“Piccoli Ior. Le Casse diocesane da Porta Pia alla seconda guerra mondiale” di Riccardo Semeraro

Dott. Riccardo Semeraro, Lei è autore del libro Piccoli Ior. Le Casse diocesane da Porta Pia alla seconda guerra mondiale edito dal Mulino: quando e come nasce la Cassa diocesana?
Piccoli Ior. Le Casse diocesane da Porta Pia alla seconda guerra mondiale, Riccardo SemeraroL’origine delle casse diocesane risale alla metà dell’Ottocento. Nella diocesi di Mondovì, nel Cuneese, l’esistenza di una cassa è documentata a partire dal 1855, mentre alcune casse lombarde ebbero origine nei primi decenni postunitari, poco dopo Porta Pia e gli eventi conseguenti. Risulta evidente il legame con le vicende conseguenti ai difficili rapporti Stato-Chiesa per come andavano delineandosi nella stagione del Risorgimento e dell’Unificazione nazionale.

Il nuovo Stato unitario dava avvio a una serie di riforme ispirate a principi di libertà religiosa e all’abolizione dei privilegi ecclesiastici che proseguivano con una politica di incameramento del patrimonio ecclesiastico. Oltre alle proprietà immobiliari venivano coinvolte anche fondazioni o legati pii per oggetto di culto, ovvero quel complesso di sostanze identificate nel Codice di Diritto Canonico del 1917 come “fondazioni pie” o “fondazioni ecclesiastiche”: beni temporali dati a una persona morale nella Chiesa con onere perpetuo, o lungo, con redditi per messe, funzioni, opere di pietà o di carità.

Di fronte a questa nuova stagione di soppressioni e incameramenti, la Chiesa italiana cercava di difendere il proprio patrimonio ed elaborava una serie di strategie che andavano dal riacquisto dei beni alle aste da parte di singoli religiosi o prestanome, alla costituzione di società private come le tontine, alla fondazione di società anonime per azioni alle quali venivano intestati gli immobili ecclesiastici, alla creazione di associazioni pie. Per quel che riguardava la salvaguardia e gestione di legati pii e capitali mobiliari destinati a opere di carità e religione, progressivamente, le diocesi costituivano e perfezionavano lo strumento delle casse diocesane. A tale strumento, sostanzialmente sconosciuto alla storiografia economica, si è deciso di dedicare uno studio monografico con l’obiettivo di comprenderne l’identità e il ruolo economico svolto tra Ottocento e Novecento.

Quali funzioni svolgeva l’istituto?
La cassa diocesana, anche detta promotoria o cassa ecclesiastica, veniva costituita per la custodia e per l’amministrazione di capitali destinati ad opere di cristiana pietà e religione. In altre parole, essa rappresentava uno strumento istituzionale mediante il quale venivano raccolti capitali destinati a diverse forme di carità (legati) oppure (in alcuni casi e in maniera marginale) depositati in custodia, in entrambi i casi al fine di una efficace gestione finanziaria capace di garantire margini di redditività utili al perseguimento dei fini stabiliti dai legati ed, eventualmente, a incrementare il patrimonio. I legati erano prevalentemente rivolti a sostenere, con il loro reddito annuo, il costo di assistenze sanitarie e sociali per abitanti di determinate parrocchie, come pure di celebrazioni liturgiche e funzioni religiose.

Come evidenziato a inizio Novecento dal card. Andrea Carlo Ferrari, arcivescovo di Milano, i principali depositi amministrati dalle casse diocesane si potevano distinguere in tre diverse categorie: depositi provenienti da affrancazioni o composizioni fatte da patroni o altri soggetti aventi interesse a causa delle leggi italiane eversive dell’asse ecclesiastico; depositi provenienti dal pagamento di legati contemplati in testamenti pubblici invalidi ai sensi delle leggi civili; depositi provenienti da pie intenzioni volontarie e spontanee eseguite dalle stesse persone disponenti, o da persone di loro fiducia, sia durante la loro vita, sia dopo la loro morte. Nella maggior parte dei casi si trattava di piccoli versamenti raccolti presso un apposito ufficio di curia e concentrati in una sorta di fondo comune per una più efficiente gestione centralizzata, anche in ragione di un accumulo capace di garantire una redditività finanziaria più corposa e, soprattutto, sicura.

