
La definizione di che cosa sia l’Occidente è controversa, ma che si scelga una definizione culturale (l’area di cultura latino-cristiana in cui sono nati il capitalismo e il regime liberale) o una economica (la regione del mondo industrializzata alla fine del Novecento), tanto l’Italia quanto il Sudafrica ne fanno parte. Per l’Italia, l’inclusione nel club delle “grandi nazioni civili” è il grande risultato dell’Unità, che ci ha consentito di sedere in consessi (pensiamo al G7) da cui erano esclusi paesi come la Spagna. Il Sudafrica, nonostante la lunga parentesi dell’apartheid, è oggi l’unico Stato africano in cui la democrazia liberale si fonda su solide basi: rule of law e magistratura, stampa e università indipendenti, nati nell’Ottocento, sono sopravvissuti anche durante il regime segregazionista e ciò spiega perché il Sudafrica sia passato nel breve giro di pochi anni da Stato-canaglia a modello di democrazia per il continente. Per esempio, è tuttora l’unico paese in Africa ad avere introdotto la protezione dei diritti civili della comunità LGBT, che oggi scava il confine più netto tra l’Occidente e il resto del mondo.
Se Italia e Sudafrica sono parte del mondo occidentale, però, nessuno dei due fa parte del suo nucleo centrale. L’Occidente ha un centro ben identificabile, che si colloca nelle aree in cui sono avvenute le grandi rivoluzioni borghesi: la “Gloriosa rivoluzione” inglese del 1689, la Rivoluzione americana e la Rivoluzione francese. Gran Bretagna, Stati Uniti e Francia sono le grandi potenze liberali che, dopo aver messo fine all’assolutismo, hanno respinto la sfida tedesca nelle due guerre mondiali e quella sovietica nel dopoguerra. Non a caso siedono tuttora come membri permanenti nel Consiglio di sicurezza dell’ONU. New York, Londra e Parigi sono le “città globali” a cui guardiamo ancora oggi quando vogliamo capire in che direzione va il progresso e anticipare le innovazioni che verranno. In Italia non ci piace ammetterlo, perché la cultura italiana, in tutte le sue venature ideologiche, poggia sulla speranza che prima o poi chiuderemo il gap con le grandi democrazie e sulla certezza che, se non ci siamo ancora riusciti, sia colpa di qualcuno o di qualcosa che potremmo superare (il familismo, il cattolicesimo, il fascismo, i limiti della classe politica, perfino il provincialismo e l’esterofilia). Ma quando si parla di “quello che si fa all’estero”, oggi come ai tempi di Cavour, si pensa invariabilmente a questi tre Stati. E chi prova a confrontare l’Italia con paesi dell’Africa, del Medio Oriente o anche dell’Europa orientale è guardato con sospetto, come se attentasse allo status internazionale del paese. Anche il Sudafrica, soprattutto negli anni Sessanta, aveva sviluppato una visione di sé come paese all’avanguardia nel mondo. Il trauma della condanna mondiale dell’apartheid è stato un antidoto potente, però gli altri africani dicono sempre che i sudafricani, bianchi o neri non importa, li guardano dall’alto di uno snobismo “da occidentali” – e gli storici sudafricani, soprattutto quelli di lingua inglese, tendono a privilegiare i confronti con la Gran Bretagna, gli Stati Uniti e l’Australia, evitando quelli con paesi come l’Italia, la Spagna e il Portogallo (o perfino il Canada francese) su cui continua a gravare l’immagine dell’arretratezza cattolica e mediterranea degli anni Cinquanta. Basta pensare al recente lavoro sulla storia del welfare sudafricano di un eccellente sociologo come Jeremy Seekings.
Oggi, sia Italia che Sudafrica però sono diventate “periferie dell’Occidente” anche in un altro senso. Negli anni Sessanta erano stati protagonisti di un boom che li aveva avvicinati alle grandi economie avanzate, ma dagli anni Novanta sono i due paesi industrializzati che stanno subendo più duramente la concorrenza delle economie emergenti del Sud del mondo. Davanti alla sfida cinese e indiana, Stati Uniti e Gran Bretagna hanno rilanciato puntando su finanza e innovazione tecnologica, la Germania e suoi satelliti sulla potenza industriale e sulla capacità di fare sistema con lo Stato, mentre Italia e Sudafrica, gli ultimi della fila, sono stati raggiunti e “azzannati” dagli inseguitori, scivolando indietro nelle classifiche mondiali del Pil. In entrambi i casi, nonostante due decenni di crescita debole, il welfare sta reggendo grazie al sistema delle pensioni e al sostegno delle reti famigliari, ma la disoccupazione giovanile ha raggiunto livelli molto alti e la polarizzazione tra insiders e outsiders e tra aree ricche e aree povere si è accentuata. E in tutti e due i paesi, da anni, vediamo una grande discussione sulla corruzione dei politici, sui rischi che il populismo faccia scappare gli investitori e su sperimentazioni per alleviare il disagio degli strati più marginali, come il reddito di cittadinanza.
