“Percorsi musicali del Novecento. Storie, personaggi, poetiche da Schönberg a Sciarrino” di Giacomo Fronzi

Dott. Giacomo Fronzi, Lei è autore del libro Percorsi musicali del Novecento. Storie, personaggi, poetiche da Schönberg a Sciarrino edito da Carocci. Quali pregiudizi aleggiano intorno alla musica contemporanea?
Percorsi musicali del Novecento. Storie, personaggi, poetiche da Schönberg a Sciarrino, Giacomo FronziIn effetti, sulla musica contemporanea gravano, da sempre, molti pregiudizi. Probabilmente si tratta di una condizione che essa condivide con l’arte contemporanea in generale, rispetto alla quale, tuttavia, il pubblico sembra nutrire minore diffidenza. Questo stato di cose attiene, in parte, alla natura stessa della musica: sfuggente, asemantica, inafferrabile. Per citare Vladimir Jankélévitch, potremmo dire che nell’esperienza della musica ci troviamo davanti all’infinito, al possibile, all’indeterminato e «lo spirito si smarrisce in un groviglio inestricabile di biforcazioni biforcate, in una rete labirintica di incroci ramificati e di incroci di incroci. Non c’è più un dato che sia semplice: c’è solo una complicazione complicata all’infinito». A questo “regime naturale” della musica si aggiungono i caratteri specifici dei linguaggi musicali novecenteschi, che abitualmente – ed ecco i pregiudizi – vengono considerati incomprensibili, difficili, irritanti, dissonanti, fastidiosi, in una parola: brutti. Il punto è che quest’insieme di pregiudizi spesso discendono, come ogni forma di pregiudizio, dalla mancanza di conoscenza dell’oggetto che si sta valutando.

Ferme restando le sacrosante preferenze e le abitudini d’ascolto di ciascuno, il più delle volte la musica contemporanea viene respinta a priori. Ciò accade, appunto, perché spesso sfugge il pensiero musicale (elemento essenziale per me che, più che di storia, mi occupo di estetica e filosofia della musica) che sta al di qua di ciò che si ascolta, e che risulta fondamentale per poterne cogliere il senso e il significato. Oltre al fatto che, erroneamente, ci si aspetta dalla musica contemporanea di soddisfare esigenze (come il piacere immediato che, ad esempio, può generare l’ascolto di un Notturno di Chopin o di un Concerto per pianoforte e orchestra di Mozart) che non può e non intende soddisfare. Così come per molta arte contemporanea, che programmaticamente non vuole apparire “bella”, molta musica contemporanea si muove su piani diversi da quello del piacere. Per alcuni ascoltatori questo potrebbe già essere un valido motivo per prenderne le distanze, ma forse sarebbe più interessante scoprirne di più e solo successivamente decidere il proprio posizionamento.

Come se non bastasse, il pregiudizio secondo cui tutta la musica contemporanea – in quanto tale, costitutivamente – debba essere necessariamente noiosa e brutta stride con la realtà dei fatti. Al di là della relatività del concetto di “bello”, di cui certo qui non possiamo discutere, nei secoli XX e XXI sono state di certo scritte pagine di musica che potremmo definire, incrociando il parere dei più, davvero molto belle e piacevoli (si pensi, ad esempio, a compositori come Charles Ives, Kurt Weill, Steve Reich e molti altri).

Così come non si possono ricondurre tutte le forme che assume la musica contemporanea alla categoria della complessità incomprensibile. Molta musica contemporanea è strutturalmente complessa, non c’è dubbio. Basti pensare ad alcuni lavori di György Ligeti, Elliott Carter o Iannis Xenakis. Allo stesso tempo, però, è possibile trovare opere dalla semplicità ed essenzialità quasi disarmanti, come nel caso di alcune pagine di Musica ricercata di Ligeti o del Cantus in memoriam Benjamin Britten di Arvo Pärt. Insomma, i pregiudizi sono molti e non è facile superarli. Ahinoi, come disse una volta Albert Einstein, è più facile spezzare un atomo che un pregiudizio. Con questo libro, abbiamo accolto e accettato la sfida, nella speranza di poterla vincere, invitando a transitare dal pregiudizio al giudizio.

