
Il libro commemora l’eccidio di quindici antifascisti detenuti nel carcere di San Vittore, compiuto all’alba del 10 agosto 1944 sul piazzale, senza alcun processo: in cosa consisteva la loro attività antifascista?
È molto difficile ricostruire un’attività che era inevitabilmente e totalmente clandestina. Le tracce che non venivano lasciate allora, non sono reperibili oggi. In clandestinità chi compie un’azione non conosce spesso chi la comanda, le catene di contatti sono programmaticamente frantumate. Non tutti sanno di tutti. Forse nessuno conosce interamente la rete nella quale opera. Le fonti sono le diverse memorie di parenti e collaboratori, le carte della questura, le testimonianze nei processi postumi subiti da fascisti e nazisti, qualche documento sparso. Dal dialogo di queste fonti nasce la storia. In città si combatteva meno che sulle montagne, ma in città si svolgevano tutte le attività logistiche che garantivano al movimento antifascista di funzionare. I meno giovani dei Quindici martiri erano già stati attivi nella propaganda antifascista negli anni Venti e Trenta e per loro qualche traccia importante è rimasta. Non ho certezza che tutti i Quindici si conoscessero tra loro, ma cooperavano tra loro. Si doveva prima di tutto convincere la popolazione di quanto la politica fascista fosse pericolosa per il Paese, mediante stampa e giornali clandestini, che poi dovevano essere diffusi nei negozi, negli uffici e nelle fabbriche. Si dovevano acquisire nuove forze alla Resistenza, soprattutto tra i giovani studenti e operai. Si doveva offrire un supporto logistico e finanziario a chi si trovava a combattere sulle montagne e nelle campagne. Se necessario, si doveva essere in grado di intervenire in prima persona. Bisognava anche proteggere clandestini e perseguitati, assisterli, se possibile trovare loro un ruolo e un lavoro, oppure nasconderli. Tra i Quindici martiri ci sono gli organizzatori degli scioperi del marzo 1944, che avvennero dentro e fuori dalle fabbriche, c’era chi teneva i contatti radio con gli Alleati. Nell’imminenza della Liberazione si dovevano difendere gli impianti industriali, le dighe in montagna, la gente, dai nazisti e dai fascisti che avrebbero, e hanno, poi distrutto e depredato. I Quindici martiri di piazzale Loreto erano per questo patrioti, difensori dell’Italia dai suoi nemici interni ed esterni. La loro attività antifascista mutava a seconda dei momenti e delle necessità ed era trasversale, non sempre politicamente connotata, nonostante l’alta coscienza politica di alcuni. Giulio Casiraghi, operaio comunista, e Umberto Fogagnolo, ingegnere azionista, lavoravano insieme dentro e fuori la Ercole Marelli, così come il maestro elementare Salvatore Principato lavorava a stretto contatto con l’operaio della Pirelli Eraldo Soncini. Erano entrambi socialisti. Credo che l’interazione tra loro fosse molto forte, quanto molto cauta. In Piazzale Loreto fu probabilmente colpita una rete. Non credo che i Quindici martiri fossero stati scelti a caso, anche se non lo posso dimostrare.
Quali vicende condussero agli arresti e quali furono le logiche che portarono all’eccidio?
