
di Lucia Visca
Castelvecchi
«Chi come quando dove perché, mi hanno insegnato appena messo piede al giornale. Altri tempi, un po’ leggenda un po’ retorica. Chi ha ucciso Pier Paolo Pasolini? Non lo sappiamo, a parte Pino Pelosi. Come? Purtroppo lo abbiamo visto e lo rivediamo nell’incubo dei ricordi. Dove? Metro più metro meno questo è certo, all’Idroscalo di Ostia. Perché? Prima o poi ce lo spiegheranno gli storici, poiché la cronaca e la giustizia non ne sono state capaci.
Processo dopo processo, rivelazione dopo rivelazione, siamo sempre lì, a quei primi tremendi sospetti, alla sentenza di Carlo Alfredo Moro: Pino Pelosi, Pino «la rana», diciassettenne reo confesso troppo in fretta per risultare credibile, non era solo la notte senza luna prima dell’alba del 2 novembre 1975. Aveva complici. Per alcuni aveva mandanti. Per molti aveva paura per non confessare un delitto impossibile da confessare se ti arrestano con il maglione bianco e solo uno schizzo di sangue su un polsino della camicia. Perché ti sei lasciato dietro un massacro, un mucchietto di ossa, carne e sangue.
Puntuali ad ogni anniversario, le rivelazioni girano tutte attorno allo stesso punto. E agli stessi nomi. I fratelli Franco e Giuseppe Borsellino, all’epoca ragazzini malvissuti, poi morti di Aids. E Johnny lo zingaro, o il biondino, al secolo Giuseppe Mastini, criminale a quindici anni, in grado di confessare se volesse, pensano in molti. Ma non lo pensa Pino Pelosi, che approfitta delle nuove indagini chiuse a maggio 2015 per scagionarlo una volta per tutte. O almeno così si suppone, visti i repentini cambi di direzione di Pelosi negli ultimi quarant’anni. Più un convitato di pietra, quarantenne del mistero, mente e controllore del delitto. Alcuni lo vogliono in moto, vigile testimone della corsa nella notte di Pasolini e Pelosi lungo la Via Ostiense. […] C’è chi il convitato di pietra lo colloca in una seconda macchina diretta all’Idroscalo nella notte del massacro. Una macchina carica di una batteria di piccoli assassini, determinati e feroci visto il risultato. L’ultima inchiesta porta, e scarta, un ulteriore dubbio: e se il convitato fosse Maurizio Abbatino? Una delle foto dei curiosi accorsi all’Idroscalo mostra un ragazzetto tutto pieno di ricci, che si sporge per guardare come decine di altri. Abbatino, socio fondatore della Banda della Magliana, all’epoca aveva ventun anni e forse stava già progettando il rapimento del duca Massimiliano Grazioli Lante della Rovere, drammatico atto costitutivo della banda. Difficile pensare che fosse già considerato talmente affidabile da eventuali complottisti da consegnargli il controllo del territorio dopo il massacro di Pier Paolo Pasolini. Tant’è che pubblico ministero e giudice delle indagini preliminari hanno escluso anche Abbatino dall’inchiesta. Deludendo le aspettative di chi vuole considerare a tutti i costi il peggio degli anni Settanta partecipe o mandante della morte del poeta. […]
Solo dopo un paio di settimane dalla morte di Pasolini, Oriana Fallaci e le meglio firme dell’«Europeo» cercarono di ribaltare la verità ufficiale. Trovarono una fonte, oggi ne conosciamo il nome. Mario Appignani, altro giovanotto dalla vita spesa fra droga e gesti d’esaltazione. È morto anche lui, non potrà più aiutare nessuno a discernere il vero dal falso. Anche ammettendo che ne fosse stato davvero in grado.
Resta dunque il perché. Perché andare ad ammazzare Pier Paolo Pasolini, scomodo poeta, in quei mesi firma del «Corriere della Sera», spauracchio di potenti e nemico dei conformisti? Perché ridurlo al silenzio in un prato della periferia più sconosciuta, lontano da tutto? Correvano gli anni Settanta, il gesto e la dimostrazione erano pratica corrente a Destra e a Sinistra. Colpirne uno per educarne cento, si diceva. […]
Negli anni, assodato che Pino Pelosi non era solo la notte fra il primo e il 2 novembre 1975, le ipotesi su moventi e mandanti sono state molteplici, fantasiose, talvolta utili, talvolta futili, spesse volte politiche. Mai con esiti certi. Fino a ridursi a tre: Pasolini fu vittima di un complotto ordito da Eugenio Cefis, servizi segreti italiani e Cia a vantaggio della copertura di segreti indicibili sull’Eni; la morte di Pasolini fu decisa da elementi di spicco della neonata Banda della Magliana, in complicità con ambienti neofascisti dediti all’autofinanziamento attraverso il traffico di droga; l’intenzione di vecchi arnesi della malavita di Casal Bruciato di punire un corruttore di ragazzini andò oltre sé stessa, complici il buio e la reazione rabbiosa del poeta deciso a difendersi anziché a farsele dare di santa ragione.