Proprio a partire da questa consapevolezza, abbiamo voluto offrire una narrazione appassionata del Novecento musicale, raccontato in modo accessibile e coinvolgente, attraverso personaggi, fatti e opere. L’obiettivo è quello di avvicinare la musica contemporanea scoprendo, innanzitutto, chi quella musica l’ha scritta. E posso garantire che le sorprese di certo non mancano.

Quali elementi caratterizzano la musica contemporanea?
Forse dovremmo partire da un’altra domanda, altrettanto impegnativa: che cos’è la musica (cosiddetta colta) contemporanea? In verità, avrei difficoltà a rispondere, come sarebbe difficile rispondere a domande analoghe come “che cos’è la musica?” o “che cos’è la vita?”. Diciamo, allora, che l’aggettivo “contemporanea” potremmo assumerlo come criterio orientativo, discriminante, dal punto di vista storico-cronologico. La musica contemporanea sarebbe tutta la musica composta a partire dall’inizio del Novecento. Certo, le periodizzazioni scaturiscono dalla necessità funzionale di dare senso e, soprattutto, ordine, contravvenendo però alla naturale e progressiva evoluzione della musica. Tuttavia, pur nel limite insito nella scelta di un terminus ante quem e di un terminus post quem, definire un perimetro cronologico può tornare utile nell’analisi e nella ricostruzione di quanto accaduto in un determinato arco temporale.

In questo caso, si tratta, appunto, del periodo che va dalla crisi della tonalità e la conseguente affermazione della dodecafonia di stampo schönberghiano. Per dirla in maniera molto semplice, succede che a un certo punto i compositori (Debussy, per citarne uno) iniziano a dilatare lo spazio dentro il quale operano. Fino a Schönberg, un compositore sceglieva la tonalità per il proprio lavoro (sinfonia in sol maggiore o sonata in do maggiore, ad esempio), una tonalità che potesse rendere al meglio il carattere che l’opera doveva avere. Una volta scelta la tonalità – pur attraversando altre tonalità (considerate più o meno vicine a quella di partenza, sulla base delle regole tradizionali del comporre) durante il decorso del brano –, il compositore rimaneva in quel campo. Schönberg sarà il compositore che, più di altri, cercherà di superare la “tirannia della tonalità” e molte altre regole con le quali, dall’inizio del Seicento, era stata scritta la musica occidentale. Dal Seicento perché è quello il secolo in cui viene codificato il cosiddetto “temperamento equabile”, vale a dire la divisione dell’ottava (Do, Re, Mi, Fa, Sol, La, Si, Do) in dodici parti uguali, corrispondenti alle note Do, Do#, Re, Re#, Mi, Fa, Fa#, Sol, Sol#, La, La#, Si. Questi dodici suoni, con Schönberg, avranno tutti la stessa rilevanza ed è da questa premessa che poi nascerà, appunto, la “dodecafonia”.

Tutto questo accade, in particolare, tra gli anni Dieci e Venti del Novecento. Il Manuale di armonia (Harmonielehre) di Schönberg, benché la prima versione risalga al 1911, trova sistemazione definitiva nell’edizione «aumentata e migliorata» del 1922, vale a dire nello stesso periodo in cui vede la luce la sua Suite per pianoforte op. 25 (1921-23), considerata il primo esempio di applicazione compiuta della tecnica dodecafonica. Da quel momento, una nuova via è stata indicata. C’è chi l’ha seguita strenuamente e fino alla fine, chi l’ha soltanto lambita e chi programmaticamente l’ha respinta. Sta di fatto che nessuno l’ha potuta ignorare. Questo, per venire alla Sua domanda, ci consente di sottolineare due degli elementi caratterizzanti la musica contemporanea, forse i più importanti: la sua vocazione verso “nuovi cominciamenti” e la sua estrema varietà e diversificazione.

Rispetto al primo elemento, dovremmo dire che nel XX secolo, per la prima volta, la musica si trova intrecciata con discipline (informatica, elettronica, fisica, chimica, architettura, botanica, solo per citarne alcune) e mondi (musiche tradizionali, folkloriche o popolari, filosofia orientale, meditazione zen, rumori e molto altro) rimasti fino ad allora lontani (o, comunque, mai troppo vicini) e a ciascuno di questi incontri corrispondono “nuovi cominciamenti”. Si dirà che anche in passato i musicisti hanno avuto qualcosa a che fare con alcuni di questi mondi. È vero. Ma è caratteristico dei compositori del Novecento il fatto di essersi impegnati nella ricerca di mutuazioni, dialoghi, ibridazioni e scontri in modo sistematico, come mai era accaduto prima.