Qui entriamo in una storia che ho cercato di scrivere per la prima volta e che sorprendentemente ha interessato pochissimo gli storici negli anni passati. È qualcosa di più di una circostanza, è un nodo storiografico. Studiare le vicende umane e politiche di questi Quindici uomini, che stanno alla base dei loro arresti, li rende autonomi di fronte a tutti coloro che ne possono o vogliono manipolare la memoria. Non è la morte e nemmeno il modo, per quanto tragico e ingiusto, della morte che rende grande un uomo o una donna, ma la sua vita. È questa vita che deve essere studiata. È un problema che non riguarda solo i martiri di Piazzale Loreto. Bisogna andare oltre la retorica delle vittime, che ha connotato le politiche della memoria di questi ultimi anni. Ricostruire la filiera degli arresti, che si estende dal 21 aprile, arresto di Libero Temolo, al 31 luglio, arresto di Andrea Esposito, mi ha aiutato molto nella ricostruzione di queste storie spesso ignorate. Dietro gli arresti ci sono sempre i delatori, spesso dietro a più arresti c’è lo stesso delatore, un infiltrato o un anello debole della catena, che in qualche modo viene fatto parlare. Ad arrestare è stata spesso la polizia fascista, a volte agendo per propria iniziativa, a volte su mandato tedesco. Fascisti e nazisti collaboravano strettamente. Determinanti per il destino dei Quindici furono gli arresti operati su ordine delle SS del generale Willy Tensfeld, tra l’8 luglio e il 25 luglio: Principato, Soncini, Del Riccio, Casiraghi, Fogagnolo, Fiorani. Non a caso questi sei uomini furono condotti inizialmente nel carcere di Monza, dove Tensfeld operava, e non subito a San Vittore. Si trattò di un’unica operazione, che cercò di colpire anche i collegamenti che i sei arrestati avevano coi partigiani dislocati sulle montagne.
Non è del tutto chiaro come dialogassero tra loro il comando supremo delle SS e della Polizia, lungo l’asse verticale che da Karl Friedrich Otto Wolff passava a Willy Tensfeld, con sede a Monza, che avrebbe avuto il compito di coordinare l’impiego tattico delle SS e delle forze italiane della Gnr nella lotta antipartigiana e nella repressione dei sabotaggi, e la Polizia di sicurezza e il Servizio di sicurezza con a capo il colonnello Walter Hermann Julius Rauff, alle strette dipendenze del quale era il capitano Theodor Emil Saevecke, che aveva sede a Milano all’Albergo Regina. Ancora meno limpido è il dialogo tra le varie milizie e strutture organizzative fasciste, a volte in contrasto tra loro. Mi sembra comunque abbastanza chiaro che l’eccidio ebbe numerosi padri, anche se per esso fu condannato nel 1999 il solo capitano Theodor Emil Saevecke. Ma questa è storia nota, almeno agli storici.
Il pretesto ufficiale dell’eccidio, anche questa è storia nota, furono le due bombe esplose l’8 agosto 1944 alle ore 8 e 15 della mattina sotto un autocarro tedesco, che stazionava all’altezza di viale Abruzzi 77, vicinissimo a piazzale Loreto, nonché l’attentato al capitano della milizia ferroviaria della Gnr Marcello Mariani, che era stato, pare, il delatore dei tre ferrovieri dello scalo di Greco fucilati il precedente 15 luglio.
Anche sulle vittime delle bombe di viale Abruzzi ho cercato di fare chiarezza, documenti e testimonianze alla mano. Il solo caporale tedesco Heinz Kuhn fu leggermente ferito, ma subito dimesso. Morirono sul colpo quattro passanti italiani, e per le ferite altri quattro poco dopo in diversi ospedali e guardie mediche milanesi, un altro il giorno successivo e una donna l’11 agosto. Dove erano gli altri tedeschi? Forse poco più avanti a bussare alla saracinesca di un barbiere per farlo aprire per farsi fare la barba… Così mi disse un testimone. Sarebbe stata per loro un’imperdonabile mancanza nel rispetto delle consegne militari, ma è questa l’unica plausibile giustificazione per poter immaginare due autocarri tedeschi nell’agosto 1944 con un solo caporale a bordo. Anche il questore Alberto Bettini confermò in proposito che «le vittime dell’attentato erano civili italiani e che l’autocarro era stato lasciato incustodito».
Appare comunque evidente che le bombe di viale Abruzzi furono il pretesto, non la motivazione, per compiere un eccidio, che già era nelle intenzioni di alcuni.