Tre ipotesi credibili, tre strade lastricate di indizi incastrati ai fatti e dimostrabili. Tre soluzioni logiche, sostenute, questa è la verità scomoda, da pochi o nulli riscontri investigativi. […]
È quasi lavoro da topi di biblioteca. Bisogna prendersi Petrolio, opera postuma di Pier Paolo Pasolini, sapere che doveva essere di circa duemila pagine, sapere che ne sono state ricostruite 522, sapere che il cuore sarebbe un capitolo intitolato Lampi sull’Eni. Che non c’è. Che racconterebbe di come Aldo Troya, alias letterario di Eugenio Cefis, ostacolerebbe fino alla morte Eugenio Bonocore, cioè Enrico Mattei. Attenzione ai modi del verbo: racconterebbe, perché quel capitolo non c’è, nonostante a più riprese rivelazioni scandalo tentano di accreditarne l’esistenza. Ci sono appunti, ci sono chiacchierate di Pasolini con questo e quello, c’è l’interesse del poeta per un pamphlet intitolato Questo è Cefis. L’altra faccia dell’onorato presidente, firmato da tal Giorgio Steimetz. Editore, l’Agenzia Milano Informazioni di Corrado Ragozzino. Altro non è che la vera identità di Steimetz. Quell’agenzia vive con i soldi di Graziano Verzotto, ex presidente dell’Ente minerario siciliano, ma soprattutto intimo collaboratore di Enrico Mattei, amico di Mauro De Mauro. Il libro è introvabile per anni […].
Pier Paolo Pasolini quel libro lo conosce, lo consulta, prende appunti, tanto che la copia finisce al Gabinetto Vieusseux di Firenze insieme con tutte le altre carte del poeta. L’altra faccia dell’onorato presidente non è tenero con Cefis, successore di Mattei all’Eni. Di lui sono scritte cose assai aderenti all’appunto del Sismi conservato fra le carte del pm Vincenzo Calia, di Pavia, che ha indagato sulla morte di Enrico Mattei: Cefis sarebbe il vero fondatore della loggia P2, che avrebbe diretto fino a quando conquistò la presidenza della Montedison.
C’è chi pensa, da qualche lustro, che Lampi sull’Eni conterrebbe le prove di questo e di ogni altra efferatezza attribuita a Cefis e al suo mondo. La prova? Uno scritto corsaro pubblicato sul «Corriere della Sera» il 14 novembre 1974. Uno sfogo, un’intemerata sotto il titolo «Che cos’è questo golpe? Io so». Iterando quell’«Io so», Pier Paolo Pasolini affronta tutti i mali e tutti i misteri dell’Italia postbellica. Non si arrende, non getta la spugna ma ammette: «Io so. Ma non ho le prove. Non ho nemmeno indizi». Se fosse davvero profeta, sembrerebbe parlare della vicenda giudiziaria seguita alla sua morte. Tutti sembrano sapere, ma non hanno le prove, gli indizi sono scarsi. […]
È possibile che Pier Paolo Pasolini sia stato ucciso in conseguenza di un complotto di Stato. In Italia, in quegli anni, è successo questo e peggio di questo. Ma non sono l’anagrafe e la geografia a poterlo dimostrare. E poi c’è da spiegare come si arriva da Eugenio Cefis, nel ’75 già potente boiardo di Stato, a Pino Pelosi, detto «la rana», marchetta diciassettenne in difficoltà anche a mettere insieme il pranzo con la cena. Il passo è lungo, non facile, anche a metterci in mezzo i servizi segreti deviati, che sulle vicende degli anni Settanta non si negano a nessuno. Ma i servizi, è cronaca, hanno cominciato a giocare con la malavita romana nel 1978, in coincidenza con il rapimento e l’assassinio di Aldo Moro. Porto franco per chi dava notizie sullo statista e magari era disponibile per qualche lavoretto poco commendevole. […]
Tre cose sono certe: Pasolini è stato di fatto giustiziato, gli esecutori erano forse cinque, nel delitto c’è la mano pesante della malavita. Oltre questo non si va.»