
di Giuseppe Cambiano
il Mulino
«La scrittura coinvolge l’addestramento alla lettura. Ma fu probabilmente una conseguenza imprevista dell’invenzione della scrittura il fatto che alcuni non si sarebbero limitati a leggere quanto scritto da altri, ma si sarebbero accinti a loro volta a scrivere su scritti altrui. Ciò è avvenuto in alcune culture, tra le quali la cultura di quello che viene chiamato Occidente. Le ragioni che hanno indotto a questa «metascrittura» sono state molteplici e sono variate secondo i tempi e i luoghi: esse vanno dal contrapporre a uno scritto un altro scritto per confutarlo e demolirlo oppure allo scopo di rafforzarlo, conferirgli autorevolezza o proseguirne le indicazioni e svilupparle. Tra queste ragioni si è affermata anche l’esigenza della cosiddetta interpretazione dei testi scritti, basata sul presupposto che il testo non sia autosufficiente, ma richieda integrazioni in qualche modo esplicative per poter essere compreso: in questo senso l’interpretazione si pone da intermediaria tra il testo o i testi ed eventuali lettori, richiedendo anch’essa di essere letta. In quanto appartenente a questo strano gruppo di personaggi che scrivono su scritti altrui, ho cercato di riflettere sui modi in cui oggi è praticato questo peculiare tipo di scrittura su testi «classici», in particolare sui testi dei filosofi antichi. La nozione di classico è ampia e variegata, è stata applicata ad ambiti diversi, dalle produzioni letterarie alle arti figurative, alla musica, nonché ad epoche diverse della vicenda umana. In linea molto generale si possono distinguere due usi di essa: 1) un uso descrittivo e cronologico, volto a caratterizzare testi o opere prodotti nell’antichità greca e romana, qualificata appunto come «antichità classica»; 2) un uso valutativo e, a volte, normativo, volto a caratterizzare la qualità di determinati testi e opere, a prescindere dal momento e dal luogo in cui sono stati prodotti. Il fatto che determinate opere del passato hanno continuato e continuano a essere oggetto di lettura, di visione o di ascolto da parte di fruitori singoli o legati a istituzioni è stato talvolta spiegato facendo appunto riferimento a valori di cui queste opere sarebbero portatrici. Sarebbe la permanenza di questi valori a consentire a queste opere di attraversare indenni i secoli e conservare inalterata la loro «attualità». Proprio per questo, più volte esse sono state presentate come vertici o modelli, imitabili oppure inimitabili e irraggiungibili. Non di rado nella vicenda culturale europea i due usi si sono intrecciati, mostrando come il concetto di classico difficilmente si sia presentato come un concetto neutrale, puramente descrittivo. Il primo capitolo di questo libro cerca di mostrarlo in relazione alla discussione sulla nozione di classico che ebbe luogo in Germania alla vigilia dell’avvento del nazismo e che rappresenta, a mio avviso, un punto di non ritorno.
Un aspetto emergente in questa discussione è il privilegiamento di quella che ho battezzato «cosmetica» dei classici. Ho tentato di analizzarla istituendo anche un confronto con la nozione di restauro, quale si configura nell’ambito delle arti figurative. Ma le mie considerazioni hanno per oggetto i testi classici della filosofia antica e, più in generale, della filosofia e non è detto che valgano automaticamente anche per altri ambiti: la diversità di opere, testi e generi non è fattore irrilevante. L’operazione cosmetica consiste nel mettere in rilievo, trascurando o addirittura occultando aspetti dei testi classici che potrebbero sconfermare o indebolire la propria interpretazione scritta di tali testi, ed evitando di considerarne aspetti che potrebbero anche sembrarci sgradevoli, contraddittori, logicamente erronei o incompatibili con i nostri valori. Propria del restauro cosmetico diventa allora la costruzione di storie teleologiche della filosofia, orientate positivamente o anche negativamente verso lo sbocco della filosofia fatta propria dall’interprete. Abitualmente ciò conferisce alla propria interpretazione una patina eroica e una dimensione totalizzante che mira a escludere già in linea di principio ogni possibilità di interpretazioni divergenti. Di fronte a queste prospettive, un restauro non cosmetico verrà a configurarsi freudianamente come opposizione di un principio di realtà a un principio del piacere. Sull’interprete o storico della filosofia non cosmetico graverà allora il compito scarsamente popolare, perché non consolatorio né edificante, di lasciar sussistere nei testi del passato anche ciò che può risultare sgradevole al presente e di sollevare perplessità sulle grandi narrazioni teleologiche a denominatore unico, sia dei moderni sia dei postmoderni, capaci di scandire epoche con tagli netti e di vedervi solo luci o solo ombre. […]
