
Tutto inizia col mito fascista della «vittoria mutilata» già nel 1919 a seguito della prima guerra mondiale, ma ci vogliono circa dieci anni prima che si giunga alla diffusione di un vero e proprio romanzo di formazione fascista. Berlué di Francesco Jovine (Sandron, Palermo 1929) racconta per esempio di un orfano della Grande guerra (Berlué appunto), che vive con una zia e si prodiga nel far trionfare le ragioni di Mussolini, con lo scopo di onorare la memoria tradita del padre. Partecipa a una spedizione punitiva contro i «rossi sovversivi» e i fascisti lo portano alla marcia su Roma, dove finalmente indossa la camicia nera e vive l’emozione di incontrare il Duce in persona. Ancora Ciuffettino Balilla, omonimo protagonista di un romanzo di Yambo (Vallecchi, Firenze 1931), si fa onore sconfiggendo il drago rosso del bolscevismo al monito del suo maestro: «I giovani salvarono l’Italia sul Piave, e la salveranno oggi contro i rossi!», corruttori di ogni costume e distruttori della patria.
Il fascismo è così presentato come uno strumento di liberazione e redenzione contro i distruttori socialisti e la formazione del giovane protagonista passa sempre attraverso l’incontro con un gruppo di fascisti, che costituisce per lui una sorta di «rinascita» nel culto della brutalità e dell’azione, in nome della negazione del pensiero. Penso a L’ombra sulla strada (Sei, Torino 1936) di Olga Visentini o a L’altra guerra del Piccolo Alpino (Milano, Baldini & Castoldi 1936) di Salvator Gotta. Può capitare che la fede religiosa fermi la crescita del protagonista prima che degeneri nello squadrismo, ma lo trasformi in un difensore dei valori di Dio, Patria e Famiglia, sempre, tuttavia, contro i «rossi» sovversivi, che vogliono trasformare la società, come in Corcontento di Renzo Pezzani (1931).
Alla questione nel nostro libro è dedicato un saggio di Mariella Colin, massima esperta dell’argomento, che insegna all’Università francese di Caen.
Come venivano diffusi tra la gioventù i miti razzisti, xenofobi e antisemiti?
Prima di tutto attraverso la scuola, che allora aveva una funzione molto più incisiva di oggi sulla formazione dei giovani. La «fascistizzazione della scuola», con la pubblicazione del libro unico di Stato, fu un processo molto curato dal regime fascista. Penso per esempio al tempo della guerra d’Etiopia all’impegno nel giustificare il duro tema della distruzione del nemico e della guerra a un pubblico giovanissimo. Si doveva presentare la feroce mostruosità dei neri etiopi, popolazione barbara, che ci molestava, danneggiava, invadeva i nostri possedimenti, e soprattutto dei loro comandanti cattivi e incapaci, che si meritavano dai «bravi» italiani una giusta lezione. Il nostro impero si candidava a diventare un impero del lavoro, che avrebbe consentito agli italiani di rendere fertilissima quella terra ancora arida, a causa dell’incapacità degli indigeni. Mussolini avrebbe così conquistato l’Etiopia, per liberarla da governanti arretrati e schiavisti, per portare con l’impero una nuova civiltà in quelle terre.
La guerra diventava così giustificabile e giusta e pervadeva ogni pagina del libro di testo, come ricorda Enzo Laforgia nel volume, compresa quella dedicata alla migrazione delle rondini verso i paesi caldi: «Amelia, affacciata alla finestra, le segue con lo sguardo e vorrebbe poterne fermare qualcuna, per metterle un bigliettino nel becco e dirle: ˗ Portalo a mio fratello Giorgio; egli pure è laggiù, nell’Etiopia italiana, a compiere il suo dovere di soldato ˗».