Rispetto al secondo elemento caratterizzante, inestricabilmente legato al primo, potremmo dire, mutuando una felice formula di Fedele D’Amico (1959), che «la musica contemporanea non è una». Sarebbe davvero impossibile ricondurre le tante esperienze che hanno reso così ricca la storia della musica degli ultimi centovent’anni a un’unica tradizione o a un solo stile. La diversificazione e segmentazione hanno raggiunto un livello talmente alto da determinare una sorta di polverizzazione dei linguaggi: ogni compositore, pur avendo dei modelli di riferimento, costruisce un proprio linguaggio, un proprio stile, in modo autonomo e svincolato da qualsivoglia “autorità”. Non è un caso che Luciano Berio, nel 1993, abbia manifestato notevoli dubbi circa la possibilità di «esprimere una visione unitaria del fare e del pensare musicale, e sull’opportunità di cercare un filo d’Arianna che permetta, a chi lo desidera, di districarsi nel caleidoscopio musicale di questi ultimi decenni e di tentare una tassonomia e una definizione degli innumerevoli e diversi modi di fare e di avvicinarsi, oggi, alla musica».

Come si è sviluppato il percorso musicale del Novecento?
Nel suo Fase seconda (1969), Mario Bortolotto scrive: «Le vie verso la Nuova Musica sono dunque infinite? Almeno, pare, sono esse numerose e impensate». Già queste parole del grande musicologo friulano danno la misura della complessità della questione. Intanto, per essere più in linea con la situazione reale della musica del Novecento, sarebbe più opportuno parlare di “percorsi”, proprio per come recita il titolo del libro. In parte, qualcosa l’abbiamo già detta, a partire dallo scossone epocale provocato da Arnold Schönberg, il quale, di fatto, compie un passo decisivo verso il superamento dei canoni tradizionali del linguaggio musicale occidentale dei tre secoli precedenti. Nel solco del serialismo (soprattutto di stampo weberniano), si sono mossi alcuni dei principali compositori a metà del Novecento, come Karlheinz Stockhausen o Pierre Boulez, i quali hanno tentato la via dell’espansione del raggio di applicazione della tecnica seriale.

Anche sulla spinta di queste forme di serialismo integrale nascerà la musica elettronica, alla quale va affiancata la cosiddetta musica concreta di matrice francese (nasce con Pierre Schaeffer), la quale mette al centro l’evento sonoro, “estratto” dalla quotidiana e rumorosa realtà, e che a sua volta sarà all’origine di ulteriori ricerche, soprattutto legate all’attività dei due centri parigini dell’Ircam e dell’Ina-Grm.

Eppure, i percorsi musicali del Novecento non possono essere riconducibili esclusivamente alla dodecafonia e al serialismo (i cui padri sono Arnold Schönberg, Alban Berg e Anton Webern, considerati i tre della cosiddetta “Seconda Scuola di Vienna”), sia perché ci sono luoghi nei quali il serialismo ha attecchito molto poco (ad esempio, Stati Uniti ed Estremo Oriente) sia perché non sono certo rari i compositori che energicamente hanno voluto esplorare territori alternativi. È il caso, solo per citarne qualcuno, di Luigi Nono, Hans Werner Henze o Salvatore Sciarrino, in Europa. Oppure, Tōru Takemitsu, Charles Ives o John Cage, in altre parti del mondo.

Potremmo allora dire che i percorsi musicali del Novecento sono, se non infiniti, innumerevoli e impensati. Volendo usare delle etichette (pur consapevole dei loro limiti), questi percorsi vanno dal post-serialismo al saturazionismo, dallo spettralismo al minimalismo, dalla musica elettronica a quella concreta, dal neo-tonalismo ai soundscapes, dalla musica stocastica a quella acusmatica. Per non parlare, poi, degli stili e dei linguaggi non riconducibili a nessuna di queste “correnti” e delle possibili ibridazioni tra di esse.