Il punto cruciale è invece il riconoscimento che un’interpretazione scritta non equivale alla semplice lettura del testo, non è mai la semplice trascrizione passiva e totale di questa lettura, che rimane di per sé un evento privato inaccessibile ad altri. Questa è la mia assunzione, che naturalmente potrà essere confutata. Certo, un’interpretazione messa per iscritto presuppone (o, almeno, dovrebbe presupporre) la lettura e sovente anche riletture riletture di uno stesso testo, guidate da orizzonti di attesa o da ipotesi suscitate da una prima lettura o in seguito alla lettura di altre interpretazioni o a problemi emersi indipendentemente al di fuori di un riferimento immediato al testo letto. Non solo, ma la rilettura può essere motivata da un orizzonte di attesa diverso da quello che guidava la prima lettura e l’interpretazione scritta implicitamente o esplicitamente fornisce anche motivazioni e giustificazioni di se stessa e della legittimità degli esiti prodotti dalla lettura guidata da questi rinnovati orizzonti di attesa. Non va sottovalutata l’operazione di scrittura in cui vengono a condensarsi e a ridisporsi in determinati ordini i vari processi di lettura e rilettura, e non sapremo mai fino a che punto questa scrittura sarà la riproduzione fedele e integrale della lettura in tutti i suoi momenti e aspetti. Ma probabilmente non è questo che interessa, cioè penetrare nei meandri inaccessibili della mente dell’autore per vie diverse da quanto è consegnato nello scritto. Pare che all’Università di Yale si stia organizzando un esperimento per controllare le reazioni cerebrali alla lettura di un romanzo, prospettando la possibilità di una critica letteraria neurologica. Certo ciò renderebbe la lettura un evento meno privato, accessibile anche dall’esterno nei suoi effetti fisici, ma ci si può chiedere se esso consenta di accertare tutti gli effetti prodotti da una lettura o soltanto alcuni effetti emotivi. Il presupposto sembra essere che ci siano reazioni uniformi a uno stesso romanzo, ma qual è il livello di generalità e di ampiezza di tali reazioni? Riguarda solo gradi di intensità o è possibile anche penetrare nelle peculiarità di eventuali reazioni individuali? Ancor più difficile è dire quanto questa procedura sia trasferibile alla lettura di un testo filosofico, dove l’impatto emotivo può essere meno forte: si registrerà una generale maggiore eccitazione di fronte all’analitica o di fronte alla dialettica trascendentale della critica della ragion pura kantiana? Resta il fatto, a mio avviso, che l’interpretazione si configura come altro dalla semplice lettura. Anche quando è esposta oralmente, un’interpretazione si consuma in tale performance e si sottrae a un controllo puntuale da parte di altri, a meno che non venga trascritta parola per parola o registrata con mezzi meccanici, un tempo non disponibili, ma ciò equivale di fatto a una scrittura di essa. E il medio della scrittura inserisce l’interpretazione in un contesto comunicativo. Ciò comporta alcune conseguenze. In primo luogo, come si è detto, la scrittura non è la semplice trascrizione delle reazioni psicologiche prodotte dalla lettura in ogni momento della sua sequenza, ma è la produzione di un ordine discorsivo che, rendendosi pubblico, mira anche a essere condiviso. A tale scopo sono mobilitate risorse argomentative e persuasive, ricorsi a prove, formulazioni di critiche esplicite o implicite di interpretazioni alternative o ricerca di sostegno in altre, magari sviluppandole. Soprattutto, con la scrittura l’interpretazione viene inserita in uno spazio pubblico, accessibile anche ad altri, generando nei suoi destinatari orizzonti di attesa, che dovranno, a loro volta, guidare questi destinatari nella lettura o rilettura dei testi oggetto dell’interpretazione, qualora essi decidano di leggere per la prima volta o di rileggere il testo oggetto dell’interpretazione. […]
La scrittura dell’interpretazione non è la semplice lettura, ma se cessassero le letture di certi testi, anche di quelli che sono definiti «classici», probabilmente cesserebbero anche le interpretazioni di essi. Si ripropone allora la tradizionale ricorrente domanda: perché leggere i classici? Le risposte a questa domanda sono per gran parte retoriche, con appelli ai valori e così via. Si tratta di risposte che possono andar bene soltanto per chi è già convinto di dover leggere i classici. Ma per chi non lo è? Nella Conclusione ho tentato di fornire alcuni argomenti per convincere un interlocutore che però non fosse del tutto ostile ad ascoltare queste argomentazioni. Ma naturalmente non si può nutrire l’illusione – spesso diffusa tra filosofi – che semplici argomentazioni bastino a convincere chi è indotto a proprie scelte da altre motivazioni. In un saggio pubblicato nel 1981 con il titolo Italiani, vi esorto ai classici, poi ripubblicato con il titolo Perché leggere i classici, senza punto interrogativo, Italo Calvino, dopo aver formulato varie proposte di definizione di classico, concludeva che «la sola ragione che si può addurre è che leggere i classici è meglio che non leggere i classici» e che, «se qualcuno obietta che non val la pena di far tanta fatica», si citerà Cioran, che raccontava: «Mentre veniva preparata la cicuta, Socrate stava imparando un’aria sul flauto. “A cosa ti servirà?” gli fu chiesto. “A sapere quest’aria prima di morire.”»