
Come si è evoluto il pensiero femminista in relazione ai temi della soggettività femminile e del binomio sessualità-maternità?
Tra gli anni Sessanta e Settanta, il pensiero femminista si è delineato con una produzione letteraria specifica e con un orientamento teorico che si rivolse al discorso dell’emancipazione femminile in ambito socio-economico e patriarcale. Un anno decisivo per il femminismo è il 1968, momento storico in cui il sentimento comune si indirizza attorno ad un radicale rifiuto della logica dicotomica-patriarcale. In questa fase, vediamo alcune tra le grandi interpreti del pensiero femminista, come Shulamith Firestone, Anne Koedt, Susan Brownmiller, Luce Irigaray, Julia Kristeva, Hélène Cixous e Adrienne Rich, interrogarsi sui condizionamenti “fallogocentrici” destrutturanti della soggettività femminile. Nel quadro delle posizioni interne al femminismo, la “sudditanza naturale”, che nella cultura paternalista sembrava contraddistinguere le donne, viene ri-discussa in merito al tema della sessualità, come elemento cardine di una costruzione patriarcale il cui intento è di imprimere su di essa, la regolazione sociale della funzione biologica-materna. Il nesso “femminilità-sessualità-maternità” è di interesse per il femminismo, il quale intravede soprattutto nella sessualità, un modo per affermare nelle donne la propria identità soggettiva. Una sessualità, peraltro, collegata al tema della scelta personale e deliberata delle donne, le quali hanno il diritto di decidere su di sé, discorso posto in relazione all’autodeterminazione sul corpo e sulla procreazione. Mi sembra importante quindi sottolineare, che l’affermazione identitaria per le donne inizia ad essere percepita, propriamente, attraverso la maternità – pur con alcune differenze teoriche, in seno al femminismo – quale funzione, costitutivamente femminile che può diventare “strumento” di una reale contrapposizione all’ordine patriarcale della filiazione, mediante il rafforzamento della genealogia in chiave materna.
Quali diversificazioni teoriche hanno contrassegnato il femminismo degli anni Ottanta e Novanta?
Negli anni Ottanta, il dibattito sulla sessualità femminile, sulla riproduzione e la maternità si arricchisce di nuove riflessioni. Il pensiero delle donne che viene a profilarsi con vigore in ambito accademico, con la formazione dei Gender e Women’s Studies, contribuisce ad un ampliamento della riflessione sulle problematiche relative alla differenziazione sociale tra i due sessi. Alla tradizionale differenza di genere, vengono prese in considerazione anche le variabili sociali, culturali, razziali, e altre forme di discriminazione nell’ambito del lavoro, oltre che le violenze psicologiche e sessuali perpetrate contro le donne. Ed è proprio la trasversalità di queste tematiche, che evidenzia le criticità interne alla questione della differenza. Dalle tematiche legate ai problemi di classe sociale, appartenenza etnica, orientamento sessuale, sessismo, il femminismo inizia a focalizzarsi con uno sguardo “intersezionale”, sui fattori paternalistici e androcentrici, convergenti con una costruzione determinata del ‘femminile’, cristallizzata su una narrazione della subalternità. In tal modo, dal pensiero femminista post-coloniale a quello afroamericano, il nesso sessualità-corpo diviene il leitmotiv di una rappresentazione che sembra essere funzionale ad una definizione oppressiva della soggettività femminile, della donna “altra” come “racconto” ideologico e aprioristico, con l’obiettivo di accentuare la differenza. La dicotomia tra donna e uomo, dunque, può essere letta nei termini di una condizione oppressiva, con origini storico-culturali ben consolidate e con una forte persistenza ancora oggi, che ha indubbi legami in un sistema, certamente patriarcale, ma di tipo economico e neo-coloniale. Vi è quindi la necessità di riformulare il significato di “autonomia sul corpo”, laddove nell’affermazione dell’autonomia si scorge la contrapposizione ad ogni individualismo e particolarismo sociale.
Come sono emerse le posizioni del femminismo della cura?