Le diocesi mediante lo strumento delle casse diocesane, che operavano come endowment funds, si proponevano come veri e propri investitori istituzionali capaci di offrire un accesso ai mercati ai capitali di numerosi privati che difficilmente negli anni tra Ottocento e Novecento avrebbero potuto trovare una destinazione più fruttuosa. Attraverso tutto ciò, negli anni in cui Crispi e lo Stato italiano guardavano alla costruzione di un welfare pubblico fondato sulle storiche risorse della beneficenza, attraverso sostanze analoghe, la Chiesa poneva le basi per il consolidamento di una modalità di presenza in ambito assistenziale eminentemente sussidiaria.

Come si articolavano la struttura, il funzionamento e la gestione finanziaria della Cassa?
Le casse diocesane erano cosa altra rispetto alle mense vescovili e alle risorse finanziarie amministrate dagli uffici di curia: esse erano enti a sé stanti, dotati di una certa autonomia. La Chiesa a livello centrale emanava una serie di regolamenti per il funzionamento delle casse diocesane a partire dal 1887. Particolarmente importante era il regolamento che veniva steso e distribuito alle curie nel 1904, con il quale veniva ufficialmente introdotto il nome “cassa diocesana” e si definiva l’obbligo per le commissioni amministratrici delle varie casse di stendere e inviare a Roma (ad una specifica commissione cardinalizia) una relazione annuale sullo stato della cassa. La commissione amministrativa, detta anche commissione ecclesiastica diocesana, era sempre presieduta dall’ordinario diocesano e si componeva anche di altri tre sacerdoti, cui potevano aggiungersi un ragioniere o un consulente finanziario meritevoli di fiducia. Tra i tre sacerdoti era da individuarsi per elezione un segretario che aveva il compito di redigere i verbali delle riunioni della commissione (da tenersi almeno una volta al mese) e ogni altro documento necessario al funzionamento della cassa.

Il regolamento in questione definiva atti amministrativi ordinari, straordinari e precauzioni che dovevano caratterizzare l’operatività delle casse diocesane e delle loro commissioni.

Potevano essere accettati in deposito solo valori mobiliari al portatore, quali titoli pubblici garantiti dallo Stato o da opportuna ipoteca, oppure ancora valori emessi da istituti di credito di assoluta solidità e affidabilità. Capitali mobili di altra natura, immobili, oppure ancora denaro contante, potevano essere accettati solo se convertiti in titoli come quelli di cui sopra. Raccolte le rendite degli investimenti finanziari relativi a ciascun deposito, distribuite le stesse secondo quanto convenuto per ciascuna destinazione, venivano attribuite a ciascun deposito spese d’amministrazione che non dovevano superare il 2% del reddito netto conseguito con la gestione patrimoniale.

Gli atti amministrativi straordinari riguardavano invece alcune particolari questioni che già nel corso dei decenni precedenti avevano caratterizzato lo sviluppo del funzionamento delle casse diocesane. Ad esempio, la vendita o la commutazione di titoli depositati, come pure il reinvestimento di denaro ricavato dalla sostituzione o dal rimborso degli stessi, ancorché concordati con il depositante, dovevano essere autorizzati dalla Congregazione vaticana competente in materia: inizialmente quella dei Vescovi e Regolari e successivamente quella del Concilio. Analoga autorizzazione doveva essere ottenuta anche in caso di richiesta di restituzione di uno specifico deposito. Solo in caso di pericolo, ad esempio per possibile crack dell’istituto emittente, era possibile vendere celermente un titolo senza previa approvazione della Santa Sede.

Le principali precauzioni previste dal regolamento per l’amministrazione delle casse diocesane erano le seguenti: tutti i valori depositati e tutti i documenti di funzionamento dell’ente dovevano essere custoditi in una cassaforte, munita di tre chiavi, una affidata all’ordinario diocesano, una al segretario della commissione amministratrice e la terza, a turni semestrali, agli altri amministratori; tutti i membri della commissione erano vincolati al segreto, anche mediante uno specifico giuramento; ogni anno la commissione doveva rimettere in sede centrale una dettagliata relazione sullo stato della cassa e sul suo funzionamento nel corso dell’ultimo anno.

I contenuti di tale regolamento venivano analizzati e discussi nelle singole sedi diocesane, con valutazioni critiche che emergevano in maniera coordinata, come avveniva per le Chiese lombarde, o con richieste di revisione da parte di singole diocesi. Anche sulla base di queste valutazioni e del conseguente dialogo che si instaurava tra Roma e le Chiese locali, un dialogo in cui intervenivano anche personaggi chiave delle finanze vaticane quali Cremonesi e Nogara, il regolamento del 1904 veniva aggiornato con le nuove edizioni del 1912 e del 1935; gli atti d’amministrazione ordinaria e straordinaria, le precauzioni e le altre norme che definivano il funzionamento delle casse diocesane venivano pertanto perfezionati.