In secondo luogo occorreva allontanare i giovani dalle loro letture più tradizionali e introdurne di nuove, sempre più cariche di elementi razzisti, xenofobi e spesso anche antisemiti. I libri di De Amicis, Collodi e Salgari, spesso proposti da insegnanti antifascisti, erano considerati antiquati. Alice nel paese delle meraviglie, il diffusissimo romanzo di Lewis Carroll, era sconsigliato, perché dominato da un’irrazionale atmosfera d’incubo, deformatrice del giudizio obiettivo sulla realtà; Mary Poppins di Pamela Lyndon Travers, tradotto nel 1936 in italiano da Letizia Bompiani, era osteggiato, perché negava il valore dell’autorità paterna e dell’obbedienza, finendo per rompere, nei suoi fondamenti religiosi, il vincolo familiare. Un libro alternativo poteva essere La favola vera del Britanno, testo di Gian Luigi Brignone, illustrazioni di Walter Roveroni, descritto nel libro da Giorgio Bacci. Vi si narra la storia dell’«orco Britanno», che possiede una maschera da gentiluomo, donatagli dalla strega Inghilterra, per consentirgli di dominare il mondo senza che nessuno si accorga della sua malvagità. Si accompagna con due consiglieri: il corvo Massone e il nano Sinagoga. La sua azione si fonda sulla corrispondenza tra religione ebraica e religione capitalistica degli inglesi, che offre agli ebrei, che si sentono popolo eletto, la giustificazione per ogni scelleratezza. Il romanzo è anche la condanna dell’affermazione di un’arte soggettiva d’ispirazione ebraica e comunista, estranea al genio del popolo, e che si oppone all’arte vera plastica e oggettiva, che l’orco profana e distrugge. Soltanto i figli d’Italia e Germania riusciranno a smascherarlo e a sconfiggerlo. Il libro è un’efficace sintesi di razzismo, xenofobia, odio anti-inglese e antisemitismo, molto innovativo per la funzione svolta dalle illustrazioni, che facilmente riuscivano a costruire l’immaginario infantile.
Come e per voce di chi si espresse il dissenso?
Non si poteva contrastare in modo aperto l’impostazione formativa imposta dal regime. Un tale atteggiamento si sarebbe verificato sostanzialmente inutile, perché non sarebbe giunto ai ragazzi. La censura l’avrebbe arginato soprattutto negli anni Trenta e Quaranta. Chi voleva dissentire doveva farlo in modo dissimulato, ma comprensibile. Si poteva giungere anche a provocare la letteratura di regime, sia pure sempre con sobrio e garbato distacco. È questo un terreno ancora in gran parte inesplorato. Penso all’opera di Aurelio Castoldi, già consigliere socialista nella giunta Malagugini a Pavia, costretta alle dimissioni dopo la marcia su Roma nel 1922. Si firmava con l’abbreviazione «Acas» sul quotidiano socialista «La plebe» di Pavia e fu distributore a Milano dell’«Avanti!» clandestino durante l’occupazione tedesca. Aurelio Castoldi ci sorprende per esempio con una commediola Romoletto, pubblicata per La Prora di Milano nel 1937, nella quale il protagonista nella gioia del carnevale rifiuta tutti i simboli del piccolo balilla, compreso il moschetto, in un tripudio di fiori e in un sogno di amore, di pace e di armonia universale. Questo avveniva a un anno dalla fine della guerra d’Etiopia, al tempo della guerra civile spagnola e nell’anno della prima legge razziale italiana, che puniva con reclusione fino a cinque anni, cito testualmente, «ogni relazione d’indole coniugale con persona suddita dell’Africa Orientale Italiana o straniera appartenente a popolazione che abbia tradizioni, costumi e concetti giuridici e sociali analoghi a quelli dei sudditi dell’Africa Orientale Italiana».
Altrettanto si può dire per Giuseppe Latronico, convinto repubblicano, amico di Piero Gobetti, del quale curò le relazioni editoriali milanesi, come confermano alcune lettere. Scriveva, tra l’altro, per la collana La scala d’oro della Utet. In tutti i suoi libri non solo non c’è alcun cenno a Mussolini e ai balilla fascisti, ma troviamo invece il ricordo del settecentesco Balilla, mito pre-fascista di libertà e indipendenza, riconosciamo la valorizzazione del gioco come libera espressione del fanciullo, e riscontriamo la dimensione disinteressata della conoscenza storica e scientifica. Castoldi, Latronico, insieme col giellista Daniele Ercoli costituirono il gruppo dirigente della casa editrice Labor di Milano e furono i promotori dell’Enciclopedia del ragazzo italiano, che tentò una sfida sapiente e non frontale al fascismo, accettandone gli inserti, ma senza contaminare ogni altro spazio dell’opera con riferimenti alla propaganda di regime, lasciandone indenni, in quattro edizioni tra 1938 e 1944, perfino l’inserto sulla Russia e le pagine dedicate alla storia del popolo d’Israele.