In una lettera al babbo descrive le dispute quotidiane, le chiacchiere e le fazioni degli archeologi: tutti pensavano di primeggiare e di andare in paradiso in carrozza. Dunque la polemica tra gli archeologi fa parte del gioco ed è inevitabile, un vecchio genere e una retorica consumata. Nella vicenda di Herbert Fletcher DeCou la contesa archeologica andò oltre le parole e fu commesso un omicidio: la disputa non era solo scientifica ma serviva al “possesso” di Cirene, in Africa settentrionale. È un giallo che avrebbe potuto raccontare Agatha Christie, che era anche moglie di un archeologo che spesso seguiva nelle sue spedizioni in Siria. Fletcher DeCou era un membro serio e studioso della missione americana che era arrivata a Cirene nel 1910, “soffiando” il sito agli italiani che avevano mire non solo archeologiche ma anche coloniali. Gli italiani ci rimasero male e probabilmente ricorsero all’omicidio per cacciare gli intrusi (questa è almeno la versione americana mentre gli italiani dettero spiegazioni più pittoresche e meno convincenti). Poco dopo l’Italia occupò la Libia e la Cirenaica e diventò così la “legittima proprietaria” di tutta l’antichità.
Tra i siti archeologici da Lei raccontati, a quali si sente più legato?
Negli ultimi quaranta anni ho scavato in Italia, Grecia, Egitto e Marocco. E ho passato molto tempo a visitare i siti archeologici del Mediterraneo, per interesse, per studio e per il piacere della scoperta. Come si dice: l’archeologia è una passione ed è probabilmente vero: ci sono ricerche che durano una vita, i colpi di fulmine, gli amori impossibili, i legami che si consumano rapidamente, le scoperte inattese e le delusioni. Ogni contesto archeologico ha le sue seduzioni: non solo l’incanto dei luoghi e delle rovine ma le storie che le pietre, la terra e gli oggetti raccolgono e che possono narrare (spesso sono trame complicate e difficili da sciogliere). Come ho scritto nel libro i siti archeologici hanno anche storie postume e molto recenti, che sono interessanti come quelle antiche. Se proprio devo scegliere un sito, scelgo Volubilis. In Marocco sono arrivato come un parvenu, dopo avere trascorso anni a scavare sul Palatino e a occuparmi dell’archeologia di Roma capitale dell’impero. Per me è stata la scoperta del nuovo mondo. All’inizio osservavo i resti antichi dal punto di vista di Roma (anche con un occhio blasé) ma per capire quel mondo bisognava immedesimarsi nelle società che si erano succedute e cambiare il punto di osservazione. L’occupazione romana non era che un breve periodo di una storia lunga, nella quale quelle popolazioni ai confini della terra avevano visto migrazioni e scambi con gli Iberici, i Fenici, l’Africa subsahariana e ai quali arrivavano oggetti dalla Grecia, dall’Egitto e dall’Asia. Un mondo interconnesso già nel III millennio a.C. Con l’arrivo di Roma si era creata una società provinciale e a Volubilis era stata costruita un facsimile di città romana, simile ad altre centinaia dell’impero. La popolazione locale aveva aderito al roman way of life, pur conservano le proprie tradizioni (in una specie di bilinguismo). Come Tacito e Puškin avevano capito, l’influenza del lusso favorisce l’addomesticamento e l’assoggettamento delle popolazioni.
Le vicende belliche in Siria hanno riportato alla ribalta il tema della conservazione dei reperti archeologici: quali le sfide attuali e quali le prospettive future?
Nelle aree di guerra i siti sono sempre in pericolo e rischiano distruzioni e saccheggi, che poi sono etichettati come “danni collaterali”, destinati alla lunga all’oblio (abbiamo detto prima di Pompei e delle bombe sganciate solo pochi decenni fa, un caso non molto diverso dai bombardamenti di Aleppo dei nostri giorni). In Siria non c’è stata solo la distruzione dei monumenti di Palmira con il martirio del direttore Khaled al-Asaad, ma intere città sono state perforate da crateri per trafugare oggetti artistici con guasti irrimediabili. Ma i siti sono in pericolo anche nelle aree di pace e per ragioni diverse. Fino a pochi decenni fa il patrimonio archeologico faceva parte dei luoghi della memoria ed era visitato da un’élite che aveva ricevuto una cultura classica, era dotata di ricordi scolastici e suggestioni letterarie. Poi è diventato un’industria di massa e come tutte le industrie deve aumentare i clienti e i ricavi, indirizzare gli investimenti, offrire prodotti competitivi sul mercato, adeguare la pubblicità. Giusto o sbagliato che sia: è così, e il processo sembra inarrestabile. I siti archeologici sono oggi categorie merceologiche con un numero crescente di clienti che vengono indotti ad andare in un posto (e a immortalare la visita con un selfie) come a comprare una marca di vino o di cappotto (anche senza essere buon gustai). I monumenti più gettonati rischiano usure irreparabili. In un qualsiasi giorno d’estate l’Acropoli di Atene è attraversata da migliaia di visitatori che vengono tenuti fuori dai monumenti da recinti e fischi dei custodi. Ma i milioni di piedi consumano la roccia dell’Acropoli insieme alle più antiche tracce, meno monumentali del Partenone ma non meno importanti. Per l’ambiente e l’alimentazione si sta affermano la consapevolezza che si tratta di risorse limitate ma questo non sembra ancora avvenuto per l’archeologia. Tutti sono contenti dell’aumento dei turisti e i turisti sono contenti di essere arrivati in un posto rinomato e di stare tutti insieme, anche se paiono distratti e non particolarmente interessati (o perlomeno così dànno a vedere). L’aumento esponenziale dei visitatori non è sostenibile (come si dice oggi). A Volubilis, un sito piuttosto marginale del Marocco, i turisti sono aumentati di 100 mila volte negli ultimi settanta anni. Non riesco neanche a immaginare il risultato della moltiplicazione dei cinque milioni di visitatori che entrano ogni anno nel Colosseo.