Quale profilo emerge, dall’analisi dell’operato delle Casse, del rapporto tra Chiesa e capitalismo?
La questione del rapporto tra Chiesa ed economia è sotto i riflettori della ricerca finanziaria da lungo tempo e anche negli ultimi anni ha continuato a essere oggetto degli studi di diversi storici economici; si pensi ai lavori di Giovanni Gregorini in merito alla gestione economico-finanziaria delle congregazioni religiose o a quelli di Emanuele Colombo riguardo alla storia della cosiddetta economia rituale.

Ricostruendo e analizzando l’operato delle casse diocesane italiane emerge l’immagine di una Chiesa aperta alla comprensione e all’utilizzo dell’economia per soddisfare sia i propri bisogni che quelli della società in cui si trova ad operare e concretizzare la propria visione del mondo: tutt’altro che rifiuto del mercato; tutt’altro che rifiuto del capitalismo, anche finanziario; piuttosto, consapevolezza che numerosi elementi animano e superano il mercato, anzitutto la logica della reciprocità e del dono, confermando che l’economia è incastonata nella società e deve fare i conti con essa, Chiesa compresa.

Interessante è notare come, a fronte della pressoché totale latitanza rilevata da Francesco Cesarini in termini di interventi incisivi riguardo ai problemi del credito e della finanza da parte della propria dottrina sociale, la Chiesa abbia elaborato e progressivamente consolidato un complesso di regole e prassi per controllare e orientare il proprio rapporto con il capitalismo scaturito dall’operatività delle casse. Dalla ricerca svolta si evince che tale sforzo di formalizzazione e perfezionamento delle norme si fondava su un costante dialogo tra Santa Sede e diocesi, un dialogo sempre volto al rispetto delle finalità sancite nei legati amministrati dalle casse e all’individuazione di strategie d’investimento di medio-lungo periodo orientate alla riduzione del rischio e alla salvaguardia del capitale.

Emerge una Chiesa radicata nei territori che tutela i propri beni e li investe per valorizzarli, che cerca margini di libertà per agire sui mercati assumendosi le proprie responsabilità, dando così seguito ad una capacità economico-finanziaria che, in taluni casi, viene da molto lontano. Una Chiesa che, mediante un dialogo costruttivo tra centro e periferia, dimostra di possedere efficaci meccanismi interni volti al controllo delle problematiche scaturite dal rapporto con i mercati finanziari e dall’amministrazione di risorse talvolta anche ingenti.

A quali documenti ha attinto per la Sua ricerca?
Per svolgere la ricerca sono state consultate molteplici fonti presso diversi archivi. Di cruciale importanza è stato prendere visione della documentazione disponibile presso l’Archivio storico della Congregazione per il Clero: la parte più ricca e sistematica dei documenti riguardanti le casse diocesane è infatti conservata in questa sede. Qui, il materiale relativo alle casse si trova organizzato per diocesi e consta in particolare delle relazioni annuali stese dalle varie commissioni amministratrici, della corrispondenza tra gli amministratori locali e gli organismi deputati alla supervisione, dei documenti relativi a specifiche questioni e problematiche che attengono alla gestione straordinaria delle casse.

Importanti ai fini del lavoro sono state anche le carte disponibili presso l’Archivio Apostolico Vaticano e l’Archivio storico della diocesi di Brescia. Il primo conserva alcuni interessanti materiali nel fondo della Congregazione del Concilio; presso il secondo è stato possibile prendere visione dei documenti relativi alla gestione di specifici legati e dei registri utilizzati per la contabilità della cassa in sede locale.

Da ultimo, è stata consultata la documentazione conservata presso l’Archivio Storico della Banca d’Italia, in particolare materiali appartenenti alla sezione Vigilanza relativi a istituti di credito con cui le casse instaurarono relazioni per avvalersi di specifiche funzioni di tesoreria e di competenze tecnico-finanziarie.

Riccardo Semeraro è dottore di ricerca in Economics and management. Insegna History of the European economic integration nella facoltà di Scienze linguistiche e letterature straniere dell’Università Cattolica del Sacro Cuore (Brescia) e svolge attività di ricerca presso il dipartimento di Scienze storiche e filologiche dello stesso ateneo. Si occupa di storia economica e sociale, dedicando particolare attenzione ai distretti industriali, al concetto di resilienza e al rapporto tra Chiesa ed economia.

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