Nella domanda precedente ho risposto che, corpo e sessualità, ad un certo punto, costituiscono il leitmotiv di una riflessione femminista, che cerca di identificare la libertà delle donne sull’affermazione dell’autodeterminazione sul corpo. Pertanto, le battaglie femministe per il diritto di voto e la rivendicazione dell’uguaglianza di genere, convergono con nuove elaborazioni integrate di temi volti ad una comprensione del concetto di “autodeterminazione”, in particolare nell’ambito del care ethics, ove i presupposti teorici del femminismo sono connessi al ruolo delle donne nella sfera della salute e della maternità. Le nozioni di corpo, sessualità, autodeterminazione, allora, vengono discusse in funzione di ulteriori interrogativi attinenti all’etica della cura, un’etica predisposta alla “relazionalità” con l’altro, alla sensibilità e all’ascolto delle sue necessità. In questi termini, l’etica della cura, che si sviluppa in area statunitense negli anni Ottanta, si contraddistingue per la contrapposizione ad un concetto di autonomia statico, ossia che non tiene conto dei differenti orizzonti sociali, culturali o economici di un soggetto da un altro, piuttosto che di alcune situazioni sociali, che potrebbero acuire condizioni di svantaggio e/o vulnerabilità nella vita di una donna, giacché comprendere significa considerare tutte quelle discriminanti, inevitabilmente, coesistenti all’autonomia e alla scelta personale di un soggetto. In questa prospettiva, l’approccio femminile alla cura, individua la posizione della donna connessa a variabili culturali, sociali ed economiche, le quali possono influire, sul piano della differenziazione e della vulnerabilità, sulle sue scelte in merito ad alcune questioni come la procreazione e la maternità. Qui la connessione tra femminismo della cura e bioetica, emerge con chiarezza rispetto ad un’argomentazione che vede l’importanza del principio del “curare” o “avere cura dell’altro”, il fattore principale attraverso cui realizzare la relazionalità. Laddove un intervento sanitario, tende a focalizzarsi principalmente sulla cura medica appropriata, escludendo l’emotività o la vulnerabilità soggettiva, l’etica della cura propone invece una ri-valutazione della dimensione umana e dei legami interpersonali, quale azione decostruttiva delle relazioni paternaliste e di tipo gerarchico. In tal modo, l’apertura alla “relazione” presuppone responsabilità, cura e sollecitudine alle dinamiche relazionali, soprattutto, nel caso in cui tale dinamica venga traslata sul piano della relazione medico-paziente donna.
Qual è il pensiero femminista sulle tecnologie riproduttive?
Negli ultimi anni, il dibattito femminista si è arricchito di una nuova prospettiva che individua di una certa rilevanza il corpo femminile, nella dimensione dell’agire con riguardo l’intervento delle tecnologie sulla sfera riproduttiva femminile. Su questo aspetto, il pensiero femminista si è diversificato in posizioni ed orientamenti, ove la differenza teorica viene a caratterizzare due linee concettuali. Una liberale che vede la tecno-scienza essere di ausilio alla libertà, all’autonomia delle donne sul corpo e ad una riorganizzazione della loro sessualità, l’altra propensa invece, per una visione negativa dell’utilizzo delle metodiche riproduttive, insistendo sul fattore tecno-scientifico volto ad una intromissione sulla vita procreativa delle donne, sino a produrre una mercificazione del corpo a fini riproduttivi. In tale concezione negativa, dunque, si rinviene un orizzonte bio-economico, intrecciato ad un potere neo-patriarcale, fortificato da pratiche economiche con configurazioni dirette nel processo di “medicalizzazione” del corpo. In quest’ottica, il corpo delle donne sembra essere al centro di interessi economici con l’obiettivo di sfruttare, il più possibile, il loro potenziale riproduttivo, di cui sono espropriate, per esempio nel caso della “maternità surrogata”, altrimenti definita “utero in affitto”. In questo senso, il discorso sulla maternità/genitorialità, realizzata attraverso le metodiche scientifiche, viene inserito nella questione del “diritto al figlio”, ove il desiderio individuale diverge dalla condizione personale di quelle donne, direttamente implicate nella pratica di surrogazione riproduttiva, in cui l’autodeterminazione procreativa – nei termini di una relazione di natura strettamente commerciale, tra coppia committente e donna surrogata – quindi può venir meno. In tal modo, la riproduzione inserita in un meccanismo di manipolazione tecnica della biologia femminile, è connessa non solo al tema di una scissione della procreazione dalla sessualità, ma anche al problema della subalternità della donna che presta il suo corpo per ragioni economiche, aspetto che rende evidente la possibile vulnerabilità rispetto a discriminanti di carattere sociale. Sotto questo profilo, la biotecnologia, ri-concettualizzata alla luce di istanze tecniche, si pone nell’ottica di una frammentazione soggettiva della donna, modellata secondo logiche economico-patriarcali di sfruttamento del corpo femminile.
Laura Sugamele (dottorato di ricerca in Studi politici – Sapienza Università di Roma) si occupa di reificazione del corpo femminile, patriarcato e violenza sessuale esaminata come questione politica. Autrice di numerosi saggi per riviste scientifiche e di settore, i suoi interessi di ricerca riguardano gli studi di genere e il pensiero femminista, con un focus sul femminismo postcoloniale e l’ecofemminismo, nonché il tema delle tecnologie riproduttive e della “maternità surrogata”.