Per concludere, non credo sia possibile individuare e descrivere in modo completo tutti i percorsi musicali che si sono sviluppati nel Novecento (alcuni dei quali, peraltro, sono emersi e scomparsi assieme a chi li ha generati), ma proprio per questo può essere interessante scoprire alcuni di essi.

Quali autori sono maggiormente rappresentativi della ricchezza dei linguaggi musicali che caratterizza il XX e XXI secolo?
Mi verrebbe da risponderLe così: i ventiquattro compositori di cui parlo nel libro. A parte le battute, anche in questo caso sarebbe difficile fare un’ulteriore spregiudicata selezione, oltre a quella che ho già fatto in Percorsi musicali del Novecento.

Come scrivo nell’Introduzione, sono consapevole del rischio legato all’assenza del compositore o della compositrice che un lettore o una lettrice ritengono possano avere (avuto) una certa rilevanza storico-musicale. Valga come attenuante e come parziale giustificazione il fatto che io stesso, rispetto a un primo elenco, ho dovuto faticosamente restringere la selezione dei compositori da trattare. Avrei voluto parlare di molti altri autori, ma, come ha scritto Giovanni Morelli alle prese con un problema analogo, garantisco che all’appello «non mancava nessuno degli autori fondamentali del XX secolo»: Debussy, Copland, Stravinskij, Villa-Lobos, Ravel, Hindemith, Britten, Shostakovič, Crumb, Anderson, Adams, Pendercki, Holliger, Maderna, Furrer, Kurtág e molti altri ancora. Pertanto, a costo di darLe l’impressione di voler sfuggire alla domanda, Le rispondo con la battuta iniziale: credo che la squadra dei miei ventiquattro possa essere rappresentativa della ricchezza dei linguaggi musicali del XX e XXI secolo.

Quale importanza rivestono gli autori italiani del XX secolo, come Luciano Berio e Luigi Nono?
Un’importanza decisiva. Proprio i due nomi che Lei cita (ai quali ovviamene potremmo aggiungere quelli di Bruno Maderna, Giacinto Scelsi, Luigi Dallapiccola, Sylvano Bussotti, Alfredo Casella, Goffredo Petrassi, Fausto Romitelli e molti altri) sono tra coloro che senza dubbio hanno esercitato un’enorme influenza su altri loro colleghi e sul panorama musicale degli ultimi cinquant’anni.

Già a metà del Novecento, Berio emerge come una delle voci più interessanti e autorevoli del panorama italiano, e, di lì a poco, anche di quello internazionale, con il quale entra in rapporto diretto nel 1954. Lo fa partecipando ai “Corsi estivi per la nuova musica” di Darmstadt, fondati da Wolfgang Steinecke. Dopo pochi mesi, Berio costituirà, insieme a Bruno Maderna, lo Studio di Fonologia di Milano, presso la sede della Rai. Tra la ricerca iperdeterministica e razionalistica di Colonia (musica elettronica) e l’aderenza alla realtà acustica quotidiana di Parigi (musica concreta), a Milano si sceglie la via dell’esplorazione morfologica e semantica aperta delle possibilità organizzative del materiale sonoro, orientata verso una rivalutazione dell’aspetto lirico ed espressivo.

Al centro del dibattito emerso intorno ai protagonisti dello Studio c’è il problema del giusto equilibrio tra sperimentazione, artificio sonoro e invenzione semantica, equilibrio che deve reggere su un’idea fondamentalmente non-musicale. Tutta la produzione di Berio, da quella strumentale ed elettroacustica fino al teatro musicale, incarna l’idea di ricerca ininterrotta, di sperimentazione costante, animata da incessanti tentativi di combinazione – anche inedita – tra strumenti e stili espressivi, tra passato, presente e futuro. Berio è stato un vero Maestro.

Luigi Nono, a differenza del suo grandissimo amico ligure, ha interpretato il proprio ruolo di compositore in modo meno “pubblico”, per così dire, ma più militante. Per Nono (che si iscrive nel 1952 al Partito Comunista Italiano, del cui Comitato Centrale sarà membro a partire dal marzo del 1975), la musica deve saper intervenire nella situazione contemporanea, nella storia, nel mondo, nella vita reale, producendo nuovi contenuti e nuovi significati, istituendo nuovi rapporti con il contesto, con il pubblico, con la comunità. Tutte considerazioni, queste, che già ritroviamo in Berio, anche se prive di quella venatura ideologica che è presente in Nono.