Cosa seguì all’eccidio?
Una grande e diffusa indignazione nelle fabbriche e nella società milanese e un inevitabile desiderio di riscatto. Certamente la Resistenza e l’antifascismo guadagnarono sostenitori, il sentimento dell’insurrezione si diffuse. Chi amministrava Milano, nazisti e fascisti, aveva platealmente tradito quella tradizione civile che la città si era faticosamente conquistata tra Settecento e Ottocento. Il fascismo perse molti consensi.
È comprensibile che chi portò i corpi di Mussolini e dei gerarchi fascisti in piazzale Loreto nella notte tra 28 e 29 aprile 1945 avesse in mente l’eccidio del 1944. Guido Crainz ha scritto di un «feroce e arcaico contrappasso», dove il corpo del tiranno è «esposto e vilipeso» nel luogo dove erano stati esposti i corpi dei Quindici martiri. Non fu una decisione presa dai vertici della Resistenza, ma una scelta di alcuni partigiani, nata nell’euforia di quella notte. Non ha senso dire se giusta o sbagliata, così come è inutile alla storia continuare a fare quei banali accostamenti, che ancora vengono fatti, e che il mio libro vuole superare. Ho speso pagine e pagine per spiegare la difficoltà del nesso tra «l’eccidio e il “contrappasso”», così come pagine e pagine per entrare nella complessità del rapporto tra storia e memoria. Non le posso qui ripetere. Rischierei di semplificare e non c’è nulla da semplificare.
Il mio è sotto ogni aspetto un libro di storia. Ho prestato alla storia la mia esperienza di filologo, perché ritengo che la storia abbia necessità di indagine filologica, di critica delle fonti, per superare pregiudizi ideologici ancora attivi e logori schemi interpretativi. Bisogna fare quello che Lorenzo Valla fece nel 1440 mettendo in discussione la falsa donazione di Costantino. Non mutò il corso della storia, ma servì all’uomo moderno.
Lei è nipote di Salvatore Principato, uno di quei martiri: qual è la lezione di Suo nonno per i nostri giorni e per il futuro del nostro Paese?
Lo dico nell’introduzione, per me piazzale Loreto è «il luogo nel quale le più alte aspirazioni di libertà, di uguaglianza, di solidarietà e di giustizia sono state soffocate nel sangue dalle ragioni meschine di un potere violento e corrotto, fatto di prepotente arroganza e di servile obbedienza». Mio nonno, che non ho mai potuto conoscere per colpa e vergogna di coloro che l’hanno ucciso, era un maestro di scuola e resta un maestro di vita. La sua lezione è che si può vivere secondo principi di rettitudine e onestà intellettuale, che la giustizia può essere ostinatamente perseguita, anche se non trionfa quasi mai e spesso sono i migliori a soccombere. Siamo sempre chiamati a scegliere tra i principi di solidarietà, libertà, di rispetto di noi stessi e degli altri, e il loro contrario. E a questa scelta non si può sfuggire. Il razzismo e la violenza si combattono così, con l’esempio e senza inutili proclami. Conosco tanti giovani, anche delle ultime generazioni, e questo chiedono: esempi tangibili e credibili di intelligenza e di umanità.
Massimo Castoldi insegna Filologia italiana all’Università di Pavia ed è responsabile della didattica presso la Fondazione Memoria della Deportazione. Studioso di Pascoli, di Manzoni e della letteratura umanistica, è autore della recente rivisitazione completa dell’opera pascoliana Da Calypso a Matelda. Giovanni Pascoli poeta dell’Èra nuova (Mucchi, 2019). Si è interessato negli ultimi dieci anni di critica delle fonti storiche con particolare riguardo alla cultura antifascista e alla Resistenza. Con il libro Insegnare libertà. Storie di maestri antifascisti (Donzelli, 2018) ha vinto per la saggistica italiana il Premio The Bridge 2019.