Quali parallelismi è possibile tracciare tra la storia d’Italia e Sudafrica?
In senso lato, la periferia dell’Occidente comprende tutti gli Stati in cui le costituzioni liberali sono introdotte a metà dell’Ottocento sull’esempio francese, britannico e americano. Oltre a Italia e Sudafrica, ne fanno parte molte medie potenze del vecchio “mondo libero” come Canada, Paesi Bassi, Belgio, Svizzera, Danimarca, Australia e Nuova Zelanda. Sono paesi ai quali dovremmo prestare più attenzione. Penso per esempio alle politiche urbane: spesso ci ostiniamo a confrontarci solo con metropoli da sette o otto milioni di abitanti come Londra, New York e Parigi, mentre le nostre città maggiori sono più simili a Amsterdam, Bruxelles o Montréal. Solo in Italia e in Sudafrica, però, la crisi sociale che investe tutte i paesi industrializzati all’epoca della Prima guerra mondiale porta a una profonda trasformazione del sistema liberale. Mentre in Italia il fascismo mette fuorilegge gli altri partiti, in Sudafrica prende forma il regime segregazionista, che taglia fuori il proletariato africano dalle elezioni. L’abolizione dei sindacati e la compressione dei diritti dei lavoratori permettono i cambiamenti che fanno da base al boom industriale del dopoguerra, quando i due paesi sono inclusi nella nuova economia internazionale a guida americana. Ma introducono anche una corrente nazionalistica e illiberale nella cultura politica nazionale, che dura fino a oggi.
A quali conseguenze hanno portato la questione meridionale e la questione nativa che insistono rispettivamente nel nostro paese e nel paese africano?
La tesi del libro è che dal confronto tra due “eccezioni” possa emergere una chiave che le spieghi entrambe. Tutta la storiografia sulla formazione dell’Italia ruota attorno al gap tra il Settentrione, dove ha origine il processo di unificazione, e il Mezzogiorno. Quella sudafricana, attorno al perché lo sviluppo di un regime liberale abbia finito per escludere la popolazione nera. La tesi proposta riprende quelle di Rosario Romeo e di Vera Lutz (riproposte in termini più radicali da Nicola Zitara) e le teorie di autori come Harold Wolpe, Timothy Keegan e Jeremy Seekings in Sudafrica. L’idea è che la chiave dei due eccezionalismi vada cercata nel dualismo tra una parte molto ben connessa e integrata con l’Occidente industrializzato (il Nord-ovest piemontese-lombardo e il Sudafrica bianco, con Città del Capo e Johannesburg che, come Milano, attorno al 1900 diviene la capitale economica del paese) e una periferia interna che viene messa al servizio della prima, agganciata al suo sviluppo ma in posizione dipendente. Il Mezzogiorno rurale in Italia e le periferie bantu in Sudafrica forniscono manodopera a basso costo e mercati di sbocco, finché, a partire dagli anni Ottanta, finiscono per trasformarsi in periferie sussidiate. Fino a quando prevale un modello di sviluppo che trae beneficio dai differenziali salariali e nei consumi tra le due parti, il sistema funziona e tiene il passo delle grandi economie industriali. Ma quando la popolazione periferica si urbanizza e chiede di partecipare a pieno titolo al benessere e alla società dei consumi, le tensioni crescono e ne inceppano l’evoluzione.
In che modo entrambi i paesi hanno sofferto gli equilibri imposti dalla Guerra fredda?
Nella primavera del 1948, mentre inizia la Guerra fredda, in ognuno dei due paesi sale al potere un partito anti-comunista e pro-occidentale che resterà in sella fino al 1994. La Dc e il National Party afrikaner, sotto leader di formazione “clericale” ma fedeli alla democrazia parlamentare (De Gasperi e D.F. Malan), stabiliscono un’egemonia che offre alle potenze occidentali la garanzia che la collocazione internazionale del paese non verrà rovesciata. Negli anni Settanta, con la fine del ciclo espansivo postbellico e la sconfitta americana in Vietnam, la tensione interna porta a una fase di lotta armata, che in Italia è più breve (se escludiamo gli omicidi Biagi e D’Antona, si esaurisce a metà degli anni Ottanta), mentre in Sudafrica dura di più e si aggrava nei primi anni Novanta (mentre in Italia scoppiano le bombe di mafia). In entrambi i casi, l’élite liberale e il grande capitale vedono i limiti del monopolio del partito egemone e cercano di aprire alle forze anti-sistema (il Pci di Berlinguer e l’African National Congress di Mandela), dialogando anche con il sindacato, ma sono intimoriti dai legami con il blocco sovietico e, fino a quando il pericolo comunista non svanisce, esitano ad andare fino in fondo. Alla fine, la caduta del muro di Berlino e la conversione al capitalismo del Pci e dell’Anc permettono la liquidazione dei compromessi consociativi e l’ascesa al potere della sinistra, che però non portano all’avvento di un regime bipartitico (all’anglo-americana) o bipolare (alla francese), ma all’inizio di una transizione lunga e tormentata, che prosegue ancora oggi.