Rispetto alla scelta di campo che, in quegli anni, non si poteva evitare di fare (serialismo sì, serialismo no), a un certo punto Nono decide di marcare una distanza e lo fa prima con la musica e poi prendendo una posizione teorica netta. Il canto sospeso, opera composta tra il 1955 e il 1956, è considerato da Massimo Mila «il solenne e vincente inizio» di un nuovo periodo dell’arte del compositore veneziano, che ha dato origine al riconoscimento di una «“linea Nono” sulla quale si possono incontrare coloro che dall’evoluzione inarrestabile della tecnica musicale sono disposti ad accettare tutto, riconoscendole il diritto di sperimentare, qualsiasi novità, purché non sia fine a se stessa». Questa “linea” separerà con nettezza due mondi: quello del compositore veneziano e quello di coloro che o lasceranno nascere le proprie opere dal caso o si muoveranno verso la serializzazione di tutti i parametri della composizione musicale.

Questo stato di cose troverà forma “saggistica” con l’intervento di Nono nei Corsi di Darmstadt del 1959, intitolato Presenza storica nella musica d’oggi, con il quale il compositore si pone in aperta polemica con i principali rappresentanti della “Scuola di Darmstadt” (figli e nipoti della Seconda Scuola di Vienna), della quale il compositore veneziano mette in evidenza contraddizioni e incoerenze. È in questo modo che Nono contribuisce alla spaccatura di un gruppo che fino ad allora era sembrato compatto. Da quel momento avremmo avuto, da una parte i musicisti della “nouvelle vague”, composto da post-weberniani, puntillisti ed elettronici, e, dall’altra parte, tutti quelli disposti a percorrere qualsiasi itinerario, a patto però di non cedere a un’idea particolarmente cara a Nono: dare vita a una tecnica musicale fine a sé stessa, senza subordinarla a una concezione universale dell’arte e a un’idea poetica della musica.

Il percorso da Lei disegnato parte da Arnold Schönberg per concludersi con Salvatore Sciarrino: in che modo il compositore palermitano ne è l’erede?
A dire il vero, la parabola disegnata nel mio libro che inizia con Schönberg e si conclude con Sciarrino non intende creare una relazione diretta tra il primo e il secondo. Sarebbe, infatti, improprio, se non sbagliato, attribuire a Sciarrino l’intenzione di custodire e tramandare l’eredità schönberghiana. Le dirò di più. Il compositore palermitano non si è mai sentito erede di nessuno, se non della tradizione musicale occidentale nella sua totalità (geografica e temporale) della quale, ovviamente, egli fa parte. Sciarrino compone musica che non è riconducibile a questa o a quella scuola, a questa o a quella moda. È riconducibile solo a sé stessa. Egli scrive musica con la libertà e la consapevolezza di chi, senza scendere a compromessi, è mosso da un inestinguibile slancio creativo, collocato all’interno di una visione dell’esistenza, dell’uomo, del mondo precisa, profonda ed etica.

Dal punto di vista poetico e musicale, per Sciarrino, comporre significa formulare una serie di risposte alla nostra percezione, alla nostra conoscenza, alla nostra immaginazione. In questo processo, la sfida più presente nel suo percorso è quella di rendere percepibile l’impercepibile, abitando il limite. Dove finisce il silenzio e inizia il suono? E cos’è il silenzio? È una condizione di incertezza, instabilità e allarme, nella quale ci assale la domanda: e adesso cosa accadrà? Nel silenzio che disorienta si insinua il suono nella forma dell’evento che si avvicina, si manifesta, si sviluppa e si scioglie nuovamente nel nulla che l’ha generato.

Giacomo Fronzi svolge attività di ricerca all’Università di Messina. Studioso di Adorno, si occupa di estetica contemporanea e di filosofia della musica. Pianista e critico musicale, collabora regolarmente con Rai Radio3. Tra le sue principali pubblicazioni: Theodor W. Adorno. Pensiero critico e musica (2011), Electrosound. Storia ed estetica della musica elettroacustica (2013; II ristampa 2018), La filosofia di John Cage. Per una politica dell’ascolto (2014) e Philosophical Considerations on Contemporary Music. Sounding Constellations (2017).

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