Quali caratteristiche comuni condizionano lo sviluppo economico dei due paesi?
La fase migliore, per le economie di entrambi i paesi, arriva tra gli anni Cinquanta e Sessanta, quando il modello di sviluppo basato sul dualismo interno raggiunge la massima efficienza. La crisi del 1973 e la crescita dell’attivismo sindacale e del costo del lavoro spingono l’industria ad automatizzare, seguendo l’esempio delle economie avanzate. Ma questo mina le basi del sistema, spingendo lo Stato ad espandere la spesa sociale per evitare pericolose tensioni. In Italia, la crescita della piccola e media impresa ci mette una pezza per un paio di decenni, mentre in Sudafrica la speranza è che lo smantellamento dell’apartheid, che inizia negli anni Ottanta, possa aprire un nuovo mercato interno. Dalla fine degli anni Novanta però è chiaro che nessuno dei due paesi regge la sfida dei paesi asiatici, che li spiazzano con un costo della manodopera ancora più basso e mercati interni molto più grandi e riescono a negoziare l’accesso alle tecnologie occidentali su basi più favorevoli. Viste in parallelo, le due crisi hanno cause strutturali, molto più che basate sui difetti o sugli errori di questa o quell’altra classe politica.
Quali nuove potenzialità per i due paesi?
Mi hanno detto che il finale del libro sembra pessimistico. In realtà, il messaggio di fondo è di fiducia nel futuro. Certo, guardare a un mondo che cambia per quello che è, abbandonando certezze consolidate, significa togliersi delle illusioni: il “miracolo italiano” è avvenuto quando l’economia mondiale era fatta di venti paesi, tutti occidentali, ed è improbabile che si ripeta. Ma significa anche girare lo sguardo dalla parte giusta. Un grande storico economico canadese, Harold Innis, ha scritto che quando le civiltà declinano, la novità spesso viene dai margini dell’impero, dalle periferie. Come il Sudafrica, anche il nostro paese ha la “sfortuna” di trovarsi su una frontiera. La crisi dei rifugiati ci ricorda la parte negativa di questa posizione. Ma la nostra prossimità può dare anche dei vantaggi. Quando l’Africa si svilupperà, se saremo pronti, ci troveremo nella posizione in cui si è trovata l’Australia nel momento in cui la Cina ha accelerato il suo sviluppo. Le nostre connessioni con il mondo occidentale sono salde e ci danno vantaggi competitivi rispetto alle economie che si affacciano ora sulla scena. D’altro canto, siamo molto più abituati di americani, inglesi o tedeschi a comprendere i problemi che nascono dall’applicazione degli standard moderni in contesti periferici – pensiamo al ruolo dell’ “informale” o delle reti famigliari nella nostra economia o a quello del clientelismo. Siamo nella posizione migliore per costruire ponti. Quando l’Impero romano stava crollando, le cose migliori sono nate sulle sue frontiere più esposte: nella Tunisia di Agostino da Ippona o nella Britannia del ciclo arturiano… Bisogna scegliere di guardare avanti e buttarsi verso un futuro ancora da interpretare e da inventare. L’alternativa è cullarsi nell’illusione che “ha da passà ‘a nutatta”, come diceva De Filippo. Per guardare al futuro bisogna riguardare al proprio passato con domande nuove e avere il coraggio di immaginarsi letture inedite. Solo così riprenderemo il controllo del nostro destino, come individui e anche come nazione. E potremo dire ancora, con Nelson Mandela, “I am the master of my fate” – siamo gli artefici del nostro futuro.
Rocco Ronza insegna presso l’Università Cattolica del Sacro Cuore di Milano ed è ricercatore associato dell’Istituto per gli Studi di Politica Internazionale (Ispi) di Milano per il Programma Africa. Frequenta da oltre vent’anni il Sudafrica. Ha pubblicato saggi su Stato e Mercato, Rivista Italiana di Scienza Politica e The Brown Journal of World Affairs. I suoi commenti sull’attualità sudafricana sono apparsi su Nigrizia, Limes, L’Unità, Il Fatto Quotidiano e su media radiotelevisivi come Radio24, Class Cnbc, Sky TG 24, RaiNews24, RSI e Tv2000.